L’etica della persona rinnovi il mondo del lavoro. L’intervento della Santa Sede all’ILO

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Migliorare le politiche per l’occupazione, inserirle in un quadro che formi la politica e mobilizzi l’assistenza internazionale allo sviluppo. Ma soprattutto, ripartire dall’essere umano, che spesso è meramente considerato “un consumatore di beni che può essere usato e gettato via”. Alla 102 sessione dell’International Labour Conference, Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso la sede ONU di Ginevra, sottolinea in un intervento del 12 giugno la necessità di una nuova cultura del lavoro. Una cultura che parta dall’essere umano, che si fondi sulla famiglia, e che così crei sviluppo. Uno sviluppo a misura d’uomo.

La situazione è difficile. C’è bisogno, nei prossimi 10 anni, di creare tra i 45 e i 50 milioni di posti di lavoro per “rimanere al pari con la crescita dell’età lavorativa della popolazione mondiale e di ridurre la disoccupazione causata dalla crisi”. Ma l’ondata di tecnologizzazione “altera la capacità della moderna industria manifatturiera e la possibilità per i servizi di creare nuovi lavori”. E così nelle nazioni “le crescenti ineguaglianze di reddito e di opportunità indeboliscono la fabbrica sociale e politica delle nostre società”, alimentando un ciclo “di incertezza sociale, politica ed economica”.

Perché il nodo della questione è semplice: senza lavoro, non solo si alimenta la povertà, ma si deprime la società. Non ne risente solo l’economia, ma anche la politica. E’ un nodo che tocca i rapporti famigliari, prima dei rapporti tra gli Stati.

Alcune cifre, fornite dall’Osservatore Permanente nel suo intervento: al 2012 (cinque anni dall’inizio della crisi economica) ci sono quasi 200 milioni di persone senza lavoro, e nello stesso periodo circa 39 milioni di persone sono uscite dal mercato del lavoro, aprendo così ad una possibile perdita di 67 milioni di posti di lavoro. Le previsioni dicono che ci sarà un po’ di ripresa nel mercato del lavoro nel biennio 2013-2013. Non basterà per alleviare la crisi. Ci sono delle regioni che sono riuscite ad evitare una crescita della disoccupazione. Ma lo hanno pagato con il deterioramento della qualità del lavoro, perché i lavoratori a rischio e il numero dei lavoratori che vivono al di sotto o molto vicini alla linea della povertà è cresciuto.

I giovani sono quelli più colpiti dalla crisi: 73 milioni di giovani sono disoccupati, e dal 2014 un altro mezzo milione sarà probabilmente disoccupato. La crescita del tasso di disoccupazione è previsto che cresca dal 12,6 al 12,9 per cento nei prossimi cinque anni. “C’è bisogno di soluzioni innovative – afferma Tomasi – per portare un lavoro fisso per tuti in modo che la crescita economica e il benessere non siano sconnessi”.

Perché il punto non è nelle cifre. È nella qualità della vita. E’ nel fatto che “il lavoro crea la comunità” e per questo “politiche e istituzioni hanno bisogno di affrontare il conflitto” tra le vecchie generazioni che prolungano la loro permanenza nel mondo del lavoro e le giovani che fanno sempre più fatica a trovare un lavoro. E questo conflitto si può superare solo “dando un ruolo chiave alla famiglia”, “la sfera primaria dove i conflitti di interesse intergenerazionali possono essere risolti e rifondati”. Per questo “le politiche del mercato del lavoro devono tenere in considerazione il ruolo della famiglia all’interno della società. Per questo, in aggiunta alle politiche che favoriscano l’occupazione giovanile, è necessario migliorare le politiche volte a promuovere la partecipazione delle donne, per facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia”.

Ma per lo sviluppo umano integrale si fonda anche sull’educazione. Una educazione che “fatica oggi a generare nuove abbastanza opportunità di lavoro per le nuove generazioni”. Eppure – sottolinea Tomasi – il “sistema educativo è il pilastro di qualunque strategia di sviluppo. È in realtà la prima risorsa di capitale umano, che è il più efficace motore di crescita economica”. E in più, “le persone educate diventano pienamente consapevoli del valore di tutte le persone e del valore del lavoro”.

Ma si devono ricostruire anche i legami umani tra la popolazione perché “i periodi di disoccupazione prolungato demoralizzano gli individui, deprezzano il capitale umano e portano all’esclusione sociale.

In fondo – afferma Tomasi – l’esperienza mostra che “il lavoro è la strada che porta fuori dalla povertà” e che “l’espansione di una occupazione decente e produttiva” fa sì che le economie crescano. Mette in luce le buone pratiche di nazioni che hanno raggiunto “l’obiettivo di una maggiore creazione di lavoro e di alleviamento della povertà”, per esempio in Asia ed America Latina, le cui politiche “hanno incluso una protezione sociale estensiva con un supporto attivo per la diversificazione delle loro economie”.

È quella la strada, perché “gli obiettivi dell’occupazione e del sostentamento devono essere obiettivi centrali di tutte le strategie nazionali di sviluppo”, tenendo in considerazione le particolarità di ogni nazione.

Sono solo politiche, se non si mette l’uomo al centro. Il problema della disoccupazione è infatti causato – conclude Tomasi – da “una visione puramente economica della società, che cerca il profitto personale al di fuori della giustizia sociale. Troppo spesso le politiche sono indirizzate ai bisogni degli affari senza considerare i bisogni dei lavoratori, e viceversa”. Ma “la dimensione sociale del lavoro ha bisogno di prevalere attraverso la solidarietà disinteressata e un ritorno ad un’etica fondata sulla persona che rinnovi il mondo del lavoro”.

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