Sul Mottarone come sul Calvario: ma la vita non finisce con la morte

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‘Non credo nella vita dopo la morte perché nessuno è mai tornato indietro a dirmi che c’è’: l’ho sentito dire moltissime volte. Per noi cristiani, però, questo non è vero: perché uno indietro c’è tornato. ‘Gesù è risorto’: su questa notizia sensazionale, senza precedenti, si poggia la nostra fede; è questo il messaggio che ha dato il via alla predicazione degli apostoli e li ha fatti morire tutti martiri, anziché su un letto a casa loro.

Se credo questo sono cristiano, altrimenti la mia fede è monca. Anche la fede degli apostoli è stata incompleta, fino alla Resurrezione. Facciamo un’ipotesi. Che sarebbe successo se il Signore non fosse tornato da loro vivo? La croce sarebbe stata l’epilogo triste di una storia che prometteva bene.

I discepoli probabilmente sarebbero morti di vecchiaia dentro al cenacolo. Ma, soprattutto, sarebbero morti prima di morire: perché avrebbero concluso la loro esistenza sfiduciati, amareggiati, con un certo cinismo verso la vita. “A che serve fare il bene, impegnarsi se tutto finisce in un soffio, se tutto muore con la morte, se l’amore porta a essere uccisi così?”

Me li vedo a ragionare tra loro, prima che Gesù appaia a porte chiuse: “Il nostro maestro, colui che credevamo il Messia, è morto miseramente…”; “Pensavamo diventasse re, invece…”; “Abbiamo visto tanti miracoli, ci siamo sentiti amati da Lui, gli abbiamo dato fiducia. E poi? E poi è morto quando stava per diventare re.

A Gerusalemme… al culmine del suo ministero”; “Ma perché? Perché si è fatto inchiodare ad un legno? Poteva liberarsi! Dovevafarlo!”; “Ha fatto una fine atroce, e non aveva neppure commesso nulla di male! Che ingiustizia la vita, che rabbia!”

Molti avranno pensato qualcosa di simile anche di fronte alla tragedia del Mottarone, il 23 maggio scorso.

Personalmente, so di aver incontrato Gesù, gli ho visto compiere prodigi (di lavoro, racconto storie di santi: non posso più negare la potenza di Dio), ma ammetto che mi identifico molto nel disfattismo degli apostoli, quando la mia fede vacilla. Il che, non faccio mistero, è accaduto quando ho saputo dell’incidente in funivia.

14 vite spezzate in 24 secondi. Sogni, progetti, legami: tutto finito, in meno di un minuto. Dallo zaino in spalla alla morte su un dirupo, all’improvviso, nella prima domenica di sole. In un modo inaccettabile: perché quella struttura doveva essere sicura.

Quanta rabbia. Che delusione. Ho pianto, pensando che molti di loro erano nel fiore degli anni e avevano appena iniziato a gustare i frutti di tanto lavoro. Quel medico di famiglia che aveva finalmente raggiunto il suo obiettivo professionale, quella ragazza che aveva da poco ottenuto una borsa studio e solo due mesi prima si era laureata affidando ai social un messaggio: “Qualunque sogno tu stia sognando, comincia”.

C’erano coppie in procinto di sposarsi e coppie con figli piccoli ancora da crescere. C’era tanta vita, in quella cabina. E poi, il nulla. Ammettiamolo: lo abbiamo pensato in tanti. Anche noi siamo un po’ come i discepoli nel cenacolo.

Un’amica, qualche giorno fa, mi ha detto: “Mi piace il Vangelo, perché ci siamo noi, tutti noi, dentro a quel libro”. Ha ragione: le storie del Vangelo parlano di noi. Ma non solo, aggiungerei io: parlano anche di come Gesù ci tira fuori dai nostri grovigli, dalle nostre tenebre, dai nostri lutti, dai nostri malesseri. Da noi stessi.

Nel Vangelo si vede che Gesù è guarigione, è esplosione di vita, di gioia, è stupore per qualcosa che non si poteva neanche immaginare, è una nuova possibilità quando tutto sembra finito per sempre.

Torna persino dai suoi amici dopo essere stato ucciso, per dire loro: “Siate in pace”. Torna per dire che ci ama di un amore che supera i confini di questa vita. Noi non possiamo “porre rimedio alla morte”, ma Lui sì.

A volte il Signore dona il miracolo della guarigione fisica, altre volte ci offre il miracolo della riconciliazione di fronte alla morte del cuore. A volte ci lascia nella croce, ma con persone che, con le loro cure, parlano di Lui.

Ho pensato molto in questi giorni all’unico sopravvissuto della tragedia sul Mottarone: un bambino di 5 anni, Eitan, nome che in ebraico significa ‘Solido’, ‘Forte’, ‘Dalla lunga vita’. Ho brividi, se ci penso.

E ancor di più ho brividi quando penso a come si è salvato: con l’abbraccio ‘solido’ e ‘forte’ del padre. L’amore che salva. Mi piace vedere Dio in quell’abbraccio. Mi piace vedere Dio nell’amore di sua zia che non si è allontanata dal bimbo neppure un istante, in ospedale. Lo vedo in quei medici e in quegli psicologi che lo stanno aiutando a rimettersi in piedi, dopo il trauma più grande della sua vita.

Laddove la morte arriva, inesorabile, laddove tutto sembra finito, Dio non ci abbandona nemmeno lì. E non abbandona chi resta, come non ha abbandonato i discepoli distrutti. Anche noi possiamo vedere il Signore risorgere, se abbiamo fede.

Ho perso mia madre di tumore tre anni fa: aveva 51 anni e io ero al nono mese della mia seconda gravidanza. Un anno fa ho perso il mio terzo figlio in pancia. Sono stati i momenti più duri della mia vita, ma anche quelli in cui ricordo il Signore Gesù più vicino a me. Per quanto mi ama, nemmeno mio marito ha potuto donarmi pace come ha fatto Dio, nell’intimo del mio cuore. Solo Dio ti raggiunge nel punto più profondo dell’anima.

E’ brutta la morte: è scandalosa, tanto più se arriva in modo inaspettato, per colpa dell’irresponsabilità di altri come è successo sul Mottarone. Ma Gesù ci garantisce che non finisce tutto lì. Non è finito tutto su quel monte, come non è finito tutto sul monte Calvario. C’è un poi.

Lasciamocelo dire da Lui, lasciamoci consolare. Gli apostoli non si sono ‘consolati da soli’, tra di loro. Non avrebbero potuto. Davanti alla morte non bastano le parole umane. Aiutano, aiuta la vicinanza dei cari, ma il cuore lo accarezza nel profondo solo Dio.

Lo stesso Spirito Santo Consolatore che ha confortato gli apostoli possiamo invocarlo noi, per avere pace, speranza, certezza nel Paradiso. Per vivere come i discepoli con la Risurrezione piantata nel cuore.

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