Actio Ecclesiae et opus musicum

Condividi su...

Nel libro dell’Esodo leggiamo che «il Signore parlò a Mosè e gli disse: “Vedi, ho chiamato per nome Besalèl, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio, perché abbia sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzarli in oro, argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro… Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho comandato”» (31,1-6). Il brano biblico evidenzia come ogni vocazione all’arte per il ministero liturgico provenga dallo spirito di Dio che chiama per nome e invia per compiere un lavoro particolare. All’origine della vocazione artistica, c’è sempre l’elezione da parte di Dio; al suo termine, la volontà divina da compiere. Le qualità straordinarie sono concepite come se partecipassero in certo modo alla sapienza divina. Dio infonde nell’eletto il suo Spirito, cioè la forza divina che trasforma la persona umana, la rende capace di realizzare atti eccezionali donando tre doni: la sapienza, cioè l’emanazione del dono divino, riflesso della sua luce perenne e il gusto delle cose di Dio; l’intelligenza, cioè l’intuizione artistica della bellezza, unita alla capacità di saperla esprimere; la scienza che dona la padronanza della materia e dei procedimenti tecnici per la realizzazione delle opere. L’artista liturgico diventa tale, quindi, per elezione, per vocazione e per impegno personale, perciò può essere definito «ministro della bellezza divina».

 

 

Arduo e delicato è dunque il ministero artistico-musicale all’interno delle celebrazioni liturgiche. Non si tratta di un ruolo esibitivo-spettacolare, sarebbe gesto “sacro-idolatrico”, ma di un vero e proprio compito ministeriale a servizio dell’assemblea che celebra cantando i santi divini misteri. Nella celebrazione liturgica, infatti, l’esercizio di un determinato ministero comporta una serie di doni e di competenze. Per quanto riguarda i Lettori, l’OLM indica che essi «siano veramente idonei e preparati con impegno», poi specifica: «Questa preparazione deve essere soprattutto spirituale ma è anche necessaria quella propriamente tecnica. La preparazione spirituale suppone almeno una duplice formazione: quella biblica e quella liturgica» (nn. 55-56). In effetti, questa preparazione riguarda tutti quelli che esercitano un servizio musicale nelle celebrazioni liturgiche.

Mi riferisco al direttore della schola e agli stessi cantori. Questi, per esercitare adeguatamente il ministero devono possedere carisma e competenza. Ogni carisma, dono dello Spirito, esige la tecnica cioè la fatica dello studio, della ricerca, del lavoro, per acquisire quelle capacità atte, appunto, all’esercizio del ministero. Ogni compito ministeriale a servizio della celebrazione liturgica dev’essere dunque conferito in base al carisma; l’esercizio del carisma suppone la competenza, cioè la preparazione tecnica necessaria e indispensabile per acquisire quella professionalità che sta alla base di ogni autentica espressione artistica. Sappiamo che le qualità naturali, per essere bene esercitate, vanno educate e perfezionate. Nessuna attività di qualsiasi genere, anche suprema, si può esprimere senza quella tecnica che serve a realizzare, a far comunicabile e comprensibile quello che si ha in mente e in cuore. Non basta, per esempio, avere una voce “d’oro”, occorre educarla per saperla usare bene. Se non si ha la capacità di ordinare, ornare, comunicare le proprie idee, queste resterebbero “non nate” in una sorta di limbo intellettuale e, perciò, sconosciute.

Chi dirige un coro deve avere innanzi tutto la capacità di un power of insight, come dice Thomas Carlyle, cioè di “veder dentro”, di intuire: intus legere, capacità che è propria dei mistici immersi negli abissi del mistero. Aldilà della facoltà razionale, il direttore deve saper legger dentro la combinazione delle note e dei ritmi nel pentagramma, mettendo fuori il potere misterioso dell’in-canto che c’è all’interno della partitura. La capacità strategica, piuttosto che tattica, concentrerà la sua attenzione sul peso dei suoni nella danza dei ritmi: crescita del volume e della tensione armonica, controllo della velocità e della dinamica, percezione di ciò che è verticale dal punto di vista degli accenti combinato con il discorso orizzontale per tutto ciò che riguarda il fluire della musica-canto nel confluire dell’esecuzione, ricreando e interpretando il pensiero del compositore.

Al carisma, dono dello Spirito, e alla tecnica, collaborazione dell’uomo che fa fruttificare il dono ricevuto, al direttore del coro si richiede inoltre anche la preparazione spirituale. Il termine “spirituale” non equivale a un generico “sacrale” ma definisce la particolare esperienza dello Spirito che tutti i battezzati hanno ricevuto in dono. Essa suppone una duplice formazione: quella biblica e quella liturgica (cf OLM 55). La formazione biblica deve portare il direttore del coro alla conoscenza della santa Scrittura per spiegarla e musicalmente interpretarla, scegliere con cura i Testi per saperli collocare nei contesti dei vari riti. La formazione spirituale serve a comunicare al direttore «una certa facilità nel percepire il senso e la struttura della liturgia della parola e le motivazioni del rapporto fra liturgia della Parola e liturgia Eucaristica» (OLM 55). Soltanto l’adesione convinta e profonda ai valori celebrati trasformerà la preparazione tecnica in ministero fecondo per l’edificazione dei fedeli nella fede e per corroborare la vita teologale dei “musicisti di Chiesa”.

Il direttore del coro deve inoltre conoscere quali sono i compiti della schola sottolineati sia dal cap. VI della Costituzione Sacrosanctum Concilium sia dall’Istruzione Musicam sacram sia dai Praenotanda dei diversi libri liturgici. Essi istruiscono che la schola deve innanzitutto curare l’esatta esecuzione delle parti che le sono proprie, secondo i vari generi di canto e, inoltre, deve favorire la partecipazione «piena, consapevole, attiva», «interna ed esterna» dei fedeli, come esercizio del loro sacerdozio battesimale e non come esibizione da spettacolo. Il canto della schola, inoltre, deve favorire la partecipazione “attiva” attraverso l’ascolto, che non è fine a se stesso, ma è orientato a «innalzare le menti a Dio attraverso la partecipazione interiore» (MS cap. II,15c). Educare dunque i fedeli a sapere ascoltare non significa abituarli a saper provare solo emozioni estetiche ma a catechizzarli attraverso i contenuti di fede che “quel canto” professa. La schola, quindi, nasce e si sviluppa come sostegno dell’assemblea, raccordo con i ministri e supplenza per gli interventi musicali più complessi. Per chi dirige la schola, i cantori non saranno mai anonimi tasti bianchi o neri da percuotere ma ministri che celebrano cantando e cantano celebrando per «la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli». Nel Primo Libro delle Cronache, il termine usato per indicare l’esecuzione musicale è lo stesso di quello che definisce l’azione profetica: nb’. I cantori sono una sorta di “profeti” e la composizione musicale una vera e propria “ispirazione”. I cantori cantavano sulla cetra ed eseguivano musica “per celebrare e lodare il Signore… ed esaltare la sua potenza”. Tutti “maestri” ed “esperti nel canto del Signore, cantavano nel tempio nel tempio del Signore” (Cf  cap. 25, 1-8).

Il Coro, oltre ad avere il compito artistico che consente la perfetta esecuzione dei brani polifonici, offrendo così alle celebrazioni splendidiore forma, ha anche il ruolo di servizio orientato al coinvolgimento di tutti nel canto della preghiera liturgica, mettendo così in pratica il principio della “vera solennità” che è la partecipazione articolata di tutta quanta l’assemblea (cf MS n. 16c,20a,34). Lo “splendore della forma”, quindi, non è dato soltanto dalla musica in sé come realtà artistica; la giusta valutazione, infatti, non parte dall’opus musicum, ma dalle esigenze dell’actio Ecclesiae. Il canto liturgico, infatti, è arte celebrativa che è in sé arte cristiana e santa. Il canto, perciò, non è puro risuono di emozioni soggettive, non può essere ricerca di echi di un Dio lontano, invisibile e sconosciuto, non è realtà edificante e puro ornamento. Arduo e delicato è, dunque, il compito ministeriale-artistico dei “musicisti di Chiesa”. Essi operano nell’alveo della “santità sacramentale” che non è generica “sacralità”. “Sacro” è cosa che si rapporta alla trascendenza di Dio misurandone l’intervallo tra noi, sue creature, e Lui, il Dio distante e lontano, inarrivabile, insensibile e intoccabile. C’è il “Santo” quando percepiamo questo intervallo trascrivendolo in chiave di prossimità e di presenza. Il nostro Dio è vicino e avvicinabile, perché si è fatto carne della nostra natura. Nell’incontro teandrico sacramentale, l’arte del canto e della musica non vive, dunque, per “sacra distanza” ma per “santa partecipazione”. La SC 112 afferma, infatti, con chiarezza che: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più è strettamente connessa all’azione liturgica». Questi “più” non sono solo maggiorazioni quantitative ma anche qualitative in rapporto al musicale-liturgico e al pastorale-spirituale.

Ogni servizio all’interno della Chiesa, se non ha Cristo come sorgente, modello e meta, non porterà mai frutti autentici di novità e vera concordia di quella pluralità che genera unità. È Cristo il fine, lo scopo, il soggetto e la materia della vera arte liturgica: Lui, Dei Verbum fatto Carne della nostra carne per noi uomini e per la nostra salvezza; Lui, Lumen Gentium Splendore della Gloria del Padre, celebrato e cantato dalla sua Chiesa e nella sua Chiesa; Lui, Gaudium et Spes venuto per trasfigurare l’uomo, la storia e il cosmo.

Free Webcam Girls
151.11.48.50