Don Prades: il coraggio di dire io vince la codardia

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‘Il coraggio di dire io’ è il titolo del Meeting dell’Amicizia tra i popoli’ e, come ogni titolo deve essere decodificato per essere compreso: così ieri don Javier Prades, rettore dell’Università Ecclesiastica ‘San Dámaso’ di Madrid e membro della Commissione Teologica Internazionale, ha fatto una lectio magistralis, seguita da un auditorium gremito, secondo le misure anticovid, seguendo il percorso filosofico e teologico della costruzione dell’io per come si è sviluppata sugli opposti fronti del razionalismo e del cristianesimo.

Don Prades ha spiegato che il titolo del Meeting riprende una frase dei diari di Kierkegaard, il quale, interrogandosi circa il modo di comunicare la verità, è giunto a criticare il pensiero esclusivamente idealista e razionale, perché in ultima analisi fa perdere di vista la realtà: il filosofo danese aveva capito che la sola speculazione intellettuale astratta non è sufficiente, ma, per comprendere appieno la realtà, e possederne l’intrinseca verità, occorre che la persona si metta in gioco:

“Il fallimento delle ideologie e dei sistemi elaborati nell’ ’800 e nel ’900 ha lasciato dietro di sé un vuoto che l’individuo ha cercato di riempire dilatando il proprio diritto a autorealizzarsi: ma ciò non ha fatto che ingigantire la sensazione di solitudine delle persone. Pirandello lo aveva già capito quando scrisse ‘Uno, nessuno e centomila’:

il protagonista del testo, Vitangelo Moscarda, entra in crisi nel rapporto con moglie e con gli altri perché capisce che essi lo percepiscono in modo diverso da come lui percepisce se stesso; da ciò, trae la tremenda conclusione di non saper più chi egli stesso sia e che, in definitiva, la sua individualità si disperde.

Questo senso di solitudine riappare in numerose manifestazioni della cultura popolare attuale, dalle canzoni dei Queen, ai personaggi di ‘Nomadland’, laddove l’espansione dell’io impedisce una completa esplicazione della persona”.

Il discorso ha alternato citazioni letterarie a citazioni popolari: “Bohemian Rapsody ci presenta una visione della vita, quella dei Queen, in cui ‘non c’è spazio per i perdenti’ e la serie televisiva ‘Euphoria’ evidenzia lo smarrimento dei più giovani, che vivono senza limiti e hanno realizzato il programma degli anni ‘80, hanno provato tutto e si rendono conto dell’incapacità di essere ciò che avrebbero voluto essere”.

Inoltre il rettore spagnolo ha proposto all’uditorio l’ascolto di una canzone cara al popolo ciellino, intitolata ‘Il mio volto’, scritta da Adriana Mascagni quando era una giovane ragazza di Gioventù Studentesca: “Quanti elementi in questo canto eccezionale, incontrano l’esperienza di tante persone che abbiamo visto nei citati esempi di cultura contemporanea. Questa ragazza aveva percepito ciò che molti grandi pensatori hanno spiegato”.

Poi don Prades ha citato Edith Stein e la sua considerazione che il nostro essere, necessariamente fugace, trova la sua forza dall’essere sostenuto; e Hans Urs von Balthasar, secondo il quale la strada dell’uomo, per il raggiungimento della pienezza di sé, è il consegnarsi ad un altro.

L’autocoscienza che costruisce l’io cristiano non proviene dalla meditazione ma dal donarsi a una realtà o a una persona e questa autocoscienza è approdata in Occidente attraverso la tradizione giudaico-cristiana che concepisce l’io attraverso la relazione. Per poter dire io serve un rapporto, serve un Tu con la maiuscola, il tu di Dio. L’io è generato da un rapporto cui abbandonarsi completamente”.

Nella sua relazione ha ricordato Azurmendi, recentemente scomparso, che aveva capito che oggi la persona, credendo di essere completamente padrona di se stessa, si impedisce di trovare un baricentro stabile: “Per molto tempo la parola d’ordine è stata quella di essere se stessi e la strada per arrivare alla pienezza che ciascuno cerca sembrava consistere nell’essere autentici, anzi bisognava essere autoreferenziali”.

La sostanza del discorso è che l’io cristiano abita un paese diverso dall’idea teorica della verità: “Kierkegaard individua il limite della speculazione astratta dalla vita reale e inquadra l’esigenza, posta propria dal pensiero cristiano, di far emergere la verità di un uomo vivo, in cui si forma l’io”.

Infine ha affrontato il tema del coraggio con don Abbondio: “E’ vero che il coraggio uno non può darselo da sé, ma Giussani ha chiarito che il coraggio può nascere muovendo da una simpatia, da un incontro, come fu per gli apostoli che si sono legati a Gesù.

Abramo ha fatto nascere il popolo ebreo, il sì di Pietro a Gesù ha fatto nascere il popolo cristiano. La pienezza dell’umano è coincidenza di pensiero ed azione, che si gioca attraverso la libertà, e la strada che genera l’io è fatta di ragione, giudizio, affezione e libertà”.

Al termine di questo percorso l’alternativa alla solitudine non è il narcisismo novecentesco, ma l’accoglienza dell’altro, l’avvertire la responsabilità di altri: “Il  coraggio nasce dalla simpatia.

Il ‘coraggio di dire io’ passa dall’attaccamento affettivo, quella simpatia che rende possibile la responsabilità e che spiega il passaggio dalla figura del Figlio di Dio che dice ‘io’ ai tanti uomini che oggi possono dirlo”.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche il prof. Andrea Moro, neurolinguista e docente di linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, che ha declinato  il tema del Meeting in chiave linguistica, affermando che “dire io esprime l’atto tipicamente umano di prendere coscienza di sè, ed ha come condizione previa la possibilità del linguaggio. Senza di esso, di questo io umano, effimero eppure capace di infinito, si potrebbe parlare solo come ripetitori di discorsi”.

Il neurolinguista ha concluso sottolineando che le lingue “sono l’espressione stessa del cervello. Come se la carne si facesse logos”.

(Foto: Meeting Rimini)

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