Amnesty International chiede l’abolizione della pena di morte

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Amnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, ritenendola una punizione crudele, disumana e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica (de facto), da più di due terzi dei paesi nel mondo. La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione.

Però, nonostante che più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena capitale per legge o nella pratica, nello scorso anno Amnesty International ha registrato 483 esecuzioni in 18 stati, con un decremento del 26% rispetto alle 657 esecuzioni registrate nel 2019, trattandosi del più basso dato registrato nell’ultimo decennio. La maggior parte delle esecuzioni è stata registrata, nell’ordine, in Cina, Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita.

La Cina è rimasta al primo posto anche se la reale dimensione dell’uso della pena di morte resta sconosciuta poiché queste informazioni sono considerate segreti di stato. Il totale di 483 esclude dunque le migliaia di esecuzioni che si ritiene abbiano avuto luogo in Cina. Se si esclude la Cina, l’88% delle esecuzioni ha avuto dunque luogo in appena quattro stati.

Il Rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2020, sebbene mostri una tendenza globale verso la diminuzione dell’uso della pena capitale, evidenzia come alcuni stati abbiano eguagliato se non addirittura aumentato il numero delle esecuzioni, mostrando un patente disprezzo per la vita umana proprio mentre l’attenzione del mondo era concentrata sulla protezione delle persone da un virus mortale.

Tra gli stati che hanno messo a morte il maggior numero di persone figurano l’Egitto, che ha triplicato le esecuzioni rispetto al 2019, e la Cina che in almeno un caso ha applicato la pena di morte per reati relativi alle misure di prevenzione della pandemia.

Negli Usa, l’amministrazione Trump ha ripristinato le esecuzioni federali dopo 17 anni mettendo a morte 10 condannati in meno di sei mesi. India, Oman, Qatar e Taiwan hanno a loro volta eseguito condanne a morte, come ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International:

“Mentre il mondo cercava il modo di proteggere le vite umane dalla pandemia, alcuni governi hanno mostrato una sconcertante ostinazione nel ricorrere alla pena capitale e ad eseguire condanne a morte… La pena di morte è una punizione abominevole e portare a termine esecuzioni nel mezzo di una pandemia ne ha ulteriormente evidenziato la crudeltà.

Contrastare la pena di morte è già difficile quando le cose vanno bene, ma la pandemia ha fatto sì che molti prigionieri nei bracci della morte non abbiano potuto incontrare di persona i loro legali e che molti che hanno cercato di fornire aiuto si sono dovuti esporre a gravi, e del tutto evitabili, rischi per la loro salute. L’uso della pena di morte in circostanze del genere è un attacco particolarmente grave ai diritti umani”.

Inoltre le limitazioni introdotte a causa della pandemia da Covid-19 hanno avuto gravi conseguenze sull’accesso all’assistenza legale e per il diritto a un processo equo in vari paesi, tra cui gli Usa, dove gli avvocati difensori hanno dichiarato di non aver potuto svolgere attività di indagine cruciali o incontrare i loro clienti di persona.

La Cina considera i dati sulle condanne a morte e sulle esecuzioni come segreti di stato e impedisce il monitoraggio indipendente. Pertanto, il rapporto di Amnesty International, che elenca le esecuzioni a essa note, non fornisce il numero della Cina, anche se l’organizzazione non governativa ritiene che questo stato ogni anno metta a morte migliaia di prigionieri, collocandosi stabilmente al primo posto. Seguono Iran (almeno 246 esecuzioni), Egitto (almeno 107), Iraq (almeno 45) e Arabia Saudita (almeno 27).

L’Egitto ha triplicato le esecuzioni rispetto agli anni precedenti, collocandosi al terzo posto. Almeno 23 esecuzioni hanno riguardato casi di violenza politica e sono state precedute da processi clamorosamente irregolari, basati su ‘confessioni’ forzate e altre gravi violazioni dei diritti umani come la tortura e le sparizioni forzate. Tra ottobre e novembre sono stati messi a morte almeno 57 prigionieri, 53 uomini e quattro donne.

Le norme e gli standard internazionali che vietano l’uso della pena di morte per reati diversi dall’omicidio volontario sono stati violati anche da diversi stati della regione Asia-Pacifico: condanne a morte sono state emesse per reati di droga in Cina, Indonesia, Laos, Malesia, Singapore, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam, per corruzione in Cina e Vietnam, per blasfemia in Pakistan. In Bangladesh e Pakistan condanne a morte sono state emesse da tribunali speciali che seguono solitamente procedure diverse rispetto ai tribunali ordinari. Nelle Maldive cinque minorenni al momento del reato sono rimasti in attesa dell’esecuzione.

Gli Usa sono l’unico stato delle Americhe ad aver eseguito condanne a morte: a luglio l’amministrazione Trump ha ordinato la prima esecuzione federale degli ultimi 17 anni e cinque stati hanno eseguito sette condanne a morte.

Però, escludendo gli stati che considerano i dati sulla pena di morte un segreto di stato o dai quali arrivano informazioni limitate (come Cina, Corea del Nord, Siria e Vietnam) nel mondo Amnesty International ha registrato almeno 483 esecuzioni: il 26% in meno rispetto al 2019 e il 70% in meno rispetto al picco di 1634 esecuzioni del 2015. Sono i dati più bassi di esecuzioni registrate da Amnesty International in almeno un decennio.

Questo calo è stato dovuto a una riduzione in alcuni tra gli stati mantenitori e, in minor parte, a sospensioni di esecuzioni a causa della pandemia da Covid-19. Le esecuzioni registrate in Arabia Saudita sono diminuite dell’85% (27 contro le 184 del 2019), quelle in Iraq di oltre la metà (45 contro 100) mentre nessuna esecuzione ha avuto luogo rispetto all’anno passato in Bahrein, Bielorussia, Giappone, Pakistan, Singapore e Sudan.

A livello globale, il numero delle condanne a morte note, almeno 1477, è diminuito del 36% rispetto al 2019: Amnesty International ha registrato tale calo in 30 dei 54 stati dove sono state emesse condanne alla pena capitale, in diversi casi a causa di ritardi e rinvii nei procedimenti giudiziari a causa della pandemia da Covid-19. Hanno fatto eccezione l’Indonesia, con un aumento del 46% rispetto alle condanne del 2019 (117 contro 80) e lo Zambia (119 condanne contro 101), che ha segnato il record nell’Africa subsahariana.

Infine il rapporto sottolinea che nel 2020 il Ciad e, negli Usa, il Colorado hanno abolito la pena di morte, il Kazakhistan si è impegnato ad abolirla ai sensi del diritto internazionale e nelle Barbados è stata cancellata l’obbligatorietà della condanna alla pena capitale. Secondo dati aggiornati ad aprile del 2021, 144 stati hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi, 108 dei quali per tutti i reati: questa tendenza deve proseguire.

Per questo Callamard ha sottolineato il lato positivo dello scorso anno: “Alla fine del 2020 un numero record di 123 stati ha approvato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per una moratoria sulle esecuzioni. La pressione sugli altri stati sta aumentando.

La Virginia è da poco diventata il primo stato del sud degli Usa ad abolire la pena di morte, mentre il Congresso si avvia a esaminare svariate proposte di abolizione a livello federale. Sollecitiamo i leader di tutti gli stati che non l’hanno ancora fatto ad abolire nel 2021 l’omicidio sanzionato dallo stato. Continueremo a svolgere campagne fino a quando la pena di morte non sarà abolita ovunque, una volta per sempre”.

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