Mons. D’Ercole ricorda p. Schumacheur

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‘Era così bello!’, ripeteva commuovendosi il monaco trappista Jean-Pierre Schumacheur, quando ricordava i lunghi anni di vita fraterna trascorsi insieme ai suoi confratelli nel monastero algerino di Thibirine, trucidati nel 1996 in una delle più luminose vicende di martirio cristiano degli ultimi decenni. Però domenica 21 novembre, festa di Cristo Re dell’Universo anche l’ultimo ‘sopravvissuto’ di Thibirine, è deceduto nella quiete del monastero di Notre-Dame de l’Atlas, situato a Midelt, alle pendici dell’Atlante marocchino.

Quattro anni dopo il martirio dei suoi confratelli, Jean- Pierre Schumacheur si era trasferito in Marocco, divenendo priore della comunità trappista di Notre-Dame de l’Atlas. Nella loro nuova dimora, frére Jean-Pierre e frère Amédée si definivano il ‘piccolo resto’ di Tibhirine: “La nostra presenza al monastero era un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina…

A Tibhirine le campane del monastero suonavano e i musulmani non ci hanno mai chiesto di farle tacere. Noi ci rispettiamo nel cuore stesso della nostra vocazione comune: adorare Dio…

In Marocco noi viviamo questa comunione nella preghiera, quando ci alziamo di notte per pregare, alla stessa ora in cui i nostri vicini musulmani sono svegliati dal muezzin. La fedeltà all’appuntamento della preghiera è il segreto della nostra amicizia con i musulmani”.

A questa morte il vescovo emerito di Ascoli Piceno, mons. Giovanni D’Ercole, che vive nello stesso monastero, ha ricordato in una lettera la sua figura:

“Uomo di pace, così scrivono e dicono di lui tutti coloro che in ogni parte del mondo ne commentano la scomparsa avvenuta nel monastero Notre Dame d’Atlas, solitario luogo di presenza cristiana in pieno territorio abitato da popolazione berbera islamizzata dalla occupazione degli arabi”.

Ed ha raccontato la sua giornata nella trappa: “Il suo apostolato era dialogare per corrispondenza: riceveva e rispondeva sempre personalmente alle migliaia di lettere di amici e conoscenti con i quali intratteneva un contatto spirituale costante:

con queste persone sono da 17 anni che intrattengo una corrispondenza regolare pur non conoscendole e senza averle mai viste. La mia missione è ascoltare, pregare e consolare. Ma ora non ce la faccio più”. 

Ha raccontato la sua preghiera: “Sempre più debole, s’avvertiva la fatica e la debolezza dell’età, ma dal suo volto traspariva la pace interiore che l’abitava e che riusciva a comunicare a tutti. Sì, questo era il suo carisma: vivere nella pace e trasmetterla a chiunque lo incontrava”.

Questa è la testimonianza che il trappista ha lasciato: “Non si costruisce qualcosa di solido e di duraturo se non con l’impegno della fedeltà quotidiana al proprio ideale, anche a costo della vita. Quando negli anni ’60 del secolo scorso p. Jean Pierre entrò nel monastero di Tibhirine, in Algeria, dove poi giungerà p. Christian de Chergé e ne sarà la guida, l’obiettivo era chiaro e certamente coraggioso: essere monaci fra gli algerini, testimoniare il vangelo come oranti inseriti nel popolo musulmano, popolo che prega”.

E’ la missione del cristiano: “Una missione non facile da capire e ancor più da portare a compimento. Accanto alla cordiale simpatia della gente del luogo non sono mancati rischi e minacce da parte di estremisti islamici.

Il primo tentativo di sequestro avvenne la sera del 24 dicembre del 1993, proprio mentre si preparavano per la Veglia di Natale, tentativo scampato perché il Priore comunicò al capo del commando che quella era una notte sacra per i cristiani e i rapitori rilasciarono i monaci promettendo però di ritornare”.

Però quale è il testamento lasciato?, si chiede il vescovo emerito di Ascoli Piceno: “In questi anni in cui il confronto con l’islam ha suscitato l’interrogativo se sia possibile essere cristiani in un paese musulmano, il suo esempio si somma all’eredità preziosa dei martiri di Tibhirine.

Il loro esempio, e soprattutto la loro testimonianza, che s’inscrive nella scia di Charles de Foucauld (sarà proclamato santo nel mese di maggio del prossimo anno) e di altri precursori di questo dialogo prova che è possibile cercare una via di incontro”.

Un dialogo interreligioso, che nasce da un’amicizia: “Non si tratta però di coltivare il dialogo teologico perché sarebbe impossibile conciliare le due diverse visioni di Dio e della religione.

E’ sempre però possibile il confronto che si fa abbraccio e che aiuti a diventare amici nel rispetto reciproco, un’amicizia spirituale tra persone alla ricerca di Dio e un impegno quotidiano ad abbattere i pregiudizi per costruire una fraternità fatta di piccoli gesti di rispetto e di collaborazione. E’ la cifra della fratellanza che si è andata stabilendo tra i monaci e la comunità musulmana che circonda il monastero”.

Però il dialogo può esserci ci deve essere la fede: “Ma perché il dialogo avvenga nella verità è indispensabile, come i monaci mostrano con la loro presenza, vivere nella Chiesa fedeli al vangelo senza compromessi ed essere disposti a dare la vita affinché trionfi l’Amore.

E così, questi monaci diventano segni di amore e di speranza, ‘oranti tra gli oranti’, rendendo presente silenziosamente Gesù Cristo fra una popolazione che lo conosce ma non lo riconosce come Dio. Una presenza segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione musulmana, un modo semplice di ricercare e costruire il dialogo islamo-cristiano nel quotidiano, il dialogo della vita”.

Infine una considerazione per un vero dialogo interreligioso: “Il problema, la difficoltà più preoccupante per il dialogo è invece l’indebolimento della fede in quelle comunità che, per falso spirito ecumenico o inutile buonismo, rinunciano alla propria identità cristiana.

In questo modo ci si condanna all’irrilevanza spirituale in un periodo in cui invece una religione dall’identità consolidata e dalla forte cifra spirituale sta installandosi anche in Italia e ha bisogno di confrontarsi con esperienze spirituali forti come quella che qui si vive per non cedere alla tentazione del laicismo imperante.

Se l’islam non é un pericolo di per sé, come secoli di convivenza dimostrano, può diventarlo quando i cristiani abbandonano o rrendono evanescente la propria fede e la propria appartenenza ecclesiale.

A bene vedere esistono anche in Italia positive esperienze di incontro fra cristiani e musulmani; questo confronto nella verità e nell’amore fraterno (quello che p. Jean Pierre chiamava il dialogo dell’amicizia), come è avvenuto in tanti casi, aiuta ciascuno a meglio riscoprire la propria fede e a saperla testimoniare con rispetto diventando così reciproco arricchimento”.

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