Da Venezia mons. Moraglia invita a pregare la Madonna

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Domenica scorsa a Venezia si è festeggiata la Madonna della Salute, una tradizione millenaria, che vuole che ci si debba recare in pellegrinaggio alla basilica che si trova nel sestiere di Dorsoduro, all’altezza di Punta della Dogana. In tutto il nord Italia, tra il 1630 e il 1631 vi fu una spaventosa epidemia di peste bubbonica della quale scrive anche Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi.

Anche Venezia pagò un caro scotto, colpita da una violenta ondata che causò 80.000 morti in città e 600.000 in tutto il territorio della Serenissima. Secondo le ricostruzioni storiche, la peste sarebbe stata portata a nella città lagunare da un ambasciatore del duca di Mantova, Carlo I Gonzaga Nevers, che venne immediatamente spedito nel Lazzaretto Vecchio in quarantena.

I veneziani chiesero l’intercessione della Madonna e il patriarca Giovanni Tiepolo pronunciò il voto solenne ‘… di erigere in questa Città e dedicar una Chiesa alla Vergine Santissima, intitolandola Santa Maria della Salute, et ch’ogni anno nel giorno che questa Città sarà pubblicata libera dal presente male, Sua Serenità et li Successori Suoi anderanno solennemente col Senato a visitar la medesima Chiesa a perpetua memoria della Pubblica gratitudine di tanto beneficio’. Era il 22 ottobre del 1630.

L’epidemia cessò e, per onorare il voto fatto, venne dato mandato all’architetto Baldassarre Longhena di progettare la Basilica della Salute così come ancora oggi è possibile ammirarla.

Nell’omelia il patriarca Francesco Moraglia ha sottolineato che i veneziani si ritrovano oggi a pregare la Madonna come nel XVII secolo: “Le cronache di questi giorni rimandano, nelle mutate situazioni storiche, a quelle del XVII secolo; siamo, infatti, ancora alle prese con una pandemia che condiziona la nostra vita quotidiana, ci affligge ormai da quasi due anni e non è stata ancora debellata.

I mesi di pandemia (e non meno gli ultimi giorni) ci hanno fatto toccare con mano la nostra fragilità e debolezza, cancellando ogni pensiero di umana onnipotenza e insegnandoci, pure, che non bisogna dare nulla per scontato e come ognuno di noi, secondo i propri compiti, sia tenuto a prudenti e solidali comportamenti, consoni al difficile momento che viviamo”.

L’omelia del patriarca è un invito alla responsabilità: “Così, con senso di responsabilità, verso di sé e gli altri, perseguiamo il contenimento del contagio guardando sia al bene personale sia a quello comune, alla salute ‘integrale’ dell’uomo che è (insieme) fisica, psichica, spirituale”.

Quindi niente può essere dato per scontato se non c’è responsabilità: “Nemmeno l’auspicata ‘ripresa’ (in cui tutti confidiamo e, in particolare, le famiglie e le imprese più provate) può essere data per scontata se ognuno di noi, ad iniziare da chi ha maggiori possibilità d’intervento, non farà quanto gli è chiesto per il bene presente e futuro della comunità a cui appartiene”.

Riprendendo il passo evangelico delle ‘nozze di Cana’ mons. Moraglia ha sottolineato il compimento della creazione: “Le nozze di Cana, secondo l’evangelista Giovanni, sono l’annuncio e il compimento della nuova creazione operata da Gesù.

Il libro della Genesi narra la settimana in cui, giorno dopo giorno, si sviluppa l’opera di Dio, la creazione del cielo, della terra, degli animali, dell’uomo, una settimana che avrà termine col riposo di Dio. Giovanni narra la nuova creazione, ossia la vocazione-chiamata dei discepoli; tutto è descritto fra il primo e il secondo capitolo e il ritmo è quello settimanale”.  

Ritrovandoci intorno ad una tavola inizia un cammino, che si concretizza nell’Eucarestia: “Gesù è la novità della storia, è Lui il cuore della rivelazione, è Lui l’eterno Sacerdote e, quindi, il Cammino sinodale che abbiamo appena iniziato sarà tanto più vero quanto più ci ascolteremo reciprocamente, dando voce a tutti, camminando insieme, sapendo che siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sul Signore Gesù, vera novità e riforma della Chiesa…

E’ evidente il richiamo all’Eucaristia: il vino nuovo che viene donato da Gesù, il contesto del banchetto che rimanda a quello eucaristico, l’anticipazione del banchetto escatologico e il rinvio ad esso”.

La Chiesa si forma intorno all’Eucarestia: “La comunità ecclesiale non è padrona dell’Eucaristia, così da poter esercitare su di essa un dominio; il gesto eucaristico, infatti, è sempre prima di tutto un atto di Cristo, lo Sposo, che abilita la Chiesa, sua sposa, a compiere il medesimo atto…

La Chiesa, quindi, non può disporre dell’Eucaristia senza un fedele riferimento alla Rivelazione. La Chiesa (la sposa) sa d’essere plasmata da Cristo (lo Sposo); propriamente la Chiesa non possiede l’Eucaristia ma è posseduta dall’Eucaristia e ne è plasmata, è l’esito dell’Eucaristia e, quindi, appartiene all’Eucaristia e non viceversa. L’Eucaristia è Gesù in persona che si dona e si fa presente in modo sacramentale, ossia nel mistero”.

Infine l’Eucarestia è incontro personale con Gesù: “Anche nel Cammino sinodale sarà essenziale guardare all’Eucaristia non come a puro segno o semplice banchetto o incontro di fratellanza umana. Tutto ciò sarebbe ancora poca cosa e, alla fine, una incomprensione del dono di Dio.

L’Eucaristia, invece, va riscoperta come incontro personale con Gesù, il Risorto; è incontro con la Sua persona e si tratta, alla fine, d’inscrivere le Sue parole e i suoi gesti nella nostra vita e in quella dell’intera comunità. L’Eucaristia è la vita, la morte e la risurrezione che si compiono nell’ora di Gesù, donatoci nel convivio”.

(Foto: Patriarcato di Venezia)

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