Il tragico disastro sul Mottarone, come sul Ponte Morandi, è l’ennesimo orribile risultato di rapine capitaliste. Chi lo spiegherà al piccolo Eitan, figlio di tutti noi?

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“Penso al piccolo Eitan, unico superstite della strage del Mottarone, e mi si stringe il cuore. Si è risvegliato. I suoi non sono morti per tragica fatalità, sono stati uccisi per avidità. Ed Eitan è vivo per la sola vera protezione che abbiamo: l’abbraccio saldo di chi ci ama” (Azzurra Barbuto @AzzurraBarbuto – Twitter, 27 maggio 2021).

Non c’è un semplice incidente all’origine della strage della funivia Stresa-Mottarone, che domenica è costata la vita a 14 persone. I responsabili Luigi Nerini, amministratore della società Ferrovie del Mottarone, Enrico Perocchio, direttore del servizio, e Gabriele Tadini, capo operativo — che ieri sono stati sottoposti a fermo con l’accusa di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e omissione di cautele — avevano consapevolmente disattivato i freni di emergenza che dovevano tenere le cabine ancorate anche in caso di rottura del cavo. Lo ha confessato Tadini, spiegando che era così fin da quando la funivia era stata riaperta il 26 aprile. C’erano infatti delle anomalie, i freni scattavano di continuo e l’impianto si fermava perdendo tempo e corse. Cioè incassi. E loro non volevano perderne ancora dopo lo stop per il Covid-19.

L’effetto di “un’economia di rapina” lo definisce nell’editoriale del Corriere della Sera Antonio Polito. Certo l’effetto di una mentalità che considera la sicurezza (dei lavoratori e degli utenti dei servizi) un intralcio al profitto, conclude l’editorialista Elena Tebano della redazione Digital su Il Punto | la newsletter del Corriere della Sera, introducendo il riassunto dell’editoriale di Giuseppe Guastella [QUI].

“Abbiamo bloccato i freni della funivia per tutto il mese. C’erano anomalie ma così riuscivamo a portare i passeggeri”

C’è un momento preciso nel quale, già messa a dura prova dai sensi di colpa per la morte dei 14 passeggeri della funivia del Mottarone di cui non possono non avvertire il peso, la vita di Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini sprofonda nel baratro. È quando alle prime ore di martedì mattina i pm che indagano su uno dei maggiori disastri della storia italiana dei trasporti a fune mettono la propria firma sul decreto di fermo che porta i tre in carcere trasformando quello che fino a poco prima veniva letto come un tremendo incidente dovuto ad un fatale, tragico «errore umano», in una “scelta deliberata” e criminale, fatta solo per soldi. Quelli che la Ferrovie del Mottarone avrebbe perso se avesse fermato l’impianto per una lunga riparazione.

Nerini, 55 anni, titolare della società che gestisce la funivia, Perocchio, 41 anni, direttore di esercizio, Tadini, 63 anni capo servizio, sono accusati di «Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro», reato che prevede fino a 10 anni di reclusione in caso di disastro e vittime per chi non mette, rimuove o danneggia sistemi di sicurezza. I carabinieri della compagnia di Verbania già a 48 ore dall’incidente avevano fornito al Procuratore Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera tutti gli elementi che spiegavano che i freni di emergenza non erano intervenuti perché erano stati disattivati con i “forchettoni”, con la conseguenza che quando domenica mattina la fune di trazione si è spezzata all’arrivo nella stazione di monte, la cabina, libera dall’unico vincolo, è diventata un proiettile, ha ripercorso a ritroso gli ultimi 300 metri fatti all’andata a folle velocità, si è sganciata dalla fune portante schiantandosi a terra.

Quando Tadini viene interrogato martedì pomeriggio nella stazione dell’Arma di Stresa la situazione si ribalta nel momento in cui ammette «di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (i «forchettoni», ndr) durante il normale servizio di trasporto dei passeggeri», si legge nel decreto di fermo. Sono le 16,30, arrivano pm e avvocato difensore d’ufficio, l’uomo viene indagato e l’esame riprende con le domande stringenti della Procuratrice e del capitano Luca Geminale. Perché  ha messo i «forchettoni»? Perché una serie di anomalie facevano scattare i freni d’emergenza e le riparazioni, l’ultima il 3 maggio, non erano servite a niente. «Per evitare continui disservizi e blocchi della funivia, c’era bisogno di un intervento radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone. Questo è lo sviluppo grave e inquietante delle indagini», è la raggelante risposta di Olimpia Bossi alla fine degli interrogatori mentre alle 4 di martedì mattina sul lago Maggiore albeggia. Il blocco per la pandemia aveva falcidiato gli incassi e, ipotizzano gli investigatori, bisognava evitare ulteriori perdite.
Giuseppe Guastella

Stresa, la strage della funivia e l’etica capitalista smarrita
Dietro ogni norma, dietro ogni tecnica, c’è un uomo che compie scelte in base al suo libero arbitrio; e noi dipendiamo da quello, dalla sua scala di valori, dal rispetto per gli altri che lo anima, dal suo senso del dovere
di Antonio Polito
Corriere.it, 26 maggio 2021


Non sappiamo dire se Max Weber ci vedesse giusto, quando collegò lo spirito del capitalismo all’etica protestante e calvinista, ben più rigorosa di quella cattolica. Ma è certo che quanto sta emergendo sulla gestione della funivia di Stresa ha davvero poco a che fare con l’etica del capitalismo e molto con la rapina. Qualsiasi azione umana deve essere sostenuta da un principio morale di responsabilità verso gli altri, altrimenti è solo un episodio della guerra di tutti contro tutti, un atto di violenza e di sopraffazione. Lo Stato moderno è nato per impedirlo, garantendo così l’uguaglianza al posto del privilegio di pochi.

Sul Mottarone quel principio morale — stando al clamoroso sviluppo delle indagini, e con il beneficio del dubbio che sempre deve essere concesso agli accusati — è stato deliberatamente calpestato. Si è preferito non aspettare che le anomalie dell’impianto fossero riparate, pur di non interrompere un servizio appena ricominciato. E per farlo si è dolosamente disattivato il principale meccanismo di sicurezza: dalla riapertura dell’impianto, il 26 aprile, la funivia ha funzionato senza freni. Uno degli effetti collaterali del Covid è anche questo sconvolgimento nelle priorità, la paura di restare di nuovo fermi dopo il lungo fermo, e di perdere ancora guadagni. Dovremo tenerne conto in tutti i campi della vita nazionale, elevando il livello di attenzione e di prudenza.

Ma niente può giustificare la scommessa sulla vita degli altri. Perché di questo si è trattato a Stresa. Da un punto di vista morale, una scelta ripugnante. In questi casi si dice che si è messo il profitto davanti a tutto. Ma non è neanche così. La scelta dei gestori di quell’impianto brucerà infatti il profitto cumulato degli altri 1744 che ci sono in Italia. E la ragione l’ha detta con chiarezza in tv la presidente dell’associazione dei gestori: «Il prodotto che noi vendiamo è la sicurezza, non siamo un’autostrada dove la gente non può fare a meno di viaggiare, nessuno ha bisogno di prendere una funivia se non si sente sicuro al cento per cento». Questa sicurezza è stata fatta a pezzi. Un’intera industria è stata sabotata. Nelle società complesse noi ci fidiamo di due fattori: le leggi e la tecnologia.

Ogni volta che succede un disastro come questo ci viene ripetuto che nel nostro paese abbiamo le norme più rigorose d’Europa, il sistema di controlli più frequente, gli standard più sicuri. E forse è anche vero, siamo feticisti dei regolamenti. Al tempo stesso nella nostra vita quotidiana ci affidiamo costantemente alla tecnologia, quando prendiamo un ascensore così come quando saliamo su un aereo, o prendiamo una funivia. Sapendo che, in ogni caso, c’è sempre un freno automatico, un meccanismo di ultima istanza che deve scattare in caso di incidente, impedendo il peggio. È sulla base di questa fiducia che facciamo tutto ciò che facciamo. Ma trascuriamo il fattore umano. Perché dietro ogni norma, dietro ogni tecnica, c’è un uomo che compie scelte in base al suo libero arbitrio; e noi dipendiamo da quello, dalla sua scala di valori, dal rispetto per gli altri che lo anima, dal suo senso del dovere.

Di nuovo, dopo l’orribile strage del Ponte Morandi, dobbiamo costatare che l’avidità dell’uomo corrode la sua fibra morale come l’umidità e l’usura fanno con i cavi d’acciaio. Ma se peccare è umano per il singolo, è diabolico in organizzazioni complesse quali sono le aziende, che dovrebbero essere invece rette da standard di deontologia e da procedure automatiche, e in cui la catena decisionale è concepita proprio per impedire che ci si metta d’accordo per violare le regole e saltare i controlli. Dante mette nel quarto cerchio dell’Inferno coloro che hanno peccato di rapacità del denaro e del potere, li condanna a trascinare in tondo col petto pesanti massi. La giustizia degli uomini deciderà la pena per chi a Stresa ha preferito l’avidità all’umanità. Ma un giorno qualcuno dovrà spiegare a un ragazzo di nome Eitan che cosa gli ha tolto così presto la felicità. Sarà il nostro contrappasso. Perché un Paese migliore non potrà esistere senza uomini migliori.

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