Dal Soffio la Vita

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Il libro della Genesi si apre descrivendo gli inizi della creazione e racconta che in principio «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». La parola ruah, che si suole tradurre con “spirito”, letteralmente indica il soffio con cui il Creatore dà al composto umano consistenza, bellezza, senso e bontà. «Il Signore Dio plasmò l’uomo (adam) con polvere del suolo e soffiò nelle narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7), cioè l’essere animato da un soffio vitale. Anche se, nel contesto di Genesi, non si tratterebbe ancora dello Spirito personale della rivelazione del NT, tuttavia, nell’antropologia ebraica, il tema del soffio è collegato con il giorno dello Shabbat, in cui l’uomo, seduto davanti a Dio, si ferma per respirare e riprendere fiato nella ruah Jahvè. Chi vive nell’esicasmo, ricerca una sorta di riposo spirituale per sedersi davanti a Dio e concordare il proprio respiro con quello di Dio. In Philocalie des Pères neptique, sant’Esichio consiglia che bisogna ricordarsi di Dio così come si respira: «Pensa a Dio più spesso di quanto tu respiri» (Bellefontaine 1979, p. 75).

L’essere spirituale è chi ha capacità di unire il suo spirito-soffio allo Spirito-Soffio di Dio. Un cuore senza respiro, muore, perché è il respiro che lo vivifica e lo affina. Obbedire all’invito dei Profeti è rimanere fedeli all’antropologia biblica che continuamente sollecita a ritornare al proprio cuore per trasformarlo, da pietra, in carne. Il cuore è la profondità interiore dell’uomo e abbraccia tutto ciò che definiamo “persona”. Per gli apostoli Pietro e Paolo, il luogo in cui è nascosto l’uomo è il suo cuore: lì vive e opera lo Spirito.

I sapienti ci istruiscono che l’integrità della persona si trova nel rapporto armonioso tra due forze spirituali: il cuore, sorgente di sentimenti e d’intuizioni e il cervello sede del pensiero e dell’intelligenza. Per costruire la persona occorre possedere l’armonioso rapporto fra intelletto e cuore. Gli esicasti descrivono la preghiera come lo stato di chi sta davanti a Dio con l’intelletto del cuore. La preghiera, fatta col solo intelletto, non realizzerà mai un rapporto orante personale e diretto con Dio. Sarà forse un rapporto “su” Dio ma non “in” Dio. Sta qui la fondamentale differenza tra il celebrare sacramentalmente il Mistero “in Dio” e il teatralizzare scenograficamente il mistero “su Dio”. Il primo è esperienza di santità, il secondo è sacralità idolatrica. Conoscenza è respiro d’amore che realizza l’incontro con l’intelletto del cuore: «Chi ama conosce Dio» (1Gv 3,7). Celebrare sacramentalmente questo rapporto teandrico non significa fare spettacolo a Dio su Dio, ma realizzare, nel sacramento, simbiosi di cuori nel Soffio dolce e forte dello Spirito. È quello stesso Spirito che infiammò i cuori di Cleofa e del suo compagno che fece gridare in entusiasmo l’uno all’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?» (Lc 24,42). Sotto l’effetto del Soffio-Fuoco dello Spirito, tutto si rischiara, tutto s’infiamma e si diventa capaci di realizzare amore vicendevole e universale. Soltanto nell’amore di Dio si trova l’amore per il prossimo e anche i nemici diventano, addirittura, creature divine. Lì dove non si vive nell’alveo divino del Soffio-Fuoco dello Spirito, si vegeta nell’idolatria che innesca quella sorta di discordia senza respiro che distrugge l’unità dell’uomo e degli uomini tra di loro. La sola intelligenza, senza il soffio divino del cuore, non potrà mai creare sinergia armoniosa tra natura e grazia. L’antropologia biblica non è schizofrenica, è sempre unitaria, solo in questa sua interezza può ricevere vita e grazia.

Quante volte pronunziamo la parola “amore”, soltanto con le labbra, senza il gusto del cuore! Avere un cuore significa avere un centro, uscire dalla dispersione mentale. Il cuore armonizza le funzioni vitali con quelle intellettuali immergendo l’intelletto nel cuore e trasformando gli slanci ciechi delle pulsioni in energie d’amore. Quando il cuore è assente, l’incontro tra le persone non è amore. La musica ha bisogno delle orecchie del cuore per essere percepita e gustata. Il canto del Kyrie, eleison, non indica commiserazione che respinge. La pietà di Dio è lo Spirito, è il dono del suo amore di Padre che manda su di noi il suo Ruah, il suo Soffio-Spirito per donarci la sua Misericordia. Solo così ci rende capaci di respirare in Lui che trasforma il cuore di pietra in cuora di carne.

L’Amore di Dio non è solo amore “intellettuale”, è presenza “teantropica” del Dio-Uomo. Quel Soffio che ci ha creati a sua immagine e somiglianza è quello stesso Soffio che ci trasfigura nel Logos-Fos, divinizzandoci. «Per Lui, con Lui e in Lui» ci immergiamo nell’intimità della Sorgente: «Là dove sono io, voglio che stiate anche voi», «il Padre e io siamo Uno».

Il Natale di Gesù non può fermarci alla sola percezione dell’umanizzazione di Dio, occorre anche l’esperienza della deificazione dell’uomo, e di tutto l’uomo. L’Incarnazione deve renderci capaci di vedere la Gloria di Dio nel corpo del mondo. Nel pensiero giudeo-cristiano, “Gloria di Dio” significa evocazione di un’esperienza di peso, di luminosità in splendore. Il mondo romano, traducendo il termine dignitas con gloria, intendeva forse definirla come fama, potere di una parvenza. Il salmo ci fa cantare: «I cieli e la terra narrano la gloria di Dio» (19, 2) cioè, il Creatore è presente nella sua creatura attraverso le sue energie. Sul Sinai, Mosè vede il roveto ardente e ascolta la voce: «Io Sono colui che sono» (Es 3,14). Non dice solo di essere “colui che esiste”, ma afferma che egli è “colui che agisce” sovranamente nella storia. Dio si qualifica come l’”Essere” e il “Presente”. Ogni realtà esiste perché viene dall’Essere eterno e sussiste per l’azione di quella Presenza immensa e creatrice. La visione del roveto, l’energia della fiamma e l’ascolto della Voce sono esperienza spirituale d’insieme della natura e dell’energia attraverso cui si rivela il trascendente. Sul Tabor, i tre discepoli contemplano l’umanità di Dio-Uomo trasfigurata in Luce-Splendore e ascoltano la Voce: «Questi è il Figlio mio, l’Eletto, ascoltatelo». In linguaggio metafisico si può tradurre: ecco la mia manifestazione. I discepoli, nel Visibile contemplano l’Invisibile; nell’ascolto della Voce, vengono in contatto con l’“Innominabile” che dimora in Luce inaccessibile.

L’energia creatrice Ruah Jahvè che dona la vita a ogni essere vivente, nell’Incarnazione crea il Dio-Uomo per fare rinascere quell’immagine e somiglianza del primo uomo modellato dal ruah della prima creazione. Dio e l’uomo sono uniti da quel Soffio che li fa vivere cor ad cor. Soltanto quel Soffio d’amore ci dà la capacità d’intonare, con il respiro del cuore, il cantico sempre antico e sempre nuovo delle meraviglie di Dio. Immersi nello Spirito del Signore Gesù possiamo cantare l’Abbà, Padre che ci santifica e divinizza.

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