Mariapia Veladiano racconta una storia d’amore nella malattia

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“Accudimento: una parola che suscita un sorriso di tenerezza, pensando al legame tra genitori e figli; una parola che turba, se invece la associamo alla mancanza di autonomia di una persona anziana. Eppure la presenza di una malattia devastante come l’Alzheimer non è sempre indice di disgregazione dei rapporti; può segnare, piuttosto, una trasformazione, un accomodamento delle proprie posizioni, pur di mantenere inalterata la comunicazione”.

Mariapia Veladiano in ‘Adesso che sei qui’ narra una storia familiare delicatissima, incentrata sull’amore di una nipote per la zia malata, che le ha fatto da madre fin dalla sua più tenera infanzia: ‘Non era mia madre ma io ero sua figlia’.

Andreina, ennesima figlia femmina da sfamare, era stata infatti affidata a zia Camilla e a zio Guidangelo, una coppia senza figli, che non ha mai fatto mancare nulla alla nipote. E la gratitudine non è mera conseguenza di tanto bene ricevuto, ma semplice istinto, corroborato dall’affetto.

Infatti, quando zia Camilla è stata trovata in piazza spaesata e vestita con un cappotto in piena estate, non è stato più possibile negare l’evidenza: un problema serio c’è, l’Alzheimer è arrivato ed Andreina decide di trasferirsi da subito a casa della zia, mettendo in pausa la sua stessa vita.

All’autrice abbiamo chiesto perché ha scritto una storia, che racconta di Alzheimer?

“A volte le storie ci raggiungono. Qualche anno fa una giovane signora mi ha raccontato la sua storia d’amore con la zia ammalata di Alzheimer e mi ha chiesto di raccontarla.  Io non so scrivere in modo documentario ma la storia era così bella, di fragilità e d’amore, amore che supera le paure. Ed allora ho scritto un romanzo in cui sono confluite altre storie, e intanto ho studiato la malattia, ho letto. Ho cercato di rendere universale una bella storia d’amore”.

Cosa significa vivere con la malattia?

“Per chi sta intorno, significa innanzi tutto fare una scelta. La scelta di tenere per quanto possibile vicina la persona malata oppure di affidarla a una struttura. Nel romanzo la nipote Andreina decide che la zia rimane a casa e a partire da questo tutto il resto si mette in movimento. Presto capisce che non può fare da sola e apre la casa al mondo e anche questa è una scelta.

Siamo in una società individualista in cui si pensa che un problema di famiglia vada risolto da soli, in famiglia. Ma non si può, spesso non si può e del resto aprire al mondo significa permettere la circolazione di qualcosa che si può chiamare corresponsabilità, comune umanità condivisa. Una meraviglia”.

Quali ‘appigli’ restano al malato?

“Molti più di quelli che siamo abituati a immaginare. La persona malata di Alzheimer rimane una persona. Zia Camilla nel romanzo perde la memoria ordinata dei fatti ma conserva una perfetta memoria affettiva, riconosce chi intorno le vuol bene. E poi ha la memoria delle mani.

Sa fare le cose, per abitudine, qualcosa di prezioso che i bambini, ci saranno dei bambini intorno a lei, una specie di famiglia acquisita, i bambini sapranno apprezzare e ci saranno vere sessioni di lavoro nella sua cucina, durante i suoi giorni di malattia. Una normalità diversa”.

Cosa significa prendersi cura?

“Significa restituire il dono. Siamo diventati quel che siamo grazie a molte persone che si sono prese cura di noi. Ci hanno accuditi, ci sono rimasti vicini quando eravamo malati o in difficoltà, ci hanno permesso di studiare. Un mondo di cura.

La nostra società ci ha abituato a pensare che si può non restituire il dono, dimenticare la dinamica umanissima del dono dentro la quale la vita è bella. Quando chi ci ha amato diventa fragile, spesso lo allontaniamo perché abbiamo una casa troppo piccola o un lavoro troppo impegnativo.

Una società che non contempla la fragilità dell’età anziana come normale ha fallito completamente la sua vocazione comunitaria. E’ un modello da ripensare, con case più grandi, lavori più flessibili e aiuti importanti a chi decide di tenere a casa anziani e malati. Parlo di persone competenti che aiutino, non di soldi”.

Quale ruolo hanno le donne in questo e negli altri romanzi?

“E’ vero che in generale racconto storie con tante donne dentro. Qui ci sono alcuni uomini meravigliosi, però. C’è Teo, marito di Andreina, saggio e presente. E c’è Guidangelo, marito di Camilla, un contadino con il cuore di un signore, pieno di  affetto e umanità.

Questo è un romanzo di cura e nella nostra società sono le donne soprattutto a curare. Non è una cosa buona, perché la cura è una dimensione fondamentale dell’umano, è di tutti. Le donne in questo sono come delle sentinelle.

Vedono, si mettono in movimento per prime, ma indicano una strada a tutti. La cura unisce, come capita nel romanzo. Zia Camilla malata crea una nuova famiglia. E’ come se ci si ritrovasse in una dimensione più profonda, affettiva, che ripara le nostre ferite”.

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