Antonella Napoli racconta il Sudan in un libro

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“Ho improntato i miei racconti all’insegna dell’indignazione. Indignare per abbattere l’indifferenza e per spingere ad agire. E’ solamente la sorte che ci fa nascere al sicuro o in pericolo. E chi è più fortunato ha delle responsabilità nei confronti degli altri. Soprattutto quando sei una donna”.

Racconta così le motivazioni che animano il suo ultimo lavoro la giornalista ed analista di questioni internazionali, Antonella Napoli, autrice de ‘Il vestito azzurro’, che mette al centro del volume le settimane travagliate della caduta del regime di Omar Hassan al-Bashīr, a partire dalle rivolte del pane, con lo sguardo della scrittrice che senza paura si posa sulle strade di Karthoum, segnate dagli scontri violenti tra il governo e i contestatori, per raccontare le storie di chi ha combattuto per la conquista della libertà.

Il coraggioso viaggio di Napoli (unica giornalista occidentale in Sudan durante le rivolte che hanno portato alla caduta del dittatore Bashīr nell’aprile del 2019) arriva fino al Darfur, dove avviene l’incontro con la giovane rifugiata Hiba da cui deriva il titolo del libro.

Poi però, quando rientra a Karthoum, la giornalista è fermata e sottoposta a un duro interrogatorio, il cui esito infausto è scongiurato solo grazie all’intervento tempestivo dell’ambasciata italiana e del Ministero degli Esteri, ricevendo minacce di morte dai ‘Fratelli Musulmani’ sudanesi.

La giornalista ha collaborato e collabora con importanti testate nazionali ed estere ed ha realizzato inchieste e reportage in diversi Paesi del mondo e aree di crisi, ottenendo premi giornalistici nazionali e internazionali, tra cui il Premio Franco Giustolisi ‘Verità e giustizia’ nel 2020.

Autrice di molti saggi e libri, tra cui il best seller ‘Il mio nome è Meriam’, tradotto in 6 lingue e pubblicato in 8 Paesi, è stata insignita della Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica nel 2011 per il reportage fotografico, poi divenuto mostra itinerante, ‘Volti e colori del Darfur’.

Quindi neanche le durezze affrontate la distolgono dalla missione di osservare e raccontare, per tenere viva l’attenzione del mondo su questa tribolata regione, come racconta nelle pagine de ‘Il vestito azzurro’:

“Ho sempre preferito andare, soprattutto se da questo dipendeva la possibilità di illuminare fatti altrimenti destinati all’oblio, sia su terreni di conflitti che di crisi umanitarie… Il mio mestiere non è un lavoro, è una passione che diventa dovere. E’ responsabilità.

Poter essere in un posto nel momento in cui un fatto diventa Storia, notizia, è qualcosa di speciale, ma lo è soprattutto ascoltare e dar voce a chi non ce l’ha. Anche dopo trent’anni di giornalismo, la voglia di partire è rimasta immutata, perché percepisco chiaramente che il mio posto, quando decido di raccontare crisi e conflitti ignorati, è tra gli ultimi, i dimenticati”.

A lei chiediamo di spiegarci il titolo del libro: “Il libro nasce per raccontare la mia esperienza in Sudan, dove ero andata a seguire le ‘rivolte del pane’, che poi hanno portato alla caduta del regime del dittatore Bashīr.

Il ‘vestito azzurro’ è un simbolo della rivalsa di una giovane donna stuprata (in Sudan, specialmente nel Darfur, lo stupro purtroppo è utilizzato come arma di guerra); l’azzurro è considerato in Darfur il colore della purezza e quindi il desiderio di questa ragazza che io ho intervistato, raccogliendo le sue speranze, il cui desiderio era quello di avere un vestito azzurro”.

Per quale motivo ha scelto di raccontare il Sudan?

“Ho scelto di raccontare il Sudan, perché la prima volta che sono stata nel Paese nel 2005 ho toccato con mano la disperazione di un popolo che viveva una crisi profondissima, dopo un conflitto scoppiato da un paio di anni e che aveva già fatto migliaia di vittime e centinaia di migliaia di sfollati, arrivati poi negli anni a 2.000.000. Quindi ho preso come impegno quello di raccontare le vicende di questo Paese, in particolare quelle del Darfur, regione dove si stava compiendo un genocidio”.

Perché i Paesi occidentali hanno dimenticato il Sudan?

“Purtroppo i Paesi occidentali non solo hanno dimenticato il Sudan, ma tutto il continente africano. E’ stato questo che mi ha spinto a fondare una rivista dedicata solo all’Africa, ‘Focus on Africa’, che racconta fatti, storie e propone analisi su tutto ciò che avviene in Africa, dando voce ai protagonisti.

Abbiamo molti collaboratori che scrivono direttamente dai luoghi di origine, oltre ad analisti che vivono in Italia. In questo modo illuminiamo davvero il continente africano”.

In cosa consiste la sfida al regime?

“La sfida al regime è stata quella di farmi arrestare e di tenermi ferma per alcune ore e di impedirmi di raccontare quello che stava avvenendo in Sudan, ovvero le rivolte contro il regime del presidente Bashir, represse nel sangue con centinaia di vittime. Io, unica giornalista occidentale, documentavo quanto stava accadendo.

Solo l’intervento della Farnesina è riuscita ad evitare il peggio: sono stata fortunata. Comunque, anche se spaventata, non mi sono fermata ed addirittura dopo il fermo a Khartoum sono andata nel Darfur, raccontando ciò che stava avvenendo nel Paese”.

Quanto è ‘grave’ intercettare un giornalista?

“E’ molto grave intercettare un giornalista, perché oltre a ledere i diritti dell’essere umano; se non ha compiuto nessun reato e non c’è motivo di essere intercettato, è una violazione gravissima.

Per un giornalista è ancor più grave, perché si va a ledere quello che è il fondamento del giornalismo, cioè quello di avere la riservatezza delle fonti. Il caso recente è lampante ed è un vulnus gravissimo, che non si dovrebbe più ripetere. Mi auguro che l’Ordine dei Giornalisti e la FNSI facciano sentire la loro voce presso le istituzioni italiane”.

Esiste un ‘limite’ per la libertà di stampa?

“Non dovrebbe esistere alcun limite alla libertà di stampa, se è una stampa corretta, puntuale, onesta e che racconta fatti veri. Purtroppo in molti Paesi del mondo esiste il problema del limite della libertà di stampa.

Abbiamo visto anche in  Paesi come l’Ungheria, che, approfittando dell’emergenza Covid-19, ha posto restrizioni alla libertà di informazione. Per non parlare appunto di altri Paesi come la Turchia, l’Egitto, la Siria ed altri, dove i giornalisti sono arrestati od uccisi, semplicemente perché svolgono il proprio mestiere liberamente”.       

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