Dal “metodo Tortora” e “metodo Boffo” al “metodo Becciu”. Nihil sub sole novum. Processi a mezzo stampa e gogna mediatica

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«Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qoelet 1,9).

Oggi, 4 luglio, il giorno in cui la Terra è più lontana dal Sole, potremmo ricordare tante occorrenze. Oggi nel 1054 esplode la supernova che porterà alla formazione della Nebulosa del Granchio, che secondo le cronache cinesi del tempo, restò visibile in pieno giorno per parecchi mesi. Oggi nel 1187 Saladino sconfigge Guido di Lusignano, Re di Gerusalemme, nella battaglia di Hattin e la reliquia della Vera Croce è perduta per sempre. Oggi nel 1300 – nell’universo virtuale della tragedia shakespeariana Romeo e Giulietta – durante una festa in casa Capuleti, Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti si conoscono e s’innamorano. Oggi nel 1776 il Congresso continentale approva la Dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna e nascono gli Stati Uniti d’America. Potremmo andare avanti, ma oggi ci tocca di ritornare sul calvario di un uomo per bene.

Dopo i due articoli di ieri –

– in questa domenica mattina d’estate, ci tocca ritornare sul “caso Becciu”, per lealtà e per amore della verità. Quid est veritas? «Cos’è la verità?», chiede Ponzio Pilato durante il suo interrogatorio a Gesù (Gv 18,38). In questo passo Pilato chiede a Gesù di confermare la sua dichiarazione di «rendere testimonianza alla verità». Dopo di ciò, Pilato proclama alle masse dei Giudei: «Io non trovo in lui nessuna colpa». Il significato della domanda è stato oggetto di dibattiti tra studiosi testamentari, che però non sono giunti a solide conclusioni (come tante volte, fino a dichiarare ad uno che non possiamo essere sicuri di niente, perché in qui tempi non esistevano i registratori, fino a mettere in discussione pure la Risurrezione, la Verità suprema senza la quale la nostra Fede non ha senso). La domanda di Pilato potrebbe essere intesa come uno scherno, se si considera il processo una farsa, o potrebbe significare che la verità è difficile da accertare…

Siamo stati sollecitati dal messaggio privato di un amico (“Per me c’è una somiglianza tra [Mons. Alberto] Perlasca e Giovanni Pandico, lo pseudo-pentito che ha incastrato Enzo Tortora”), dalle dichiarazioni della figlia di Tortora, Gaia e da un commento Facebook dell’amico Dino Boffo.
Come abbiamo detto – e l’abbiamo detto e ripetuto pubblicamente – dall’inizio del “caso Becciu”: noi non abbandoniamo il cardinale. E ce ne facciamo una ragione di essere chiamati per questo “difensori d’ufficio di Don Angelino” da falsari lanciatori di coriandoli della gogna mediatica. Non abbandoniamo il cardinale, non solo per amicizia, per stima e per rispetto reciproco, ma perché – carte alla mano – siamo fermamente convinti della sua innocenza e fiduciosi che lo dimostrerà davanti al tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Quindi, ben venga la citazione in giudizio, perché così finalmente potrà difendersi nella sede appropriata e non sulle pagine di rotocalchi imbrattati con inchiostro calunnioso da veline false e calunniose, e documenti fatti trapelare ad arte per far apparire vere delle illazioni.

Poi, come detto: nihil sub sole novum. E per capire il “metodo Becciu” occorre capire cosa sono il “metodo Tortora” e il “metodo Boffo”. Come disse Qoelet, nihil sub sole novum, appunto. E per capirlo è necessario andare a scoprire cosa viene nascosto dove non batte il sole. “Metodo Tortora” e “metodo Boffo” sono locuzioni utilizzati nel linguaggio politico e giornalistico per indicare una campagna di diffamazione a mezzo stampa che si basa su alcuni fatti reali, abilmente mischiati e uniti a falsità, illazioni e calunnie, sia allo scopo di screditare una personaggio scomodo per scopi inconfessabili, ma soprattutto per creare un diversivo mediatico per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da temi altrimenti scomodi. Le espressioni “metodo Tortora” e “metodo Boffo” – a cui adesso si è aggiunto a pieno titolo il termine “metodo Becciu” – sono entrate nel gergo della politica e del giornalismo italiano, diventando sinonimo di “macchina del fango” e venendo citata per trattamenti simili subiti da altri personaggi pubblici condannati per mezzo stampa alla gogna mediatica.

Foto di Corriere della Sera.

«Il Vescovo di Ozieri, Mons. Corrado Melis, testimonia, con l’affetto di sempre, la dirittura morale e l’ispirazione ai valori evangelici che il Card. Angelo Becciu ha posto a fondamento della sua vita, come persona e come sacerdote.
Nonostante il calvario che ha messo tutti di fronte a un’indicibile prova – nondimeno affrontata con pazienza e fiducia perché non vi è mai stato dubbio dell’estraneità di Sua Eminenza agli addebiti oggi divulgati dalla stampa – il Vescovo Melis serenamente confida nel pieno disvelamento della verità.
Ripone, comunque, assoluta fiducia nelle Autorità vaticane procedenti, con l’auspicio che possano al più presto acclarare la correttezza e serietà del Card. Becciu sotto ogni profilo, sia personale sia nel suo servizio incondizionato alla Chiesa».

«Comunicato stampa nell’interesse di Sua Eminenza il Cardinale Giovanni Angelo Becciu, 3 luglio 2021
Avv Fabio Viglione
Di seguito riporto un comunicato di Sua Eminenza:
“Sono vittima di una macchinazione ordita ai miei danni, e attendevo da tempo di conoscere le eventuali accuse nei miei confronti, per permettermi prontamente di smentirle e dimostrare al mondo la mia assoluta innocenza.
In questi lunghi mesi si è inventato di tutto sulla mia persona, esponendomi ad una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio, anche per il rispetto e la tutela della Chiesa, a cui ho dedicato la mia intera vita. Solo considerando questa grande ingiustizia come una prova di fede riesco a trovare la forza per combattere questa battaglia di verità.
Finalmente sta arrivando il momento del chiarimento, ed il Tribunale potrà riscontrare l’assoluta falsità delle accuse nei miei confronti e le trame oscure che evidentemente le hanno sostenute e alimentate”».

Ecco, questi sono comunicati stampa del Vescovo di Ozieri e del Cardinale Angelo Becciu.

Ovviamente, non si è fatto pregare il falsario lanciatori di coriandoli su L’Espresso, il settimanale all’origine della gogna mediatica contro il Cardinal Becciu, che si assicura che le sue responsabilità non vengono dimenticate. Leggiamo cosa scrive il giudice/boia mediatico in un post sul suo diario Facebook:
«Poche ore fa don Angelo Becciu, Fabrizio Tirabassi, Enrico Crasso, Cecilia Marogna, Mons. Mauro Carlino, Raffaele Mincione, Gianluigi Torzi, Nicola Squillace, René Brülhart e Tommaso Di Ruzza (Autorità Finanziaria Vaticana) sono stati rinviati a giudizio a vario titolo per i reati di truffa, peculato, abuso d’ufficio e corruzione.
Avevamo scritto tutto a settembre, con un’inchiesta bella e rigorosa, che ha attraversato metodi e sistemi criminali, lo abbiamo continuato a scrivere per i mesi a venire. Sono stato fatto oggetto da parte di Libero, di Vittorio Feltri e Renato Farina, difensori d’ufficio del Cardinale, di una vergognosa campagna di intimidazione, calunnia e profanazione della mia vita personale. È stato possibile questo perché non appartengo a nessuno, perché a pranzo o a cena vado con le persone a cui voglio bene e non coi potenti di turno, è stato possibile perché c’è giornalismo di inchiesta e giornalismo di inchiesta, per alcuni si nutre di fonti inquinate e per altri, come me, di fatti, di scarpe consumate, di notti di studio, di persone che cercano di combattere il malaffare.
Spero che non capiti mai più a nessuno perché già è successo a troppi».

Poi, parla anche un’altra attrici nelle vicende, Francesca Immacolata Chaouqui, in un colloquio riportato da Adnkronos (“Auguro a Becciu un tempo di riflessione e se non responsabile faccia valere sue ragioni”): «La richiesta di rinvio a giudizio del cardinale Angelo Becciu e di altre nove persone al termine dell’inchiesta sull’ investimento londinese nel palazzo di Sloane Avenue apre una nuova era in Vaticano. Ne è convinta Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della Cosea in Vaticano, processata e condannata a 10 mesi per concorso in divulgazione di documenti riservati nell’ambito di Vatileaks. “Ho pagato un prezzo alto, forse il più alto di tutti – osserva all’Adnkronos la pierre – ma rifarei tutto per aiutare il Papa nella strada della trasparenza. Oggi finisce l’era delle porte in faccia che anche Cosea si è vista chiudere quando si chiedeva contezza degli investimenti in Vaticano”.
“Per quel che mi riguarda – dice Chaouqui – dal punto di vista personale questa è una giornata emozionante. Per me si chiude il cerchio di quello che è stato il servizio svolto al fianco del Santo Padre. Adesso sarà la magistratura a decidere le responsabilità di ognuno. Mi auguro si possa affrontare il procedimento in modo sereno e giusto. Quel che è importante è che il Papa è andato avanti sulla sua idea di trasparenza, sulla sua volontà di cercare la giustizia e la verità”.
Ora l’inchiesta con il rinvio a giudizio del cardinale Becciu e di altre nove persone che sortirà? “Io credo – osserva- che il cardinale Becciu affronterà il processo e si difenderà in giudizio cercando di dimostrare la sua innocenza, se è innocente. Io credo però sia arrivato il tempo di mettere da parte acredini e tensioni che si sono create, ognuno in queste battaglie ha lasciato un pezzo della propria vita . La cosa che auguro a tutti noi è di ritrovare un po’ di serenità e di equilibrio per affrontare le cose come andranno”.
L’ex esponente di Cosea torna agli anni in cui è stata membro della Pontificia Commissione Referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede: “Questo che sta accadendo oggi, se pensiamo al Vaticano che accusò me cinque anni fa per avere divulgato notizie riservate, pare impossibile però quel Vaticano oggi non esiste più, esiste un Vaticano pronto ad affrontare con determinazione la verità a qualunque costo. Quando Cosea chiedeva contezza investimenti ci chiusero la porta in faccia, oggi tutto cambia e non rimpiango nulla, ho affrontato anche il pregiudizio della gente ma ho vissuto per qualcosa di grande”.
Chaouqui ha attaccato spesso il cardinale Angelo Becciu. “Il dissapore personale verso Becciu dispiace, mi dispiace anche essere stata a volte dura nei suoi confronti perché questa storia mi ha toccato molto. Io ho pagato un prezzo alto, il più alto, ma oggi mi rendo conto che anche per me deve arrivare un tempo di perdono. Io – dice Francesca Immacolata Chaouqui – mi aspetto che le varie parti del processo chiariranno e forse riscriveranno Vatileaks però oggi la cosa importante è ritrovare serenità verso il cardinale. Io spero che questo processo non sia per vendette ma per fare luce su ciò che è accaduto. Non sarà un regolamento di conti, tante persone hanno sofferto e ci sono vite distrutte. Chiunque si avvicinava al sistema doveva essere spazzato via. Io per prima”.
Chaouqui pensa che Bergoglio, con la sua operazione trasparenza, abbia voluto “portare le persone ad assumersi le loro responsabilità nel bene e nel male. Bergoglio ha fatto questa enorme opera per spiegare che il suo Vaticano non dà spazio a corruzione, peculato, a calunnie, alla distruzione della vita per una lobby finanziaria. Io sono ammirata dal lavoro della Gendarmeria e della Procura del Vaticano anche in un clima dove i media non erano a favore né dell’inchiesta né della trasparenza. Se tornassi indietro e mi richiedessero di servire il Papa in questo modo lo rifarei, tornerei anche in commissione”.
Infine un pensiero al cardinale Becciu che si difenderà dalle accuse nel processo: “Auguro al cardinale un periodo di riflessione su eventuali responsabilità, se ne ha, e sennò di fare valere le proprie ragioni. Io non ho risentimento e spero che ognuno rifletta su errori e cose fatte perché si sta parlando della Chiesa universale e non di una società finanziaria”».
#SantaSubito

Il “metodo Tortora” e il “metodo Boffo”
Per capire il “metodo Becciu”

Per capire in fondo cosa è capitato di così brutto al Cardinale Angelo Becciu, è necessario capire cosa è capitato a Enzo Tortora (che, purtroppo ci ha lasciato; ma, fortunatamente, c’è ancora sua figlia, Gaia, che può parlare) e Dino Boffo (che c’è ancora, come anche Angelo Becciu, che possono parlare).

Il caso Tortora

Nonostante il proprio dramma familiare, la figlia di Enzo Tortora con lucidità evidenzia le gravi colpe personali e istituzionali del sistema giudiziario colluso con li giornalismo giudiziario replicante, che attacca e distrugge persone, biografie, vite, affetti. Ma non era la stessa logica dei brigatisti che sparavano a divise, rappresentanti, ruoli, funzioni e non a padri, madri, figli e sorelle? Vedremo il giorno in cui i magistrati d’assalto, ambiziosi, politicanti pagheranno di persona i loro accanimenti giudiziari? Dobbiamo sperarlo per i nostri figli. Gaia Tortora a La7: “Io credo nella giustizia. Ma se c’è qualcosa di sbagliato, devono pagare (anche i magistrati) come tutti gli altri” [QUI].

Per i più giovani tra di noi, ricordiamo che Enzo Tortora (Genova, 30 novembre 1928 – Milano, 18 maggio 1988) era un conduttore televisivo, autore televisivo, conduttore radiofonico, attore, giornalista e politico. Considerato tra i padri fondatori della televisione in Italia, tra i suoi lavori più importanti in televisione vi sono la conduzione de La Domenica Sportiva e l’ideazione e conduzione del fortunato programma Portobello. Il suo nome però è ricordato – dai meno giovani tra di noi – per il clamoroso caso di malagiustizia e gogna mediatica di cui fu vittima e che fu poi denominato “metodo Tortora”. Tortora fu accusato, su richiesta dei procuratori Francesco Cedrangolo e Diego Marmo, dal giudice istruttore, il magistrato Giorgio Fontana, di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; il 17 giugno 1983 fu per questo arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Dopo sette mesi di reclusione, nel gennaio del 1984, fu liberato, ma il 17 settembre 1985 i due pubblici ministeri del processo, Lucio Di Pietro e Felice di Persia, ottennero la sua condanna a dieci anni di carcere. La sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta il 15 settembre 1986, quando venne infine assolto dalla Corte d’appello di Napoli, con sentenza confermata dalla Corte di cassazione nel 1987. Tortora morì un anno dopo la sua definitiva assoluzione.

«Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in “innocentisti” e “colpevolisti” – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommette su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto» (Leonardo Sciascia – El País, 1987).

Venerdì 17 giugno 1983, Enzo Tortora venne svegliato alle 4 del mattino dai Carabinieri di Roma e arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Le accuse si basavano sulle dichiarazioni dei pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso e Pasquale Barra, legato a Raffaele Cutolo; inoltre, altri 8 imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata, tra cui Michelangelo D’Agostino, pluriomicida detto “Killer dei cento giorni”, accusarono Tortora. A queste accuse si aggiunsero quelle, rivelatesi anch’esse in seguito false, del pittore Giuseppe Margutti, già pregiudicato per truffa e calunnia, e di sua moglie Rosalba Castellini, i quali dichiararono di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna 3; si contarono così tredici false testimonianze e, in totale, i pentiti che accusarono Tortora assommarono a 19.

Gli elementi “oggettivi”, di fatto, si fondavano unicamente su un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista, Giuseppe Puca detto O’Giappone, recante scritto a penna un nome che appariva essere, inizialmente, quello di Tortora, con a fianco un numero di telefono; il nome, ad esito di una perizia calligrafica, risultò non essere quello del presentatore, bensì quello di un tale Tortona. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore.

Si stabilì, per giunta, che l’unico contatto avuto da Tortora con Giovanni Pandico fu a motivo di alcuni centrini provenienti dal carcere in cui era detenuto lo stesso Pandico, centrini che erano stati indirizzati al presentatore perché venissero venduti all’asta del programma Portobello. La redazione di Portobello, oberata di materiale inviatole da tutta Italia, aveva smarrito i centrini ed Enzo Tortora scrisse una lettera di scuse a Pandico. La vicenda si era poi conclusa, o così pareva, con un assegno di rimborso del valore di 800.000 lire. Pandico, schizofrenico e paranoico, maturò sentimenti di vendetta verso Tortora, e iniziò a scrivergli delle lettere che pian piano assunsero carattere intimidatorio a scopo di estorsione.

In un’intervista pubblicata sul settimanale L’Espresso il 25 maggio 2010, l’ex collaboratore di giustizia Gianni Melluso, uscito dal carcere nel 2009, chiese ufficialmente perdono ai familiari di Enzo Tortora per le dichiarazioni rese ai magistrati all’epoca dei fatti e reiterate nel 1992, sostenendo che il suo agire fosse stato condizionato dalla brama di vendetta dei due boss Barra e Pandico e ammettendo la falsità delle accuse.

«È facile, scampanando retorica e solleticando un mai sopito plebeismo, fare apparire una vittima come un privilegiato» (Leonardo Sciascia – Corriere della Sera, 1985).

Il “caso Boffo”

Intervista di Antonello Caporale a Vittorio Feltri, Direttore editoriale di Libero su Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2021: «Caporale: “Siamo nel 2008, tu dirigi Il Giornale”. Feltri: Lui [Alessandro Sallusti] è il condirettore, viene da me e mi dice: abbiamo questo documento su Boffo. Gli faccio: siete sicuri? Hai controllato? Mi fa: certo, tutto a posto. Risultato: l’Ordine mi appioppa sei mesi di sospensione, oltre tutto il casino che ne viene. E lui ancora a dirmi: guarda che Ruini è contentissimo (o forse era Bertone? Ndr). Ma va là».

«Senza parole. Dal Fatto Quotidiano di oggi, 3 luglio 2021, dodici anni dopo il “famoso” caso Boffo. (Naturalmente che le cose stessero così lo si sapeva da sempre, eppure impressiona scoprire evocato con tanta banale spavalderia un killeraggio mediatico che per alcune settimane sembrò fermare l’opinione pubblica nazionale. Ovvio che il cardinale di cui si parla non è Ruini, ma l’altro. Innominabile)» (Dino Boffo – Facebook, 3 luglio 2021).

Rinfrescando la memoria – visto che la distrazione di massa regna sovrana – ricordiamo che Dino Boffo (Asolo, 19 agosto 1952) è un giornalista e accademico, che è stato Direttore del quotidiano Avvenire (1994-2009) e Direttore di rete di TV2000 e Radio inBlu (2010-2014), ambedue di proprietà della Conferenza Episcopale Italiana. Dino Boffo ho conosciuto in occasione della Visita Pastorale in Veneto di San Giovanni Paolo II (15-17 giugno 1985) e mi ricordo vivamente il primo incontro, avvenuto alla vigilia a Treviso, e non gli mai fatto mancare l’espressione della mia amicizia e stima, rinnovato duranti i contatti istituzionali negli anni dei suoi incarichi ad Avvenire, a TV2000 e a Radio inBlu, come anche durante e dopo gli episodi ricordati come il “metodo Boffo”.

Il 28 agosto 2009, Vittorio Feltri, Direttore del Giornale – come ha ricordato nell’intervista del 3 luglio 2021 al Fatto Quotidiano -, ritenendo incoerenti le critiche rivolte da Boffo al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per alcune vicende personali, pubblica un certificato del casellario giudiziale da cui risulta una condanna di Boffo per molestie e un documento (presentato come un’informativa della polizia) che diffonde la voce sulla presunta omosessualità dello stesso Boffo. Questa voce, attribuita dal documento al Tribunale di Terni e come tale riproposta da Feltri, viene però smentita dal gip di Terni. La vicenda riferita da Feltri risale al 2002, quando Boffo venne denunciato da una donna per molestie telefoniche.

Dopo le indagini del caso, il 9 agosto 2004 il Giudice per le indagini preliminari di Terni aveva emesso contro di lui un decreto penale di condanna per la contravvenzione di molestia alle persone (art. 660 C.P.), comminando un’ammenda di € 516 mentre la querela per ingiuria venne ritirata. Boffo pagò l’ammenda. In seguito affermò che lo aveva fatto per chiudere una vicenda fastidiosa da altri causata, senza riconoscere pubblicamente responsabilità proprie, e sostenne che le telefonate erano state fatte a sua insaputa da qualcun altro. Di fronte alle accuse contenute nella presunta informativa e rilanciate da Feltri, Boffo ricevette solidarietà da giornalisti e politici da diversi schiaramenti. Il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana gli esprime pieno appoggio e lo stesso Berlusconi si dichiara estraneo alle accuse, mentre il Ministro dell’Interno smentisce l’ipotesi di schedatura da parte della polizia nei confronti di Boffo. Il 30 agosto 2004 Boffo definisce “patacca” la documentazione pubblicata sul Giornale. Il 2 settembre 2004 Avvenire pubblica un articolo a sostegno di Boffo, mentre Feltri, nella trasmissione Radio anch’io attribuisce la “velina” da lui pubblicata ai servizi segreti vaticani, venendo però smentito dalla Sala Stampa della Santa Sede. Il 3 settembre 2009, dopo che Avvenire aveva respinto in dieci punti le accuse del Giornale, Boffo si dimette da direttore di Avvenire, Sat2000 e Radio inBlu con una lettera al Cardinale Angelo Bagnasco, il quale esprime “rammarico, profonda gratitudine e stima” nei suoi confronti.

Il 4 dicembre 2009 Feltri scrive sul Giornale che «la ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali» e che «Boffo ha saputo aspettare, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, tenendo un atteggiamento sobrio e dignitoso che non può che suscitare ammirazione». Il 26 marzo 2010 il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Milano sospende per sei mesi Feltri dall’albo dei giornalisti per le false accuse a Boffo che ne hanno violato la dignità personale e il decoro professionale e per le rivelazioni falsamente attribuite al Tribunale di Terni. L’11 novembre 2010 anche il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti censura l’operato di Feltri.

Il 9 febbraio 2010, un comunicato della Segreteria di Stato di Sua Santità smentisce le ipotesi di coinvolgimento della Gendarmeria vaticana, del Direttore de L’Osservatore Romano, Prof. Giovanni Maria Vian e del Cardinal Segretario di Stato, Tarcisio Bertone nella circolazione dei documenti contro Boffo, attribuendo tali ipotesi a una volontà diffamatoria verso la Santa Sede e il Pontefice e auspicando l’affermazione della verità e della giustizia. Lo stesso giorno la Conferenza Episcopale Italiana dirama una nota di adesione al comunicato della Santa Sede.

Il 13 aprile 2015 è stata emessa la sentenza di primo grado. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere non ha ancora trovato il mandante del falso scoop, comunque ha individuato la «talpa» che il 12 marzo 2009 estrasse illegalmente la copia del certificato penale dell’allora direttore di Avvenire. Si tratta di Francesco Izzo, che è stato condannato a due anni per «accesso abusivo a sistema informatico». Dino Boffo ha ottenuto anche il risarcimento per danni morali.

Foto di copertina: Cardinale Angelo Becciu, Enzo Tortora e Dino Boffo.

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