L’eutanasia della società dello scarto. Dietro il vocabolario cosmetico che vuole anestetizzare il pensiero, si nasconde una realtà: la violenza del gesto

Condividi su...

Due rianimatori e un medico in cure palliative in Francia spiegano con grande precisione perché si oppongono a qualsiasi legalizzazione dell’eutanasia. Esprimono stupore che un simile disegno di legge sia all’esame in Parlamento nel mezzo della crisi Covid. E lanciare un appello, già firmato da più di mille caregivers. Gli autori sono Olivier Jonquet, rianimatore medico, professore emerito all’Università di Montpellier; Marie-Béatrice Nogier, nefrologa, rianimatrice medica a Toulouse; Jean Fontant, medico generico nelle Hautes-Pyrénées e medico in cure palliative. I tre autori dell’articolo pubblicato su Le Figaro – che riportiamo in una nostra traduzione italiana dal francese – sono i portavoce del collettivo “Convergenza caregivers-pazienti”.

Eutanasia: “Uccidere?” Ecco di cosa si tratta!”
di Olivier Jonquet, Marie-Béatrice Nogier e Jean Fontant
Le Figaro, 7 aprile 2021


“Curare. Anche prestare cure è una politica. Lo si può fare con un rigore la cui morbidezza è l’involucro essenziale. Squisita attenzione alla vita che si veglia e si sorveglia. Precisione costante. Una sorta di eleganza nei fatti, una presenza e leggerezza, una lungimiranza e una sorta di percezione molto sveglia che osserva i minimi segni. È una specie di opera, una poesia (e una che non è mai stata scritta), quella sollecitudine intelligente compone”. Paul Valéry ha scritto queste righe quasi un secolo fa [1]. Rimangono rilevanti. La crisi Covid ne ha evidenziato l’importanza per i caregiver di fronte alla fragilità di pazienti spesso anziani, troppo spesso isolati. Questi caregiver, a volte indigenti, hanno mostrato tesori di pazienza, dedizione e ingegnosità. Il nostro Paese – è un suo onore – ha scelto di tutelare in via prioritaria gli anziani, perché sono loro a rendere il tributo più pesante a questa malattia. Consapevole delle difficoltà aggravate da questa crisi, il governo ha finalmente accelerato il piano di sviluppo delle cure palliative, anche se è da deplorare l’incomprensibile posticipo della legge sulla cittadinanza e sull’autonomia.

E ora un gruppo di parlamentari, nel pieno della crisi Covid, rilancia il suo disegno di legge che pretende di stabilire un diritto a morire con dignità, sottintendendo che quella dignità darebbe diritto a un’iniezione che porta alla morte.

È un peccato che la legge del 1999 sulle cure paliative sia stato applicato in modo insufficiente, a causa di una gestione contabile della politica sanitaria che preferisce contare e codificare per tenere conto della vita reale. La Legge Claeys-Leonetti del 2016 doveva addirittura ricordare nella sua sezione 1 che la legge si applica su tutto il territorio. In linea di principio, la Legge Leonetti del 2005 sui “diritti dei pazienti e la fine della vita” e la sua evoluzione Claeys-Leonetti nel 2016 dovevano consentire l’assistenza ai pazienti alla fine della vita nel rispetto di un fragile equilibrio che trasporta un’etica medica degna del nome: da un lato dare sempre sollievo ai pazienti, non riuscendo a curarli; e dall’altra, non ucciderli mai.

È ora ardito affermare che l’eutanasia farebbe parte delle cure palliative. Uccidere? Ecco di cosa si tratta oggi. Dietro il vocabolario cosmetico che vuole anestetizzare il pensiero, c’è una realtà: la violenza del gesto. La confusione è già in fermento: per alcuni si promuove il “suicidio assistito”, mentre il dramma del suicidio è una piaga nazionale che fa piangere così brutalmente tante famiglie; la compassione è invocata come se non ci fosse altra soluzione, per alcuni pazienti, che affrettare la loro morte; con l’avvento del termine “eutanasia palliativa” si osa ancora oggi sostenere che l’eutanasia farebbe parte delle cure palliative. Tuttavia, queste due pratiche sono antinomiche; amalgamarli con l’eutanasia distorce le cure palliative, con il rischio di rovinare la fiducia del paziente e dei propri cari.

Questa è la nostra osservazione in Belgio. Jacques Ricot, filosofo delle cure palliative, chiarisce: “L’eutanasia non completa l’accompagnamento, lo rimuove. Non riesce nelle cure palliative, le interrompe. Non dà sollievo ai pazienti, li sopprime” [2]. Occorre essere inconsapevoli per non vedere le derive che si sono moltiplicate nei pochi Paesi che pensavano di dover “aprire” una porta? Anno dopo anno, il quadro per l’eutanasia si sgretola; cambia la cultura: si passa dal diritto al dovere di morire. E gli scandali sono soffocati da un sistema che si sforza di auto-giustificarsi.

La questione fondamentale è se una legge aggiuntiva possa garantire una morte pacifica. Chi te lo dirà? Chi è tornato per dircelo? E che dire di coloro che rimangono, parenti e medici? Non si esce indenni da una simile trasgressione.

L’obiettivo della medicina è sempre stato quello di guarire e, quando non è possibile, fornire sollievo. Lo sviluppo di tecniche biomediche ha permesso di allungare la durata della vita, a volte a scapito dell’ascolto e del sostegno dei pazienti. L’epidemia di AIDS ha spinto lo sviluppo delle cure palliative: unità dedicate, ma soprattutto una filosofia di cura, una cultura da generalizzare.

Tutti i medici e gli operatori sanitari devono sperimentare questa tensione spesso difficile tra cure acute, tecniche, invasive e sostegno, che è anche governato dai modi di essere e di fare. Le leggi hanno condannato ad un’ostinazione irragionevole: si evitano implacabilità terapeutiche ma anche indagini inutili, quando non hanno senso in considerazione delle condizioni del paziente. Queste stesse leggi richiedono la gestione del dolore e della sofferenza fino all’attuazione di sedazioni che possono portare alla morte, senza l’intenzione diretta di provocarla, ma con l’intento di alleviare il dolore e la sofferenza.

Certo, le leggi possono essere qua e là poco conosciute, mal applicate. Il coordinamento tra le squadre è essenziale. I canali (o percorsi) di cura devono essere creati o migliorati. Nonostante i progressi, le strutture sono mal distribuite. Ci vuole tempo e soprattutto una volontà attiva per attuare la legge.

Il divieto di uccidere è uno dei tabù strutturali di una società. Forza l’intelligente sollecitudine evocata da Paul Valéry. Ci protegge tutti, sia dall’onnipotenza che dalla disperazione.

[1] Paul Valéry, «Mélange» in Œuvres T1 p. 322-323, Parigi, Gallimard, La Pléiade, 1968.
[2] Jacques Ricot, «La vie humaine et la médecine», p. 237-244 in Esprit, 8-9, agosto-settembre 2001.

Free Webcam Girls
151.11.48.50