A Macerata si è chiusa la fase diocesana di beatificazione di padre Matteo Ricci

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Si è conclusa Venerdì 10 maggio a Macerata la fase diocesana del processo di beatificazione di padre Matteo Ricci con gli interventi di mons. Claudio Giuliodori, amministratore apostolico della Diocesi di Macerata, mons. Savio Hon Tai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, padre Gianni Criveller, presidente della Commissione storica della Causa di Beatificazione e padre Giuseppe Bellucci, responsabile della Compagnia di Gesù nella Provincia d’Italia. Il vescovo Giuliodori aveva annunciato lo scorso febbraio che il processo si sarebbe concluso in coincidenza della ricorrenza della morte (11 maggio) del gesuita confidando in un segno che configuri la santità di un uomo ‘proiettato nel futuro’. E l’eco del gesuita marchigiano ha qualcosa di prodigioso, stando solo alla numerosa letteratura sorta in questo primo decennio del nuovo millennio: ‘Cina e cristianesimo’ di Jacques Gernet; ‘Il palazzo della memoria di Matteo Ricci’ di Jonathan Spence; ‘Cina. La mia vita a Pechino’ di Michela Fontana; ‘Matteo Ricci. Il gesuita amato dalla Cina’ di Francesco Occhetta; ‘Matteo Ricci. Uno scienziato alla corte di Pechino’ di Paul Dreyfus; ‘Un gesuita in Cina’ di Giulio Andreotti; ‘Matteo Ricci. Passione e Ragione’ di Gianni Criveller; ‘Matteo Ricci. Il chiosco delle fenici’ di Filippo Mignini.

Tra i molti scrittori che si sono imbattuti nella vita del gesuita abbiamo incontrato mons. Gino Battaglia, direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso, che ha scritto un romanzo, finalista al premio Strega, ‘Malabar’, che racconta gli anni di padre Matteo Ricci nel sud dell’India prima di trasferirsi a Pechino. Siamo nel 1578: il giovane maceratese Matteo Ricci trascorre alcuni anni a Cochin, città reale e porto del Malabar, emporio delle spezie, luogo di coabitazione tra comunità religiose ed etniche diverse. Matteo Ricci è inviato dai superiori del collegio in cui vive a rintracciare un vecchio missionario, padre Àlvaro Penteado. Abbandonato dai connazionali ma considerato un uomo santo dagli indiani, padre Àlvaro sembra confuso e schiacciato dai suoi presunti fallimenti, ma il suo racconto trascina il giovane gesuita e lo sommerge come le acque torbide della laguna di Cochin, guidandolo alla scoperta di un mondo smisurato e conturbante, conducendolo dove egli, con tutta la sua scienza e la sua razionalità, non avrebbe mai voluto o pensato di spingersi.

 

A mons. Gino Battaglia di spiegarci i motivi per cui ha scritto ‘Malabar’: “Il Malabar è una regione dell’India meridionale molto importante, perché è un centro di scambi commerciali nella storia dei rapporti tra India ed il mondo; eppoi negli scambi culturali, perché è tuttora una terra di convivenza, dove sono presenti tutte le religioni. Il libro si interessa di una vicenda del XVI° secolo, che ha come protagonista Matteo Ricci, che proprio in questo scenario ha le prime esperienze dell’incontro con la cultura asiatica. Negli anni in cui padre Ricci completa la sua formazione prima di trasferirsi in Cina, il Malabar è una sorta di laboratorio, dove egli ha le prime intuizioni di quel grande lavoro che poi svolgerà in Cina”.

Però, nonostante questo laboratorio, Ricci aveva contrasti all’interno della Compagnia di Gesù? “Il panorama in cui si svolge la vicenda è molto complessa, in cui erano presenti i Gesuiti ma anche altri ordini religiosi, che avevano un’altra prospettiva; eppoi erano complessi anche i rapporti tra europei ed indiani; ma la cosa interessante è che nel Malabar c’è una comunità cristiana molto antica di tradizione siriaca, di cultura indiana e di fede cristiana, che in qualche modo rappresenta una inculturazione realizzata. Questo probabilmente è un incontro che a Matteo Ricci ed agli altri Gesuiti suggerisce qualcosa su come affrontare l’evangelizzazione in Asia”.

A 400 anni dalla morte di padre Matteo Ricci a quale punto si trova il dialogo interreligioso? “Naturalmente il dialogo interreligioso non ha come obiettivo di creare una unica religione, ma quello di creare un ‘clima’ di incontro e di amicizia tra tutte le religioni. Questo è molto importante perché le religioni che si riconoscano amiche vuol dire la possibilità di un maggiore avvicinamento tra tutti i popoli. In questo periodo ci sono stati alcuni problemi, in particolare il dialogo con l’Islam dovuto ad alcuni gruppi, che hanno utilizzato la religione in chiave bellicosa. Questo ha un po’ influenzato tutto il clima del dialogo interreligioso; però accanto a questo vorrei dire che dal 1986, anno in cui ad Assisi il beato papa Giovanni Paolo II ha dato l’avvio ad una fase nuova del dialogo interreligioso, noi abbiamo un movimento di uomini e di donne di fede diversa che si ritrovano intorno al tema della pace. Questo mi sembra un fatto importante!”

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