Zaccuri: rinascere ogni giorno nel legno di Bruegel

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Tra i narratori italiani Alessandro Zaccuri sta consolidando la propria presenza in un’ottica innovativa che non segue i canoni stabiliti dal mercato editoriale, ma va alla ricerca di una dimensione morale che lo porta sempre di più verso tradizioni ‘alte’, sia per qualità stilistica, sia come scelta di avere un luogo d’elezione in cui giocare a specchio la sua narrazione, così da usare la chiave dell’enigma, non in senso strumentale, ma come condizione per dare risposte a quel gioco di luci e di ombre che creano la consistenza del destino di ognuno.

Lo dimostra nel suo ultimo libro, ‘La quercia di Bruegel’, che proprio attraverso l’accidentalità di una condizione trova la possibilità di giungere a una rivelazione che si potrebbe chiamare anche ‘resurrezione’, che per giungere al suo compimento finale, ha bisogno dell’esercizio del tempo.

Il racconto si apre e si chiude su due momenti di incertezza e di disorientamento della nostra storia più recente, che portano, a distanza di anni, ad una diversa reclusione: gli attacchi terroristici e la pandemia. Il finale mette a fuoco la vanità della ricerca: ‘Non ci sono segreti da svelare, basta la realtà. Dura come la tavola di quercia, leggera come un’ombra di colore’.

Ad Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista di Avvenire, chiediamo di spiegarci il titolo del romanzo: “Il libro si inserisce in una collana, ‘Il bosco degli scrittori’, con la quale l’editore Aboca intende promuovere il dialogo tra natura e letteratura. A ogni autore viene chiesto di scegliere un albero che risulti importante per la trama della storia che si intende raccontare.

Nel mio caso, stavo lavorando da tempo su alcuni dipinti di Bruegel il Vecchio ed ero già stato colpito dal ruolo, molto spesso simbolico, che viene assegnato agli alberi da questo artista. A partire da questo spunto, un passo dopo l’altro, si è formata la struttura del racconto”.

Per quale motivo il romanzo si snoda tra un attentato terroristico e una pandemia?

“Non è un fatto del tutto intenzionale. Alla prima situazione, quella di un gruppo di persone rinchiuse in un  albergo a causa di un’emergenza, avevo pensato già prima che iniziasse la vicenda del Covid-19. Era un modo per immaginare un ambiente nel quale, sotto la pressione del momento, ciascuno fosse disposto a portare allo scoperto qualcosa di sé.

Poi, nelle settimane in cui il contagio ha cominciato a diffondersi, mi sono reso conto che esisteva un’analogia tra quello che avevo ipotizzato e quello che stavamo vivendo: in entrambi i casi dovevamo misurarci con la paura verso qualcosa di incomprensibile e di ingovernabile.

D’un tratto, eravamo costretti di occuparci di quanto nella vita c’è di più serio. E’ una sensazione che, personalmente, provo davanti alle immagini di Bruegel, anche quando sembra che il pittore voglia divertirsi a spese degli spettatori”.

Quale è il compito della scrittura?

“Quello che ciascun scrittore intende assegnargli, mi verrebbe da rispondere. Ma forse è una scappatoia. La questione della serietà, per quanto mi riguarda, resta la più urgente. Ci sono tante occasioni per distrarsi, ci sono tanti modi per rimandare la riflessione su quello che ci disturba e ci preoccupa, oppure che ci sta a cuore e ci appassiona.

Scrivere o, meglio, raccontare attraverso la scrittura, permette di assumere una posizione non prevedibile rispetto alla realtà quotidiana. Cambia la prospettiva da cui osserviamo il mondo, con lo sguardo dell’altro e non più solamente con il nostro. Di conseguenza, anche il mondo cambia un po’”.

In quale modo l’arte conduce ad una ‘rivelazione’?

“Sollecitando l’esercizio dell’attenzione che, secondo una frase molto amata da Simone Weil, è già una forma di preghiera. Nella ‘Quercia di Bruegel’ si dà molto spazio alle caratteristiche della percezione visiva, che è sempre rivelatrice, perfino nelle sue incompletezze e distorsioni. Ma è nella cura riservata al singolo  dettaglio che lentamente, misteriosamente la salvezza si fa avanti”.

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