7 ottobre 1571-2023. 452° anniversario della vittoria della Lega Santa nella battaglia di Lepanto. San Pio V volle, Santa Maria della Vittoria aiutò

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 07.10.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi ricorre il 452° anniversario della Battaglia di Lepanto nel 1571 e si commemora la vittoria della Lega Santa, l’alleanza di Stati cattolici incaricata di sconfiggere i turchi, sulla flotta dell’Impero Ottomano. Fu la più grande battaglia navale della storia occidentale dall’antichità classica. Papa San Pio V (1504-1572), che volle la Lega Santa, mise tanta enfasi sul potere del Rosario quanto sulla Lega Santa. Nella Battaglia di Lepanto l’unica cosa che si frapponeva tra l’Europa e la sua sicura distruzione erano gli uomini della cristianità disposti a rispondere alla chiamata della Chiesa e la loro disponibilità a recitare il Rosario in difesa dell’Europa cattolica. Possano tali uomini sorgere oggi in difesa della Fede e che la Madonna abbia la vittoria.

La memoria liturgica odierna della Beata Maria Vergine del Rosario, di origine devozionale, che un tempo portava il nome di Santa Maria della Vittoria, venne istituita nel 1572 da Papa San Pio V, un anno dopo la vittoria della Lega Santa nella battaglia navale il 7 ottobre del 1571 a Lepanto, in cui i Cristiani riportarono la vittoria contro i Turchi, arrestando la grande espansione dell’impero ottomano musulmano, che ormai da anni depredava e razziava le coste del Mediterraneo. I cristiani attribuirono il merito della vittoria di Lepanto alla protezione di Maria, che avevano invocato recitando il Rosario prima della battaglia. Il successore di Papa San Pio V, Papa Gregorio XIII ne cambiò il nome in Madonna del Rosario.

La tela originale della Madonna del Rosario, collocata sopra l’altare maggiore nella Basilica del Santuario Pontificio della Madonna del Rosario di Pompei, di autore sconosciuto, attribuita alla scuola di Luca Giordano, è un’opera del Seicento e le sue copie, molto popolari nell’Italia meridionale e tra gli emigranti italiani, sono diffuse in tutto il mondo, giunse alla fine del 1800 a Pompei grazie al beato Bartolo Longo. Il quadro alto 120 cm e largo 100 cm raffigura la Madonna su un trono con il bambino Gesù in braccio. San Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei frati predicatori e particolarmente legato al culto del Rosario, riceve dalle mani di Gesù il Rosario mentre Santa Caterina da Siena lo riceve dalla mano sinistra della Vergine. Entrambi i santi sono ai piedi della Madonna.
Nell’intento di diffondere la pratica del Rosario, Bartolo Longo si recò a Napoli per comprare un dipinto visto un po’ di tempo prima in un negozio. Per volontà divina, incontrò Padre Radente, suo confessore, che gli suggerì di recarsi al Conservatorio del Rosario di Portamedina e di chiedere, in suo nome, a Suor Maria Concetta De Litala un vecchio dipinto del Rosario che egli stesso le aveva affidato dieci anni prima. Bartolo seguì tale suggerimento, ma rimase profondamente sorpreso quando la suora gli mostrò il dipinto: una tela logorata e rovinata dalle tarme, con pezzi di colore mancanti e con la raffigurazione della Madonna che porge la corona a Santa Rosa, anziché a Santa Caterina da Siena, come nella tradizione domenicana. Bartolo fu sul punto di rifiutare l’offerta, ma alla fine decise di ritirare il dono per l’insistenza della Suora. L’immagine della Madonna giunse a Pompei alla Parrocchia del SS. Salvatore, nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1875, avvolta in un lenzuolo e poggiata su un carretto guidato dal carrettiere Angelo Tortora ed adibito al trasporto di letame. Lo sgomento, che aveva colto Bartolo, colse anche tutti gli abitanti presenti, tra cui l’anziano parroco Cirillo, quando fu mostrato il dipinto. Pertanto, fu presa la decisione di procedere al restauro del quadro, anche solo parzialmente, per timore che potesse essere interdetto. Nel tempo furono eseguiti diversi restauri e un ultimo restauro si è reso necessario nel 2010, quando per volontà di Papa Benedetto XVI, i restauratori dei laboratori dei Musei Vaticani intervennero per eliminare i danni dovuti all’apposizione sul quadro di elementi in oro e argento e per rinforzare la tela eliminando i fenomeni di distacco.

L’origine della Madonna del Rosario è stata attribuita all’apparizione della Vergine Maria a San Domenico nel 1208 a Prouville, nel primo convento da lui fondato. Nella Basilica di Pompei, Città che ha come patrona la Madonna del Rosario si conserva una tela attribuita alla scuola di Luca Giordano di notevole valore spirituale e taumaturgico poiché oggetto di culto molto intenso e diffuso, con pellegrinaggi che si concentrano durante le due suppliche: l’8 maggio ricordando la data di inizio costruzione della Basilica e la prima domenica di ottobre. Il Santuario Pontificio della Beata Vergine del Rosari è meta di oltre 4 milioni di pellegrini l’anno che giungono nella Città campana per dimostrare il loro amore verso la Madonna del Rosario.

Paolo Veronese, Allegoria della Battaglia di Lepanto, 1571, olio su telo, 169xl137 cm, Gallerie dell’Accademia, Venezia.
La Battaglia di Lepanto (chiamata Nafpaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e İnebahtı dai turchi), detta anche Battaglia delle Echinadi o Curzolari, fu uno scontro navale avvenuto il 7 ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane (federate sotto le insegne pontificie) della Lega Santa che riuniva le forze navali la cui metà era della Repubblica di Venezia da sola e l’altra metà composta congiuntamente dalle galee dell’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana del Ducato di Urbino, della Repubblica di Lucca (che partecipò all’armamento delle galee genovesi), del Ducato di Ferrara e del Ducato di Mantova. La battaglia, quarta in ordine di tempo e la maggiore, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate dall’Ammiraglio Don Giovanni d’Austria, su quelle ottomane di Müezzinzade Alì Pascià, che morì nello scontro.

Il 7 ottobre 1571, nelle acque greche di Lepanto, una grande flotta ottomana si scontrò con quella cristiana della Lega Santa, un’alleanza di Stati richiesta da Papa San Pio V per fermare l’espansione mussulmana nel Mediterraneo. Prima di avanzare contro il nemico, su tutte le navi cristiane si recitò il Rosario e si chiese l’intercessione di Maria. La battaglia, una delle più cruente mai combattute in quel mare, si risolse a netto favore della Lega Santa. Da qui l’istituzione della Festa della Madonna della Vittoria, poi Festa della Madonna del Rosario, per ringraziare la Vergine di quel suo aiuto.

L’annuncio della vittoria giunse a Roma solo dopo ventitré giorni. Eppure il giorno stesso della battaglia, a mezzogiorno, Papa San Pio V ebbe ad esclamare sicuro: “Suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima!”. A quel giorno dunque risale anche la tradizione un tempo assai diffusa per la quale suonano a mezzogiorno le campane delle chiese cattoliche in tutto il mondo.

Con il nome di Stendardo di Lepanto sono noti due vessilli, benedetti da Papa Pio V, issati sulla flotta cristiana, a protezione della Lega Santa, durante la Battaglia di Lepanto. Un vessillo (sopra) venne consegnato a Marcantonio Colonna nel giugno 1570, realizzato dal pittore Girolamo Siciolante da Sermoneta su incarico del Cardinale Onorato Caetani. Realizzato con la tecnica della pittura a tempera su seta pregiata, a forma di vessillo, con sfondo rosso e bordatura in oro, nel quale è rappresentata la scena di Gesù sulla croce tra gli apostoli San Pietro e San Paolo, avente in basso la scritta a lettere d’oro IN HOC SIGNO VINCES, e una lunga coda (circa otto metri) che venne eliminata nel corso dei secoli successivi. L’11 giugno 1570 il Papa San Pio V benedisse lo stendardo nella basilica di San Pietro in Vaticano e lo consegnò all’Ammiraglio Marcantonio Colonna, ponendolo al comando della flotta pontificia. Il 22 giugno 1571 Marcantonio Colonna partito da Civitavecchia giunse in Gaeta, passò in rassegna tutta la propria flotta e poi si recò nel Duomo di Gaeta a chiedere la protezione di Sant’Erasmo sull’impresa che si accingeva a compiere: fece solenne voto che, qualora fosse tornato vincitore grazie alla sua intercessione, avrebbe donato il sacro stendardo al santo.
Il 13 agosto dello stesso anno nella chiesa di Santa Chiara in Napoli veniva consegnato a Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II di Spagna, un secondo stendardo della Lega Santa da parte di Papa San Pio V per mano del Cardinale de Granvelle, a seguito delle intense trattative tra Spagna e Santa Sede riguardo alla persona che avrebbe dovuto avere il comando della Lega. Il 24 giugno la flotta pontificia salpò da Gaeta per congiungersi con il resto della flotta cristiana che verrà comandata da Don Giovanni d’Austria, a Messina, da dove partì a ranghi completi il 24 agosto 1571 per muovere contro i turchi.

I vessilli della Battaglia di Lepanto
452 anni fa la storica vittoria della flotta cristiana sull’Impero ottomano, che riunì l’Europa a difesa della Cristianità, come ci ricordano gli stendardi conservati a Toledo, a Gaeta e a Pisa.
di Włodzimierz Rędzioch


Ci sono delle battaglie che decidono delle sorti delle nazioni, dei continenti, del mondo. Le sorti dell’Europa, che rimase cristiana, furono decise in tre storici scontri:

  • nel 732 [10 ottobre] a Poitiers, dove i Franchi guidati da Carlo Martello (690-741) sconfissero l’esercito musulmano;
  • nel 1571 [7 ottobre] nel Golfo di Lepanto, dove nella battaglia navale la Lega Santa vinse contro gli Ottomani;
  • nel 1683 [11 e 12 settembre] a Vienna, dove il re polacco Giovanni Sobieski (1629-96) riportò una grande vittoria sui Turchi che assediavano la città.

Oggi si celebra il 452° anniversario della Battaglia di Lepanto, quindi è il momento opportuno per ricordare sia la battaglia, sia i suoi simboli: gli storici vessilli delle navi.

Per molti secoli l’Europa venne minacciata dall’Impero ottomano, che riuscì a conquistare una parte consistente del nostro continente. L’Europa non è diventata musulmana grazie, tra l’altro, a quell’epica vittoria sulla flotta del sultano che è passata alla storia come la Battaglia di Lepanto, cioè la battaglia navale combattuta dalla Lega Santa nel golfo di Corinto (7 ottobre 1571).

Due vessilli sono i simboli di questa storica battaglia: il vessillo della nave dell’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna (1535-84) e il vessillo della nave di Don Giovanni d’Austria (1547-78), Comandante della flotta della Lega Santa. Il vessillo di Colonna si trova attualmente nel Museo dell’Arcidiocesi di Gaeta (venne conservato per tanto tempo nella cattedrale di quella città marinara). Invece, il secondo è conservato nel Museo di Santa Cruz a Toledo. Ma non tutti sanno che in Italia, a Pisa, si trova anche un altro simbolo della battaglia: lo stendardo della nave del comandante in capo ottomano, Alì Pascià (?-1571).

Gli Ottomani alla conquista di Cipro

Lo scontro navale con gli Ottomani fu la conseguenza dei tentativi del sultano di impossessarsi dell’isola di Cipro, che dal 1480 apparteneva a Venezia. La conquista dell’isola di Cipro cominciò nel luglio del 1570 con lo sbarco delle forze d’invasione di circa 100mila uomini. La capitale Nicosia cadde il 9 settembre: i Turchi massacrarono l’intera popolazione della città, risparmiando 2000 giovani fatti schiavi. Dopo la conquista di Nicosia, i Turchi presero d’assedio la città portuale di Famagosta, con l’efficace e innovativo sistema difensivo fatto rinforzare dal Capitano Generale della città, il Senatore Marcantonio Bragadin (1523-71), di antico e nobile casato veneziano. L’assedio durò quasi un anno: Bragadin, nel mese di luglio 1571, quando stavano per finire tutte le scorte, alla fine si arrese, concludendo un patto onorevole con il comandante ottomano Lala Mustafà (tale patto garantiva la vita e la libertà a tutti coloro che si trovavano dentro le mura). Il 1° agosto i Veneziani consegnarono la Città ai Turchi, che non rispettarono i patti: durante l’incontro di Bragadin con Lala Mustafà (1500-80) i comandanti cristiani furono uccisi e allo stesso senatore furono mozzate le orecchie ed il naso. Ma questo fu soltanto l’inizio del suo supplizio. Come fu raccontato dai testimoni, il senatore fu costretto a trasportare sulla schiena enormi sacchi di terra, fu avvolto in catene sulla cima dell’albero di una galea perché tutti potessero vederlo; quindi, trascinato sulla piazza cittadina al suono di tamburo e trombe, il senatore veneziano fu scorticato vivo; la sua pelle riempita di paglia fu esposta come trofeo sull’antenna più alta della nave di Mustafà. Invece tutti i soldati cristiani furono, a tradimento, disarmati e incatenati ai remi delle galee turche.

La Lega Santa contro gli Ottomani

L’eroica e lunga difesa di Famagosta diede tempo per organizzare una Lega Santa, la coalizione cristiana voluta da Pio V (1566-72) per combattere l’espansionismo dell’Impero ottomano. I Turchi minacciavano non soltanto Cipro, ma anche le coste spagnole e della penisola italiana, attaccate dai pirati musulmani, che divennero padroni del Mediterraneo occidentale. In questo momento drammatico il Papa si spese per coalizzare in una Lega Santa le forze cristiane, spesso divise, in uno spirito di Crociata e per creare coesione intorno all’iniziativa.

Il simbolo di questa benedizione papale all’iniziativa fu lo stendardo di damasco rosso con le figure di Cristo crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo, consegnato all’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna, che doveva comandare la flotta cristiana, nella basilica di San Pietro l’11 giugno 1570. Purtroppo i dissidi legati all’assegnazione del comando fecero sì che il comando fu affidato a Giovanni d’Austria, rimanendo il Colonna suo Luogotenente Generale. In questa situazione un altro stendardo, di seta cremisina con l’immagine del Crocifisso, fu consegnato solennemente dal Viceré di Napoli e Delegato apostolico, il Cardinale Antoine Perrenot de Granvelle (1517-86), a Don Giovanni d’Austria, nella Basilica di Santa Chiara a Napoli il 14 agosto 1571.

Le navi della flotta cristiana confluirono a Messina, il porto di raduno, a partire dal luglio 1571 e ai primi di settembre erano pronte per partire verso la Grecia al comando di Don Giovanni d’Austria. Il 6 ottobre le navi si trovarono già nel golfo di Corinto. Il giorno successivo, la domenica del 7 ottobre 1571 Don Giovanni fece schierare le navi cristiane davanti a quelle ottomane, pronto per la battaglia. Le forze schierate sul mare furono imponenti: la flotta della Lega era composta da 204 galee e 6 galeazze, con a bordo circa 36mila combattenti più circa 30 mila rematori non schiavi, che potevano prendere parte negli scontri sui ponti delle galee. Invece la flotta turca era composta verosimilmente da più di 170 galee e più di 20 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari. Sulle navi turche si trovavano circa 25mila combattenti, tra cui i temibili giannizzeri.

La galea dei Cavalieri dell’Ordine di Malta comandata dall’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna.

La flotta turca era comandata dall’ammiraglio Mehmet Shoraq (1525-71), chiamato “Scirocco”, dal comandante supremo Alì Pascià, detto “il Sultano” (si trovava sulla nave ammiraglia “Sultana”, su cui sventolava il vessillo della flotta), e dall’ammiraglio Uluc Alì (1519-87), un apostata di origini calabresi convertito all’Islam. Invece le navi delle retrovie erano comandate da Murad Dragut, figlio di uno dei più pericolosi pirati barbareschi.

L’epica battaglia navale nel Golfo di Corinto

Don Giovanni decise di cominciare lo scontro con l’intervento di sei imponenti galeazze veneziane, che avevano una grande forza di fuoco: il cannoneggiamento veneziano causò gravi danni alla flotta ottomana. In quella situazione Alì Pascià decise di non abbordare le navi veneziane, ma, superandole, cercò uno scontro frontale, mirando all’abbordaggio della nave di Don Giovanni per ucciderlo. All’inizio i Turchi avevano il vento a favore e potevano eseguire un assalto alle navi cristiane, ma verso mezzogiorno il vento cambiò direzione e le vele turche si afflosciarono. Quando le navi si trovarono a tiro di cannone, i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Giovanni d’Austria innalzò sulla sua nave lo stendardo con l’immagine del Redentore crocifisso, che passò alla storia come “stendardo di Lepanto”. Su ogni galea venne levata una croce e i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa da Pio V. Le sorti della battaglia furono incerte fino a quando il comandante ottomano, Alì Pascià, cadde combattendo. La sua nave ammiraglia fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona, il suo cadavere fu decapitato e la sua testa esposta sull’albero maestro dell’ammiraglia spagnola. La morte dell’ammiraglio ottomano minò il morale dei Turchi: verso le quattro del pomeriggio le navi ottomane abbandonavano il campo e il loro ritiro segnava la vittoria della Lega cristiana. I Turchi persero 80 galee affondate e 117 catturate; inoltre le perdite umane furono imponenti: 30mila uomini tra morti e feriti, più 8000 catturati. La Lega cristiana, invece, perse 17 navi e 7656 uomini morti (7 784 furono feriti). Inoltre,furono liberati 15 mila cristiani, schiavi-rematori. I cristiani liberati dalle navi ottomane si recarono a Porto Recanati e andarono in processione alla Santa Casa di Loreto, dove offrirono le loro catene alla Madonna (da quelle catene furono fatte le cancellate delle cappelle del santuario).

La Battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571.

Pio V attribuisce la vittoria alla Madonna

La battaglia di Lepanto ebbe un profondo significato religioso. Lo stesso Pontefice, Pio V, fu artefice della creazione dell’alleanza cattolica, la Lega Santa, e benedisse gli stendardi delle navi dell’ammiraglio Marcantonio Colonna e del principe Don Giovanni d’Austria. Prima della battaglia i combattenti cristiani si unirono in una preghiera di intercessione a Gesù e alla Vergine Maria. L’annuncio ufficiale della vittoria, portato da messaggeri del principe Colonna, giunse a Roma 23 giorni dopo, ma il Papa, lo stesso giorno della battaglia, a mezzogiorno ebbe in visione l’annuncio della vittoria ed esclamò: «Sono le 12.00, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima». Così è nata la tradizione cattolica di far suonare le campane delle chiese alle 12.00. Siccome la vittoria fu attribuita all’intercessione della Vergine Maria, San Pio V decise di dedicare il giorno 7 ottobre a Nostra Signora della Vittoria e aggiunse il titolo Auxilium Christianorum (Aiuto dei cristiani) alle Litanie Lauretane. Successivamente Gregorio XIII (1572-85) trasformò tale festa nella memoria liturgica della Madonna del Rosario: i cristiani attribuivano la vittoria alla protezione di Maria, che avevano invocato recitando il Rosario prima della battaglia.

Il vessillo di Don Giovanni d’Austria, Comandante della flotta della Lega Santa, conservato nel Museo di Santa Cruz a Toledo.

Gli stendardi della flotta cristiana di Lepanto

Pio V fece consegnare degli stendardi al generalissimo della Lega Santa, Don Giovanni d’Austria, e all’ammiraglio della flotta pontificia, Marcantonio Colonna. Il primo, di damasco turchese, con gli stemmi dei partecipanti alla Lega Santa (Spagna, Chiesa, Venezia) e l’immagine del Crocifisso. Questo vessillo della Lega Santa si trova a Toledo in Spagna, invece il vessillo che sventolava sulla nave dell’ammiraglio Colonna, un altro simbolo della epica vittoria dell’Europa cattolica, aveva al centro la figura del Crocifisso, ai lati le immagini di san Pietro e san Paolo e, sotto, una scritta: «IN HOC SIGNO VINCES». La pittura fu eseguita su seta, probabilmente da Girolamo Siciolante da Sermoneta, pittore che fu al servizio dei Colonna.

Il vessillo di Marcantonio Colonna, ammiraglio pontificio, conservato nel Museo Arcidiocesano di Gaeta.

Il vessillo fu donato alla cattedrale di Gaeta probabilmente dai reduci della battaglia, su richiesta o con il consenso di Marcantonio Colonna. Come attestano gli storici, l’ammiraglio pontificio visitò Gaeta prima e dopo la battaglia: il 23 giugno 1571, quando la flotta pontificia venne passata in rassegna prima della partenza per Napoli, e il 23 maggio 1572, circa sette mesi dopo Lepanto.

All’inizio lo stendardo veniva trattato come una vera reliquia: le vecchie testimonianze parlano del vessillo, ripiegato e protetto da un vetro, conservato nel coro della cattedrale di Gaeta. Successivamente avvenne una trasformazione radicale del vessillo in una pala d’altare del presbiterio della cattedrale, incollata su un supporto di lino grezzo. Il vessillo, trasformato in una tela d’altare, rimase integro fino al bombardamento alleato di questa importante città portuale, che ebbe luogo nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 e lo danneggiò gravemente. Dopo un accurato restauro venne trasferito ed esposto nel Museo Arcidiocesano di Gaeta.

Il vessillo della galera di Alì Pascià, conservato nella Chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa.

I vessilli della galera dell’ammiraglio Alì Pascià, simbolo della disfatta ottomana

Così come il vessillo della nave ammiraglia di Marcantonio Colonna è il simbolo della vittoria della flotta cristiana, lo stendardo della nave del comandante in capo ottomano Alì Pascià è diventato simbolo della disfatta dei Turchi. Non tutti sanno che tale stendardo si trova a Pisa, nella chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri. La sua storia è legata all’Ordine di Santo Stefano. Tale ordine fu creato da Cosimo I de’ Medici (1519-74). Il 1 febbraio 1562 Pio IV (1559-66), con la bolla His quae pro Religionis propagatione, approvò gli statuti e il 15 marzo consacrò l’Ordine con la regola benedettina e sotto la protezione di santo Stefano Papa e martire, conferendo a Cosimo I e ai suoi discendenti il titolo e l’abito di Gran Maestro. A Firenze furono redatti degli statuti simili a quelli dell’Ordine di Malta, adottandone la croce ottagonale, ma invertendone i colori, cioè la croce rossa sullo sfondo bianco. In questo modo Cosimo realizzò il suo ambizioso progetto di creare un Ordine equestre, sacro, militare e marittimo fedelissimo alla dinastia dei Medici. I suoi cavalieri erano «nobili, militari, cavalieri di giustizia, serventi e fratelli d’armi» e per essere ammessi dovevano dimostrare quattro gradi di nobiltà paterna e materna.

Chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa.

In quei tempi il Mediterraneo non era sicuro a causa delle scorrerie ottomane: l’ordine fu chiamato a combattere la pirateria islamica e a liberare i cristiani dalla schiavitù ottomana. Fu creato un avamposto insulare fortificato all’Isola d’Elba per impedire assalti ottomani alle coste italiane. E proprio Portoferraio, sull’Elba, fu la prima sede dell’Ordine, che successivamente fu trasferita, in modo definitivo, a Pisa. La famosa piazza dei Cavalieri prende il proprio nome da quest’ordine.

I Cavalieri di Santo Stefano già nel 1565 parteciparono a fianco della Spagna in difesa di Malta, ma sei anni più tardi presero parte con dodici galee ad una battaglia ancora più importante, la battaglia di Lepanto. Durante questo epico scontro la galera “sultana” fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e in quell’occasione i cavalieri si impossessarono dello stendardo generale della nave e delle altre bandiere. Oggi il vessillo e le bandiere ottomane che sono il simbolo di questa storica battaglia, che salvò l’Europa dall’invasione dei Turchi: si possono vedere a Pisa, nella chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri, come ho già ricordato.

Gli stendardi della battaglia di Lepanto ci ricordano il prezzo pagato dai nostri antenati per difendere l’identità cristiana del nostro continente, difesa che spesso ha richiesto l’azione militare di un’Europa unita.

L’articolo in polacco è stato pubblicato sul settimanale Sieci.
L’articolo in italiano è stato pubblicato su Alleanzacattolica.org
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La flotta cristiana della Lega Santa sconfigge e scaccia dal mediterraneo le forze navali turche

Gli avversari

Alì Mehemet Pascià.

Alì Mehemet Pascià

L’ammiraglio della flotta turca era un uomo politico più che un vero e proprio militare. Arrivò alla battaglia di Lepanto a 50 anni, con la fama di invicibilità, derivatagli dal dente destro di Maometto, che portava sempre in battaglia, rinchiuso in una capsula di cristallo. Sotto il profilo strategico, non gli si possono attribuire grandi errori: la sua sconfitta era già destinata a consumarsi prima dello scontro, visto il divario tecnologico tra le due forze in campo. I suoi meriti maggiori sono da trovare prima dello scontro nelle acque greche. L’intelligenza che lo distingueva, lo portò a scegliere, per la sua spedizione, i “capitani” più validi dell’intera marina ottomana: Uluch Alì, Mehemet Shoraq e Khara Kodja.

Uluch Alì, forse un ex campagnolo calabrese convertito all’Islam, era tra i più audaci e spietati (soprattutto nei confronti dei cristiani) comandanti turchi. Fu nominato addirittura Bey (sorta di governatore indipendente) di Algeri.

Shoraq, detto “Scirocco” dai cristiani, era tra i più esperti comandanti di marina di tutto il Mediterraneo, cosa che gli fruttò la signoria di Alessandria.

Khara Kodja, rappresentava la stirpe di pirati mediterranei avventati e senza paura, che erano adattissimi per le azioni più rischiose e improbabili.

La scelta degli ufficiali da parte di Alì, risulta praticamente perfetta, così come fu immenso il valore ed il coraggio islamico profuso a Lepanto. Ma la straripante superiorità cristiana lasciò ben poca gloria all’ammiraglio turco morto durante le fasi cruciali della battaglia.

Don Giovanni d’Austria.

Don Giovanni d’Austria

Il comandante della flotta cristiana arrivò a 26 anni alla battaglia di Lepanto. Figlio di Carlo V e di Barbara di Baviera, Giovanni mostrò subito come il suo indirizzo fosse verso la carriera militare, non verso quella ecclesiastica verso la quale era stato indirizzato. Prima dei 25 anni aveva già raggiunto i gradi più alti della gerarchia militare imperiale, ed era considerato uno dei più grandi ammiragli dell’intera cristianità.

Ma nonostante la grande preparazione, ed il grande valore dimostrato al fratellastro di Filippo II, gran parte del merito della sua vittoria nelle acque di Lepanto va ascritto a Sebastiano Venier, 75enne Duca di Candia, e “general de mar” della repubblica di Venezia, oltre che allo sforzo Politico di Marcantonio Colonna, comandante pontificio, unica persona in grado di smussare i contrasti tra Spagna e Venezia, e mantenere l’unità d’intenti della flotta. I rapporti tra il Venier e Don Giovanni furono assai duri. Il ruvido carattere del Venier, mal si conciliava con l’atteggiamento “guascone” dello spagnolo, imberbe ed esibizionista secondo il comandante veneziano.

Marcantonio Colonna.

Sta di fatto che dopo la vittoria di Lepanto, Don Giovanni D’Austria divenne governatore delle Fiandre spagnole, dove morirà pochi anni dopo la vittoria contro il turco, ancora giovanissimo.

I Turchi

Lo scontro navale che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque di Lepanto, segna una svolta epocale nella storia del Mar Mediterraneo e di tutti quei Paesi che, fino ad allora, erano stati coinvolti nella lotta per arginare la minaccia turca sul mare. Fino ad allora, i tentativi di arginare la potenza turca sulla terraferma si erano dimostrati assai vani (vedi la battaglia di Kosovo-Polje o la caduta di Costantinopoli). Le ripetute sconfitte cristiane di quegli anni, sono dovute alla preparazione di alcuni corpi scelti turchi, ai mezzi, ma soprattutto all’enorme quantità di forze, che i sultani avevano la possibilità di schierare ad ogni “appuntamento” militare.

Se nei Balcani l’opposizione agli invasori era stata comunque assai vasta, sul versante navale in pochi potevano controllare l’espansione islamica nel mediterraneo. La sola potenza che aveva i mezzi per tentare l’impresa era la Repubblica di Venezia, ma da soli, i Veneziani non erano abbastanza. Nel 1499 persero Lepanto stessa, e col tempo perderanno anche Naupatto, Chio e soprattutto l’isola di Cipro difesa strenuamente dal Comandante Marcantonio Bragadin. L’unica vera speranza di vittoria, contro gli uomini del sultano, era rappresentata dall’unione di tutte le maggiori flotte cristiane dell’area mediterranea.

Le forze alleate

L’ultima roccaforte del mediterraneo orientale che rimase in mano agli europei era l’isola di Cipro. La difesa veneziana dell’isola era stretta attorno alla fortezza di Famagosta, ma schierava solo 7.000 difensori, guidati da Marcantonio Bragadin, contro i 20.000 turchi al comando di Mustafa Pascià. I turchi mostrarono in questo assedio di quali mezzi disponessero e la crudeltà che li distingueva. Sulla fortezza piombarono almeno 170.000 colpi di cannone e innumerevoli furono le mine piazzate sotto le mura della città. I veneziani, da parte loro, ressero per 72 giorni ai turchi, ma neanche l’estremo sacrificio del Capitano Roberto Malvezzi (fattosi saltare in aria insieme a migliaia di turchi in un deposito sotterraneo) fu abbastanza per la vittoria. Rimasto con 700 uomini, Bragadin accettò di trattare la resa con Mustafà Pascià, che offriva ai lagunari la salvezza, il rispetto dei beni, della popolazione civile e gli onori militari. Ma i Turchi non rispettarono i patti. Appena fuori dalla fortezza, l’Intendente Tiepolo e il Generale Baglioni furono impiccati, tutti i civili furono venduti come schiavi a Costantinopoli, mentre il Governatore Bragadin fu scuoiato vivo. L’estremo sacrificio di Famagosta e dei suoi difensori non fu mai dimenticato. Nel frattempo l’Europa cristiana era divisa da molti anni in conflitti di potere temporale (lotta tra Francia e Spagna), ed in conflitti di natura spirituale (cattolici schierati contro i luterani). Ma con la pace di Cateau-Cambresis (1559) e il Concilio di Trento (1545-1563), si creò una situazione di breve stabilità politica necessaria al Papa Pio V per stringere nell’alleanza della Lega Santa la Spagna, Venezia e lo Stato Pontificio.

Apparentemente improponibile come legame, vista l’alleanza che legava Venezia con la Francia, la Lega Santa creata dall’astuzia diplomatica del Papa, univa la migliore flotta del mediterraneo occidentale alla giovanile irruenza di Don Giovanni d’Austria, fratellastro del Re di Spagna Filippo II. È nota la preoccupazione con cui gli Spagnoli vedevano l’avanzata islamica ad occidente, in particolare, l’espansione turca sulle coste settentrionali del Maghreb, fece arrivare voci a Madrid secondo cui era in atto un preparativo navale ottomano contro la stessa penisola iberica.

Fu con tali premesse che, nel 1571, la flotta cattolica venne riunita a Messina e al comando di Don Giovanni d’Austria salpò verso le coste della Grecia.

La battaglia navale

La tecnica, nelle battaglie tra galee, era assai semplice: si tentava di speronare l’avversario, o di frantumare i remi dell’imbarcazione nemica, una volta immobilizzata, la nave era preda del tiro degli archibugieri e dei balestrieri avversari. Quando le armi da tiro avevano scaricato gran parte delle munizioni, partiva la fase d’abbordaggio vera e propria, effettuata tramite rampini che avvicinavano le navi e permettevano l’uso di ponti mobili per lo “sbarco”. La fase successiva all’abbordaggio era sicuramente quella più cruenta. Molti combattimenti si riducevano ad una carneficina senza quartiere, determinata dagli angusti spazi; inoltre, molti di coloro che cadevano feriti in mare, finivano affogati spinti a fondo dalle loro pesanti armature. Differenza fondamentale tra i le linee turche e quelle cristiane era quella che, se gli occidentali contavano anche sul supporto militare dei rematori, questo non poteva avvenire nelle navi turche, dove la maggior parte dei rematori erano cristiani.

Per quanto riguarda l’artiglieria, si tratta ancora di una fase evoluzionistica per le marine militari. I pezzi d’artiglieria erano disposti a prora e per chiglia, ma non essendo spostabili sparavano solo in direzione di rotta. Le artiglierie erano generalmente composte da tre a sei pezzi, per nave, da 50 l’uno (la misura è il peso in libbre del proiettile che sparava il pezzo). Si tratta di batterie assai inferiori per potenza di fuoco se paragonate ai futuri velieri, che utilizzando le due murate per disporre i cannoni avevano a disposizione molta più potenza di fuoco.

Tutto quanto detto finora, rientra sempre nell’ottica della flotta cristiana, in quanto, le artiglierie musulmane dopo l’assedio di Costantinopoli, erano diventate di numero ridotto e di qualità assai scadente.

Oltre alle galee, le galeazze, furono le vere sorprese della battaglia di Lepanto. Più “alte” delle galee, e con numerose artiglierie disposte anche sulle murate, vennero usate per bersagliare le navi ottomane ad una distanza dalla quale era difficile rispondere, e successivamente dopo essere state spostate a rimorchio (troppo pesanti per essere manovrate da sole) dalle altre galee, vennero utilizzate come corpo di “artiglieria galleggiante”.

Le navi

Le galee rappresentano l’ultimo tipo di evoluzione delle antiche triremi e di tutte le navi poliremi. Generalmente erano di circa 40 metri di lunghezza, 7 di larghezza, per una stazza massima di circa 400 tonnellate. La propulsione era garantita da tre alberi a vela triangolare (detta anche vela “latina”), mentre in assenza di vento venivano utilizzati tra i 200 e i 250 rematori presenti a bordo. La velocità massima che si poteva raggiungere in assenza di vento era di circa 7 nodi, ma il ritmo a voga veloce non poteva fisicamente essere portato oltre il quarto d’ora consecutivo. Le galee avevano una struttura che sostituiva il castello di poppa con delle coperture sulle artiglierie dalle quali partivano anche le operazioni di abbordaggio o il tiro dei balestrieri. La poppa invece, aveva una struttura rialzata, in cui era situata la cabina di comando e la lanterna di navigazione. Assai leggere, erano le coperture laterali dedicate ai rematori ed ai tiratori.

La struttura della galea era tutta dedicata alla battaglia, ben poco rimaneva per le necessità ed il comodo dell’equipaggio. Lo squilibrato rapporto tra lunghezza e larghezza, lo scarso pescaggio e l’inesistenza di un ponte di coperta, lasciavano i marinai, i rematori ed i fanti (o archibugieri) a bordo stivati all’inverosimile. Le condizioni in cui 400 o 500 persone dovevano convivere durante la navigazione erano di scarsissima igiene, quindi in viaggi molto prolungati si diffondevano facilmente epidemie e malattie. Era necessario fermarsi ed approdare sulla terraferma molto spesso, soprattutto per rifornirsi di acqua dolce, che veniva consumata nella quantità di circa 7 litri al giorno da ognuno dei componenti dell’equipaggio.

Oltre alle galee, nella Battaglia di Lepanto fecero la loro comparsa i primi galeoni (al seguito spagnolo), che avevano il compito principale di rifornire le galee alleate dei rifornimenti necessari. Ma per lungo tempo saranno utilizzati solo per scopi commerciali nel Mediterraneo, dove comunque continuarono ad essere preferite le galee. La spiegazione di questa opzione sta tutta nelle caratteristiche del mare stesso. Se infatti i galeoni erano sicuramente più adatti agli oceani, dove potevano fronteggiare tranquillamente le alte onde grazie alla loro struttura imponente, nelle più tranquille acque del Mediterraneo avrebbero sofferto l’assenza di vento, cosa che non succedeva ad una imbarcazione dotata di rematori. Come bersaglio dei pirati un galeone risultava una preda più statica di una galea ed inoltre i fondali, spesso bassi, erano adatti a navi dal basso pescaggio. In conclusione, in un mare dove era richiesta la continua mobilità delle imbarcazioni (indipendentemente dalle condizioni meteorologiche), le galee furono ancora per molti anni dopo Lepanto le dominatrici del Mar Mediterraneo, sia sotto l’aspetto commerciale, che sotto quello militare.

Le armi da fuoco

La chiave di volta della sconfitta islamica nelle acque di Lepanto va individuata oltre il solo valore dei combattenti cristiani. La tecnologia militare occidentale aveva nettamente surclassato quella orientale, divenendo decisiva. Le linee cristiane infatti, disponevano di affidabilissime artiglierie, provenienti dalle fonderie germaniche, che assicuravano maggiore penetrazione e precisione, ed erano di qualità sicuramente superiore a quelle turche. Gli stessi artiglieri europei avevano alle spalle una preparazione specializzata nell’uso delle macchine da guerra di cui non disponevano né i loro colleghi turchi, né i loro ufficiali, spesso inadeguati a quel tipo di ruolo.

Ma la superiorità cristiana non si fermava alle armi da fuoco. Il combattente di marina europeo utilizzava protezioni contro le quali gli efficientissimi archi turchi poco potevano. Le tondeggianti e resistenti protezioni europee garantivano la salvezza dai dardi islamici e permettevano liberamente ogni tipo di movimento.

Per quanto riguarda l’attrezzatura offensiva, gli occidentali utilizzavano balestre ed archibugi (in misura minore) per il combattimento a distanza, mentre per il corpo a corpo si servivano di alabarde, asce, spiedi e spade a lama larga.

Confrontando gli armamenti appena descritti con l’antiquata attrezzatura turca (la cui peculiare arma da distanza era rappresentata dall’arco composito), si può facilmente immaginare lo svolgimento dei combattimenti e le motivazioni di una così schiacciante disfatta per la flotta della “Sublime Porta”.

Le forze in campo

Le forze erano così divise: 210 imbarcazioni per i cristiani, per un totale di 80.000 uomini, di cui 30.000 combattenti e 50.000 tra marinai e rematori. Le imbarcazioni erano di varia nazionalità, proprio per rappresentare al meglio le forze della Lega Santa. Vi erano infatti galere spagnole, genovesi, pontificie e sabaude, oltre alle prime galeazze veneziane, dotate dell’artiglieria che avrebbe influenzato le battaglie navali del futuro.

I turchi rispondevano con una flotta da 265 navi, con 221 galere, 38 galeotte e 18 fuste al comando di Mehmet Alì Pasha.

Va notato come la “propulsione” delle navi turche fosse composta esclusivamente da schiavi cristiani, ai quali non venivano risparmiati torture e maltrattamenti prima delle battaglie. Differente fu il comportamento di Don Giovanni D’Austria, il quale, dopo aver distribuito elmi, corazze ed armi a tutti i rematori, aveva astutamente promesso loro la libertà in caso di vittoria.

Il ruolo dei rematori non può essere dimenticato assai facilmente, particolarmente in un conflitto dove erano protagonisti d’obbligo anche loro. Sta di fatto che, durante le fasi più dure della battaglia, alcuni gruppi di schiavi, liberatisi dalle catene, presero di mira i propri aguzzini turchi. Su alcune navi attaccarono gli islamici alle spalle, mentre su altre, sparsero del sego sui ponti per far scivolare i turchi quando tentavano gli arrembaggi alle navi cristiane.

Nelle acque di Lepanto (nel golfo di Patrasso) le flotte si divisero in grossi gruppi. Il comandante generale prendeva posizione nella più grande galera della flotta (detta reale), per farsi riconoscere meglio dalle proprie forze e manovrare con più cura. Vi erano comunque anche altre navi di importanza fondamentale, quelle dette “capitane”, sulle quali stazionavano gli ufficiali responsabili di ognuno dei gruppi della flotta.

Gli schieramenti

Le flotte avversarie si schierarono in direzione nord-sud per una lunghezza di circa 7 chilometri.

L’ala sinistra dei cristiani, la più vicina alla costa, era composta da 64 galee venete al comando di Agostino Barbarigo. Sull’ala destra, quella spostata verso il mare aperto, vi erano le 54 galee genovesi comandate da Giannandrea Doria. La posizione centrale era occupata da altre 64 galee ai comandi di Don Giovanni D’Austria per gli spagnoli, Sebastiano Venier per i veneziani e Marcantonio Colonna per i pontifici. In testa ad ogni settore, le galeazze veneziane avevano il compito di aprire lo scontro e di “disordinare” le linee avversarie con le loro artiglierie.

La disposizione turca era praticamente speculare a quella cristiana. Alla destra si pose Mehemet Shoraq (detto “Scirocco”) con 52 galee e 2 galeotte; alla destra Uluch Alì con 61 galee e 32 galeotte; al centro l’ammiraglio Alì con 87 galee e 2 galeotte.

La retroguardia cristiana, posizionata dietro il blocco centrale, era composta da 30 galee agli ordini del Marchese di Santa Cruz; mentre le retrovie turche erano formate da 8 galee.

La battaglia

La cattura di Shoraq

L’immagine che abbiamo dello schieramento iniziale turco, ci fa pensare come l’intenzione ottomana fosse quella di sfruttare la superiorità numerica della propria ala sinistra (quella di Uluch Alì), nei confronti della destra cristiana (quella dei genovesi guidati dal Doria), per aggirare la flotta della Lega.

Sta di fatto che la prima parte dello schieramento turco che si mosse fu l’ala destra guidata da Mehemet Shoraq, che tentò di incunearsi tra i veneziani del Barbarigo e la costa, per aggirare la sinistra nemica. La contromanovra veneta, che prenderà le imbarcazioni turche sul fianco, costerà la vita dello stesso capitano veneziano Barbarigo, ma distruggerà tutta l’ala dello “Scirocco” che verrà anche catturato.

La mischia attorno alle “ammiraglie”

Mentre la parte destra dello schieramento turco cade, le galeazze veneziane aprono il fuoco contro le navi turche, costrette ad accorciare le distanze, per non venire massacrate dall’artiglieria veneta. La nave ammiraglia turca dell’ammiraglio Alì, avanzò così tanto da speronare quella dello stesso Don Giovanni D’Austria, inaugurando un putiferio di imbarcazioni che giungevano, da ambo i lati, in soccorso dei propri comandanti.

Ma nonostante l’ardore profuso dai 400 giannizzeri che tentarono di conquistare la nave “reale” cristiana, gli archibugieri spagnoli ebbero la meglio. In aggiunta, con l’arrivo delle galee “Capitane” del Venier e di Colonna, la nave ammiraglia dei turchi fu presa e la testa dello stesso Alì fu issata sul pennone come monito per gli islamici. Senza più guida, il blocco centrale turco cede e viene sbaragliato. In queste fasi d’abbordaggio si copre di gloria il 75enne veneziano Venier, che combatte come un giovane leone ed è tra i primi a sfidare i dardi nemici.

Il sacrificio delle galeazze siciliane

Quando la battaglia è in corso le galee genovesi compiono una manovra che poteva mettere a repentaglio l’intero esito della battaglia. Trascinati forse dal vento o dalle correnti, le galee genovesi si allargarono ulteriormente verso il mare aperto, lasciando un varco dove Uluch Alì doveva affrontare solo le poche galee maltesi per poi ritrovarsi ad attaccare alle spalle l’intera flotta cristiana.

Ma proprio quando l’aggiramento era in dirittura d’arrivo, l’azione turca venne bloccata dall’estremo sacrificio del valorosissimo don Giovanni di Cadorna e delle sue galee siciliane, che si immolarono per dare il tempo alle galee di retrovia di accorrere.

La fine

A questo punto Uluch, per non rischiare di venir stretto in una morsa dal Doria e dalle galee del centro che stavano accorrendo, decide di ritirarsi con le navi superstiti.

Bilancio Finale

Il bilancio finale dello scontro di Lepanto è nettamente a favore dei remi cristiani. Le perdite turche ammontarono a 25.000 morti, 30 galere affondate e 100 catturate. Sul fronte opposto, i cristiani, persero 7.500 uomini e 15 navi.

Le cifre danno la dimensione di quanto netta fosse stata la vittoria occidentale, ma forse non rendono ancora bene l’idea di quanto ampio fosse il divario tecnologico tra le due parti in conflitto. Se infatti da una parte, quella turca, venivano ancora utilizzati gli archi e le protezioni per i membri armati dell’equipaggio erano piuttosto leggere, sul fronte cristiano la metallurgia proteggeva gli uomini con corazze ed elmi resistenti, e li dotava di armi da fuoco che avevano una efficacia sicuramente maggiore di quella turca.

Il conflitto, e la vittoria cristiana di Lepanto, risulteranno di vitale importanza per tutta la cantieristica europea. Ne è piena dimostrazione il fatto che, nei secoli successivi, le battaglie sul mare non saranno più combattute da scafi a remi, ma solo da scafi esclusivamente a vela.

Le conseguenze

La vittoria cristiana di Lepanto fu decisiva per l’intera comunità mediterranea dell’Europa. Se la fine ufficiale dell’impero Ottomano è databile al 1918, l’inizio della regressione dell’espansionismo islamico parte proprio dal 7 ottobre 1571. Qualora le imponenti flotte turche fossero riuscite ad avere la meglio su quelle cristiane, gran parte dell’Italia (esclusa Venezia) sarebbe passata sotto l’egida ottomana, e col tempo anche il traffico marittimo che collegava la Spagna ai suoi domini imperiali si sarebbe fermato, portando la potenza turca ad un’espansione che nemmeno gli Asburgo sarebbero stati in grado di fermare. Francia e Principi luterani e calvinisti non sarebbero stati in grado di reggere l’urto da soli, la barriera del Danubio sarebbe stata facilmente superata, e l’intera storia europea dei secoli XVI-XX sarebbe stata mutata in maniera inimmaginabile.

In conclusione, Lepanto rappresenta lo scontro che decise il futuro di due culture incapaci di convivere pacificamente, ma soprattutto una delle poche occasioni storiche in cui, buona parte della comunità europea occidentale si è riunita sotto un’unica forza per sconfiggere un’ avversario comune e garantirsi un futuro indipendente.

Bibliografia: Livio Agostini, Piero Pastoretto, Le grandi Battaglie della Storia, Viviani Editore, Il Giornale, 1999.
Fonte: Ars Bellica.

Foto di copertina: Battaglia di Lepanto, Biblioteca del Monastero di San Giovanni a Pisa.

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