Suicidio assistito:la vita prevalga

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Nelle settimane scorse ‘Mario’ (nome di fantasia) aveva chiesto di avere il farmaco che gli avrebbe consentito di morire invocando la sentenza Fabo-Cappato (242 del 2019) della Corte costituzionale con la richiesta, attraverso l’associazione ‘Luca Coscioni’, che ha portato anche a un’azione legale al Tribunale di Ancona contro l’Azienda sanitaria regionale in cui si ipotizzavano inadempienze della stessa.

L’ASUR aveva vincolato la sua decisione alla pronuncia del Comitato etico regionale e dopo due pronunce dei giudici di Ancona, è arrivato il parere del Comitato che riconosce nel caso di Mario i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito previsti dalla sentenza del 2019 con alcuni interrogativi; in particolare rileva che non è motivata la scelta ipotizzata del dosaggio a 20 grammi del farmaco scelto e che non viene specificata la modalità per sedare il paziente.

Di fronte a questa ‘soluzione’ l’associazione ‘Scienza & Vita’ ha parlato di sconfitta pesante per la medicina: “Anzitutto la sconfitta di una vita umana segnata dalla malattia e dalla sofferenza, che non riesce a riconoscere più in se stessa quella dignità personale in verità mai perduta.

Poi, una sconfitta per l’esercizio della medicina, il cui plurisecolare paradigma di dedizione assoluta alla cura e all’assistenza delle persone malate, sempre in favore della vita, viene adesso sovvertito, quasi ‘ribaltato’, includendo in quell’assistenza anche la possibilità di ‘dare la morte’ intenzionalmente”.

Eppoi è una sconfitta per la società: “E’ una sconfitta anche per la comunità civile, che non riesce a manifestare adeguatamente e sufficientemente il proprio impegno di solidarietà, vicinanza e condivisione verso i più fragili e bisognosi dei suoi membri.

Cosicché, al grido di dolore di chi soffre segnato dalla malattia, risponde spianando la via ad una sbrigativa (e più economica?) ‘scorciatoia’ verso la morte procurata, ergendosi a paladina di una malintesa ‘libertà personale’, del tutto individualistica e autoreferenziale”.

Anche la Pontificia Accademia per la Vita in una nota ha sottolineato che il ‘caso’ è un terreno ‘delicato’: “Si pone, in altri termini, l’interrogativo (almeno l’interrogativo, se non altro per non perdere l’amore e l’onore del giuramento che sta al vertice di tutte le pratiche di cura) se non siano altre le strade da percorrere per una comunità che si rende responsabile della vita di tutti i suoi membri, favorendo così la percezione in ciascuno che la propria vita è significativa e ha un valore anche per gli altri.

In tale linea, la strada più convincente ci sembra quella di un accompagnamento che assuma l’insieme delle molteplici esigenze personali in queste circostanze così difficili. E’ la logica delle cure palliative, che anche contemplano la possibilità di sospendere tutti i trattamenti che vengano considerati sproporzionati dal paziente, nella relazione che si stabilisce con l’équipe curante”.

Per la Pontificia Accademia per la Vita si pone il problema del ruolo dei Comitati etici territoriali: “Non si può escludere che la difficoltà della risposta sia stata determinata anche dalla difficoltà di chiarire il ruolo da svolgere. Infatti la dizione impiegata non è quella abituale (finora si è parlato di Comitati per la sperimentazione clinica di Comitati per l’etica clinica)”.

Infatti tali Comitati non ha un compito specifico: “Del resto, nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 si richiede un compito che non corrisponde a quanto è previsto per entrambe le tipologie finora note: si tratta di operare un giudizio vincolante di conformità della particolare situazione clinica alle quattro condizioni stabilite dalla Sentenza della Corte Costituzionale.

Un compito cioè che potrebbe più adeguatamente essere svolto da un comitato tecnico (medico-legale) che verifichi la sussistenza delle condizioni prescritte. Un comitato di etica potrebbe essere più correttamente coinvolto in una consultazione previa alla decisione del paziente”.

Anche per don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Cei, la vita deve essere tutelata: “Quando una persona sceglie di terminare la propria vita si impongono atteggiamenti di profondo rispetto per chi vive una sofferenza tale da decidere di smettere di vivere. La sofferenza delle persone va sempre considerata e se porta ad una scelta così estrema significa che è molto alta”.

Allo stesso tempo don Angelelli ha chiesto vicinanza verso chi soffre: “Un altro atteggiamento richiesto è di vicinanza fraterna a chi soffre in questo modo, perché non si senta solo. La comunità cristiana prega e accompagna ogni sofferente. Al tempo stesso non è condivisibile ogni azione che vada contro la vita stessa, anche se liberamente scelta”.

La vita, quindi, deve essere tutelata: “La vita è un bene ricevuto, che va tutelato e difeso, in ogni sua condizione. Nessuno può essere chiamato a farsi portatore della morte altrui. La coscienza umana ce lo impedisce.

La comunità civile, anche attraverso le sue scelte pubbliche, è chiamata ad assicurare le condizioni perché ogni sofferente sia sollevato dal dolore, anche attraverso i percorsi palliativi, e garantire le cure necessarie ai malati che sono al termine della loro vita”. ​

Infine i vescovi marchigiani esprimono “vicinanza e pregano per chi è nella sofferenza di ogni malattia o sta affrontando situazioni di dolore e di sofferenza. Si rammaricano che ci sia chi nella sofferenza ritiene di rinunciare alla vita, scelta che ritengono di non poter mai condividere.

Esortano a non perdere mai la speranza anche nella malattia e nei momenti più dolorosi, ricorrendo a tutti i mezzi che la medicina mette a disposizione per lenire il dolore.

Ritengono che la scelta di darsi la morte non sia mai giustificabile e che compito di solidarietà sociale sia creare le condizioni affinchè questo non avvenga mai, senza lasciare nessuno nella solitudine della sua malattia. La vita è un bene ricevuto che va sempre difeso e tutelato”.

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