Viaggio apostolico in Iraq: l’ong ‘Un Ponte per’ illustra la situazione

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Questa mattina papa Francesco è partito per il 32^ viaggio apostolico in Iraq, dopo un anno di pausa dovuta al Covid 19, a distanza di 22 anni da quel viaggio sognato da san Giovanni Paolo II ad apertura del Giubileo del 2000. Nel 1999 il Paese era già in ginocchio a causa della sanguinosa guerra contro l’Iran (1980-1988) e per le sanzioni internazionali seguite all’invasione del Kuwait e alla prima guerra del Golfo. Il numero dei cristiani in Iraq era allora più di tre volte maggiore di quello attuale.

Quindi questo viaggio di papa Francesco ha tanti significati: per i cristiani, che di fronte a violenze e abusi stanno abbandonando quella che per secoli è stata casa loro, ma anche per tutti gli iracheni, esausti dopo decenni senza pace, vessati dalle interferenze esterne che non li lasciano liberi di costruire il proprio destino e da una politica che non riesce ad andare oltre i settarismi. E, oggi, duramente colpiti dalla pandemia di Coronavirus che ha messo in ginocchio un’economia già provata.

Ai copresidenti di ‘Un ponte per…’, ong che opera da 30 anni in Iraq e nel Medio Oriente, Alfio Nicotra ed Angelica Romano, abbiamo chiesto di illustrarci la situazione che il papa trova: “L’Iraq sta uscendo con fatica da quasi quattro decenni di guerra. Per noi di ‘Un Ponte Per…’ sono stati anni di guerra anche quelli dell’embargo deciso dalla comunità internazionale (1991/2003) con centinaia di migliaia di vittime causata dalla fame e da malattie curabili.

Le bombe prima e le sanzioni dopo, avevano lo scopo dichiarato da parte degli Stati Uniti di riportare l’Iraq al Medioevo con la distruzione delle infrastrutture, delle fabbriche, dei potabilizzatori d’acqua, impedendo l’ingresso nel paese dei materiali necessari per l’estrazione del petrolio e della sua raffinazione. Quella punizione collettiva inflitta al popolo iracheno ha avuto l’effetto di far esplodere quel mosaico multietnico e multireligioso che era la forza di quel paese.

Non solo abbiamo avuto generazioni di orfani, vedove e mutilati, ma le guerre hanno riempito i pozzi di odio, esasperato le differenze e le contrapposizioni etniche, rafforzato il fondamentalismo religioso e settario. Daesh (lo Stato Islamico) è figlio di questa situazione e, anche se sconfitto militarmente, la sua influenza rimane ancora viva, specialmente nelle città sunnite. Senza un progetto di riconciliazione, senza una narrazione condivisa di tanti orrori e tanto dolore, il rischio che il rancore e le vendette prevalgano rimane altissimo.

Il fatto positivo e dirompente di questi ultimi anni, è stata la mobilitazione della società civile, specialmente i giovanissimi e le giovanissime, che sono scesi in piazza contro la corruzione, per la democrazia e la giustizia sociale. Si tratta di mobilitazioni ‘costituenti’ di un nuovo Iraq perché tese già nel suo dispiegarsi a superare la divisione settaria voluta dagli occupanti e con la quale si è governato l’Iraq fino ad oggi. Se il papa guarderà a questo mondo potrà facilmente capire le potenzialità che esse rappresentano per la costruzione di un Iraq inclusivo e più giusto”.

A gennai di 30 anni fa partiva ‘Desert storm’, che terminava a febbraio: quanti danni ha causato?

“Desert Storm è stato un crimine contro il popolo iracheno per di più basato sulla menzogna delle armi di sterminio di massa che non esistevano. Una scelta sciagurata contro la volontà di pace dei popoli e un colpo mortale al Diritto internazionale, che ci ha consegnato un pianeta più ingiusto ed insicuro.

I frutti avvelenati stanno ancora tutti sul terreno, e non ci riferiamo solo alla contaminazione di intere aree dagli effetti dell’uranio impoverito, ma all’odio installato ad ogni livello. Contro gli occidentali reputati responsabili di tutta quella forza di fuoco distruttiva, e contro i propri simili diventati nemici perché di un’altra etnia o religione. L’esilio e la fuga dall’Iraq di centinaia di migliaia di iracheni cristiani è lì a dimostrarlo. Stiamo parlando di comunità che erano integrate con il resto della popolazione da quasi due millenni”.

Papa Francesco visiterà anche la città santa dei mussulmani: quale significato assume per la possibile pacificazione del Paese?

“Il dialogo inter-religioso sarà un aspetto fondamentale della visita del Papa che avrà l’occasione di ampliare e radicare ancora di più la dichiarazione sulla fratellanza fatta negli Emirati Arabi Uniti con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahamad Al-Tayyb. Il suo sarà un viaggio storico che accenderà – almeno lo speriamo di cuore – i riflettori dell’opinione pubblica internazionale sugli sforzi che sta facendo il popolo iracheno per rialzarsi.

Acquista quindi particolare valenza simbolica la decisione del Santo Padre di visitare la città di Najaf: sede del clero nonché del potere politico sciita iracheno, e prima meta di pellegrinaggio al mondo per i musulmani di confessione sciita. E’ la prima volta che un Papa si reca in questa città. Qui incontrerà l’ayatollah Al-Sistani, massimo esponente del clero sciita, certamente con l’intento di portare avanti un dialogo costruttivo e superare le tensioni interconfessionali che per anni hanno indebolito il paese.

Ci pare importantissima anche la visita prevista nella Piana di Ninive, dove il califfato di Daesh si è macchiato di crimini contro l’umanità feroci e terribili.  Si tratta di una scelta, quella di visitare queste terre, particolarmente coraggiosa, non solo per stare accanto alle comunità cristiane che qui hanno uno storico radicamento, ma anche per incontrare la popolazione ezida, tra quelle che di più hanno sofferto l’odio settario.

‘Un Ponte Per’ e papa Francesco hanno inoltre in comune lo stesso slogan: costruire ponti, non muri. Il viaggio di Bergoglio sarà uno straordinario ponte di speranza e di fratellanza che potrà essere un serio incoraggiamento non solo per l’Iraq ma per l’insieme del Medio Oriente”.

Il papa visita anche Ur dei Caldei, dove l’ong ha un progetto, ‘Urim Initiative’: “Rivalutare, proteggere e rendere fruibile questo patrimonio innanzitutto agli iracheni, vuole dire avvicinarli alla conoscenza del loro patrimonio e della loro storia. Dopo aver prodotto una analisi approfondita dell’area con esperti e tecnici italiani e iracheni abbiamo lanciato una proposta alle autorità irachene per creare un centro di accoglienza per i visitatori, con servizi e parcheggi, fuori dell’area archeologica così da preservarla ma al tempo stesso renderla fruibile a flussi sostenibili di turisti.

In questi anni di lavoro abbiamo coinvolto anche la società civile irachena, soprattutto i giovani, invitati a proteggere il sito con attività di tipo culturale e di studio. Da questo coinvolgimento è nato un altro progetto, ‘Sumereen’, sempre coordinato da ‘Un ponte per’, che si concentra sulle giovani generazioni e sulle donne, come attori capaci di creare nuovi percorsi per la crescita regionale, creando opportunità di lavoro combinando turismo sostenibile e piani di tutela del patrimonio naturale e culturale dell’area”.

Allora quali attività svolge l’associazione in Iraq?

“Un Ponte Per è presente sul territorio iracheno dal 1991, ed è al momento attiva sia nel Kurdistan Iracheno che nell’Iraq Federale, con programmi diversi (a seconda delle necessità specifiche) in ognuna delle aree che il Santo Padre visiterà, raggiungendo decine di migliaia di beneficiari ogni anno.

Centrale in tutto il paese è il programma che portiamo avanti dal 2003 per il supporto alla società civile irachena, alle sue associazioni formali ed informali, e ai gruppi di attivisti. Tra gli altri programmi, il più esteso è quello di coesione sociale e peacebuilding, tramite il quale supportiamo la riconciliazione e il dialogo tra le molteplici minoranze e comunità etnico-religiose del paese, mettendo al centro il ruolo dei giovani e delle donne nei processi di pace.

Fondamentale inoltre il programma di emergenza di protezione e salute, attraverso il quale gestiamo centri di supporto per donne sopravvissute alla violenza di genere, e supportiamo i Centri di Salute primaria nazionale aiutandoli a fornire servizi di salute mentale e salute riproduttiva, sia per donne e adolescenti, che per i rifugiati siriani che da oltre 7 anni vivono nei campi profughi del nord dell’Iraq”.

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