Gariwo: sport è anche spazio per denunciare le ingiustizie

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Dalla sua nascita, Gariwo ha promosso diverse operazioni culturali, valorizzando la memoria del bene, ovvero di chi si è adoperato per salvare vite umane durante la Shoah, ha spiegato il presidente, Gabriele Nissim:

“E’ nata così l’idea dei Giusti, che non solo rappresentano l’accusa più implacabile agli ingiusti e a ogni forma di indifferenza, ma che mostrano a ognuno di noi la possibilità di reagire al male e di prendere in mano il proprio destino. Abbiamo poi allargato l’idea dei Giusti a tutti i genocidi, grazie anche all’impegno del Parlamento europeo e italiano, e abbiamo promosso la costruzione di Giardini in tutto il mondo. Nei prossimi anni vogliamo fare un passo ulteriore: legare in modo chiaro l’idea dei Giusti alla Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi”.

Il giardino dei ‘giusti’ è sorto per non dimenticare i genocidi succeduti nella storia: “Non c’è genocidio che non tocchi tutta l’umanità. L’indifferenza quindi è un sentimento che danneggia tutti: non si può essere indifferenti per qualche cosa che danneggia l’insieme della pluralità umana, compresa la stessa persona indifferente. Dietro l’irresponsabilità non c’è solo l’abbandono della vittima, ma la propria autodistruzione…

Attraverso la narrazione dei Giusti e la valorizzazione delle loro storie vogliamo insegnare alla società a prevenire i genocidi e ogni forma di odio che crea i presupposti per l’esclusione e la disumanizzazione. I Giusti insegnano a pensare e ad agire.

Rappresentano il più grande esempio etico che può creare nella società un meccanismo di emulazione. Essi con le loro azioni ci suggeriscono dei comportamenti individuali che ci danno la possibilità di prevenire i genocidi. Ci fanno comprendere che ognuno nel suo spazio personale può contribuire a spegnere i segni dell’odio che possono portare il mondo in una cattiva direzione”.

Per questo motivo, in occasione dei campionati europei di calcio, l’associazione Gariwo ha pubblicato il volume ‘I giusti nello sport’ con il patrocinio della Fondazione Candido Cannavò per lo Sport, che nell’introduzione spiega il motivo:

“Una delle foto più iconiche dello stretto rapporto tra sport e società civile è, senza ombra di dubbio, quella del podio delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. Al primo e terzo posto ci sono i due velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos. Hanno il pugno alzato in segno di protesta contro i soprusi che la popolazione nera subisce negli Stati Uniti.

Al secondo gradino c’è invece il meno noto Peter Norman, australiano, che per solidarietà ai due corridori statunitensi anche lui è salito sul podio con lo stemma del Progetto olimpico dei diritti umani…

La scelta di Norman, Smith e Carlos è una scelta di responsabilità e di umanità. Ma anche di coraggio. Del resto, sotto il podio Payton Jordan, capodelegazione della squadra statunitense dice che ‘se ne pentiranno per tutta la vita’.

Questo libro nasce dalla necessità di ricordare quegli sportivi che, come i tre corridori di Messico ’68, consapevolmente o non, ma sempre con coraggio e controcorrente, attraverso le loro attività agonistiche hanno promosso la pace e, più in generale, un’idea di mondo inclusiva ed equa”.

Ma cosa c’entra lo sport con i ‘giusti’? Il volume lo spiega bene con un pensiero del sociologo Emile Durkheim: “In quanto fatto sociale totale, lo sport è un modo di agire, di pensare e di sentire ‘esterni all’individuo, eppure dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono su di lui’.

Questo potere ha talvolta la facoltà di influire, se non addirittura cambiare, l’esito della storia. E’ il motivo per cui le grandi dittature hanno sempre posto un’attenzione maniacale verso l’attività sportiva (si prenda ad esempio la cura con cui sono state organizzate le Olimpiadi del 1936 a Berlino, con l’obiettivo di costruire un clima di partecipazione collettiva che esaltasse il moderno eroe tedesco, una sorta di rivisitazione nazista dell’ideale dell’agone greco).

Ed è anche il motivo per cui l’evento sportivo può diventare il palcoscenico per denunciare grandi ingiustizie o per aspirare al cambiamento. Proprio come hanno fatto Norman, Smith e Carlos nel 1968 o, più recentemente, il maratoneta etiope Feyisa Lilesa, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Rio dell’agosto 2016, che una volta tagliato il traguardo ha incrociato i polsi per denunciare i soprusi del governo di Addis Abeba verso i suoi concittadini di etnia Oromo”.  

Il volume si conclude con una ‘Carta dello sport’ ideata da Gariwo e sottoscritta da decine di squadre, atleti, giornalisti sportivi e organizzazioni di tifosi, intitolata ‘La contesa buona. Proposte per uno sport responsabile’: “Come la storia ha insegnato, qualche volta lo sport può salvare il mondo, perché i comportamenti degli atleti, dei tifosi e anche dei giornalisti sportivi possono influenzare positivamente la vita democratica nelle nostre società.

Esercitare lo sport con uno spirito olimpico aiuta la pace, la convivenza e semina il bene tra gli esseri umani. Ogni atleta dovrebbe essere consapevole che nella competizione è sempre la presenza dell’altro che lo spinge a migliorare, e per questo motivo dovrebbe agire con correttezza nei suoi confronti e rispettare la sua dignità. L’agonismo non divide gli uomini in una brutale lotta di annientamento, ma il confronto li unisce nel medesimo percorso nell’agorà sportiva”.

Infatti agorà ed agonismo hanno la stessa radice semantica: “E’ questa la bellezza dell’agonismo sportivo, dove negli stadi, nelle piscine, nei campi di atletica gli sportivi competono tra di loro allo stesso modo in cui gli uomini responsabili si confrontano tra di loro nelle istituzioni.

Il dialogo e l’agonismo hanno un punto in comune perché la ricerca continua della verità, come quella della prestazione sportiva, non si esaurisce mai e unisce gli uomini in un destino comune. Non è un caso che la parola agorà (il luogo dell’assemblea e della democrazia per i cittadini) e agon (agonismo) abbiano in greco la stessa radice”.

(Foto: Gariwo)

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