Don Antonio Ruccia racconta la vita

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In libreria dalla Giornata per la vita ‘E’ Vita! Storia di un bambino scartato, abbandonato… affidato’ di don Antonio Ruccia, parroco e docente di Teologia pastorale alla Facoltà teologica di Bari, ripercorre la vicenda di Luigi, che il 19 luglio dello scorso anno fu lasciato nella culla termica installata presso la parrocchia San Giovanni Battista, a Bari: la prima in Puglia.

Un neonato di 9 giorni ben nutrito e curato, ritrovato con un bigliettino dei genitori biologici dal parroco don Antonio Ruccia, curatore del libro che “contiene solo una parte del materiale prodotto dai media e dai social nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento del piccolo, a cui si aggiungono alcuni contributi di persone da sempre impegnate nella promozione della vita”.

Nella prefazione la comunità parrocchiale ha voluto ribadire: “Quel telefono della parrocchia che ha squillato ininterrottamente per una settimana, o il telefono personale di don Antonio più rovente della temperatura esterna di luglio, indicano che quel bambino è riuscito a dirci che è possibile credere che la vita è sempre un dono… Ma il vero miracolo è anche un altro. A distanza di qualche mese quel bambino continua a coinvolgerci. Sempre e in tanti… continuano a parlare di lui”.

A lui abbiamo chiesto di spiegarci il titolo: “E’ Vita! non è un titolo a caso. E’ una scelta chiara e forte per la quale si deve optare per quel processo di nuova evangelizzazione di cui oggi la Chiesa ha urgenza. E’ Vita! non racchiude solo un atto d’amore per il piccolo che è stato ‘affidato’ alla parrocchia di san Giovanni Battista in Bari, ma è soprattutto un segno che esprime che ogni persona scartata, abbandonata o rifiutata nella nostra società, spesso indifferente di fronte ai vagiti di chi viene al mondo, racchiude la possibilità di una nuova esperienza di amore che guarda al futuro. Andando oltre la commozione e l’emotività del momento, dobbiamo passare alla rinnovazione dando vita  a tutti, senza esclusione di nessuno.

La nuova evangelizzazione, con i suoi ritmi di pro-vocazione e nello stesso tempo di innovazione, ci richiama a non perseguire la strada delle ‘crociate’ o quella dell’apologetica, ma quella del dialogo e della proposta. D’altronde è sull’amore per la vita che Gesù ha costruito e costituito il suo “gruppo” instradandolo verso un futuro non certo incentrato sull’egoismo e sulla forza”.

Cosa significa prendersi cura?

“Se dovessimo provare a tradurre nel nostro linguaggio quel ‘prendersi cura’, credo che non avremmo difficoltà a farlo con l’espressione: preoccuparsi. Don Lorenzo Milani direbbe ‘I Care’. Ci sono tre episodi evangelici che ci aiutano a scoprire la preoccupazione, il prendersi cura, la compassione di Dio che si è rivelato concretamente in Gesù: il lebbroso che chiede di essere sanato,  il samaritano della Gerusalemme-Gerico che si prende dell’uomo percosso e lo stesso Gesù che si compenetra con la vedova di Nain fino a restituirle il figlio morto. Tutti questi episodi mostrano che non c’è mai limite a dare una mano e a ricominciare.  E’ Gesù stesso che sulla croce si è preoccupato di noi. Ha dato tutto.

Quel piccolo della culla termica è un segno per chi ancora nella Chiesa stenta a mettersi in gioco e ha paura di compiere scelte fuori dal comune. La pandemia ha fatto emergere quattro grossi nodi ai quali una Chiesa stanca e arroccata sul passato oggi è chiamata a dare risposte diverse. La denatalità, il mondo di plastica, l’immigrazione e la mancanza di profezia chiedono nuove vie di pro-vocazione per essere credenti e non solo piangenti dei ‘crocifissi’ di oggi e di domani”.

In quale modo accogliere la vita?

“Non esiste un ‘solo’ modo per farlo: ogni volta che salviamo un bimbo dall’aborto; ogni volta che ci preoccupiamo di far arrivare il latte ai bimbi che non hanno alcuna possibilità di averlo; ogni volta che educhiamo un ragazzo ai valori della pace, della fratellanza, dell’amicizia, del servizio; ogni volta che apriamo le nostre case ai profughi; ogni volta che non lasciamo sola una ragazza-madre; ogni volta che costruiamo un luogo di riparo per un senza fissa dimora; ogni volta che ci impegniamo per non tagliare un albero; ogni volta che non inquiniamo; ogni volta … c’è sempre un modo nuovo per mettere in vita, perché mettere in vita vuol dire mettere in luce vuol dire dare luce, a chi fa fatica ad accendere tutto quanto sembra spegnersi. Proviamo a domandarci: se non avessimo pensato alla culla termica… dove sarebbe finito il piccolo che in essa è stata collocato per essere affidato alla nostra comunità parrocchiale?”

Perché lei stimola i giovani a mettersi sulle tracce di don Tonino Bello?

“Sono i passi degli ultimi che daranno una svolta alla Chiesa. Di questo che don Tonino era convinto fino al midollo. La testimonianza che ci ha lasciato non è una scia che velocemente si cancella. La sua è una traccia indelebile che ci indica la direzione per una ‘Chiesa dei pro-vocanti’. Di quelli, insomma, che non si stancano di mettere in pratica le Beatitudini.

Il suo stare ‘in mezzo’ ai poveri, in mezzo agli operatori di pace, in mezzo ai deboli, in mezzo a chi è un numero o a chi non è nemmeno un numero perché non bancabile, mostra come solo una Chiesa che sta dalla parte dei crocifissi può rievangelizzare un mondo senza Dio e sempre più indifferente.

Il Crocifisso di Gerusalemme, collocato provvisoriamente sul Calvario e lì inchiodato, non ha smesso nemmeno negli ultimi momenti della sua vita di stare ‘in mezzo’. Le tracce di don Tonino si continuano a riscontrare ancora in quelli che ‘stanno in mezzo’. In tutti quei cristiani che non si nascondono e che, con le mani bucate, nella piena gratuità, continuano a spendersi per … tutti.

Don Tonino oggi starebbe accanto ai profughi dei barconi, dietro le vetrate dei reparti di terapia intensiva dei malati di coronavirus, a protestare per le lunghe lista d’attesa per le visite di prevenzione dei tumori e delle neoplasie, nelle aree inquinate della ex ILVA e a indicare a tutti i volontari che Cristo ‘volontariamente’ ha dato tutto per noi ‘tracciando’, una strada d’amore”.

Allora come raccontare ai giovani la Chiesa del grembiule?

“C’è un termine che mi ha segnato negli ultimi anni: schiodanti. Schiodanti è il contrario di demotivanti. La Chiesa del grembiule è quella dei giovani schiodanti che lasciano la comodità del salotto e delle relazioni ‘a distanza’ per entrare nel vivo della storia. E’ la Chiesa che dismette tutto, persino il grembiule e che non si arrende di fronte ad ogni ingiustizia, ad ogni arma che uccide, ad ogni violenza che potrà coinvolgere e non semplicemente avvolgere l’uomo.

Non saranno le favole raccontate per far addormentare i piccoli o la moltiplicazione di parole per farsi grandi a mostrare che è viva la Chiesa del grembiule, ma i gesti e le scelte di chi continuerà a costruire un mondo in cui tutti, nessuno escluso, diventeranno strumenti di pace e di amore. Ci tocca per dare vita e mettere in vita”.

(Tratto da Aci Stampa)

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