Nel 2012 aumentati i mercati di guerra

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Nel IV Rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e conflitti dimenticati, ‘Mercati di guerra’, realizzato da Caritas Italiana, Famiglia Cristiana e Il Regno ed edito da Il Mulino, si è evidenziato il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata, nell’ambito dello scacchiere internazionale e all’interno dei singoli stati. Nel rapporto è stata anche fornita una mappatura aggiornata dei conflitti nel mondo, concentrandosi in particolare su alcuni casi-studio: Libia, Somalia, Afghanistan, Filippine, Colombia. “Comunità sempre più orientate al bene comune, attraverso l’impegno educativo e la costruzione di sistemi di relazione e responsabilità rinnovati, basati su una piena dignità di tutte le parti in causa”: è stato questo uno degli obiettivi prioritari che don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana ha sottolineato nella presentazione del Rapporto ‘Mercati di guerra’. Si tratta della quarta tappa di un percorso di ricerca sui conflitti dimenticati, avviato da nel 2001 da Caritas Italiana insieme a Famiglia Cristiana e Il Regno, che in questa edizione si focalizza sul ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata.

 

 

Infatti il Rapporto ha sottolineato che dal 2010 al 2011 il numero totale di conflitti nel mondo è passato da 370 a 388: 18 in più. Particolarmente significativo l’aumento nel numero di guerre: dai 6 casi del 2010 si è passati ai 20 casi del 2011, il numero più elevato mai registrato dalla fine del secondo conflitto mondiale. Nel richiamare questi dati il Rapporto mette in rilievo che la disponibilità di risorse è divenuto il fattore scatenante di nuovi conflitti internazionali ed interni. I numeri sono eloquenti. 145 nazioni nel mondo devono condividere le proprie risorse idriche con altri paesi e utilizzano bacini idrici internazionali (263 in tutto il mondo). Negli ultimi cinquant’anni, la condivisione forzata dei bacini ha prodotto 37 conflitti violenti. Oltre cinquanta paesi, nei prossimi anni potrebbero entrare in dispute violente sulla gestione di laghi, fiumi, dighe e acque sotterranee. Negli ultimi 5-6 anni il prezzo reale del cibo è sostanzialmente raddoppiato. Anche il prezzo reale del petrolio è oggi quasi il doppio rispetto al 1982 e supera di più del 150% il livello di inizio millennio. Secondo il Rapporto, la principale causa degli aumenti di prezzo risiede proprio nel ruolo giocato dagli speculatori e dai mercati finanziari mondiali.

Le conseguenze sui paesi a reddito basso e medio-basso delle evoluzioni dei prezzi sono state ovviamente negative. In particolare, la crisi alimentare esplosa nel 2008 e l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari in tutto il mondo, hanno contribuito all’esplodere di vari conflitti, quali le primavere arabe e la guerra civile in Costa d’Avorio, e hanno provocato scontri e rivolte ad Haiti, in Camerun, Mauritania, Mozambico, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Bolivia, Indonesia, Giordania, Cambogia, Cina, Vietnam, India e Pakistan.  Il rapporto ha fornito una mappatura aggiornata dei conflitti nel mondo, concentrandosi in particolare su alcuni casi-studio: Libia, Somalia, Afghanistan, Filippine, Colombia. Il terrorismo internazionale, lo scontro di civiltà, i disastri ambientali, il tema delle risorse energetiche, le molte situazioni di conflitto armato si configurano come ‘emergenze umanitarie complesse’.

Nel 2011 sono state rilevate dal Conflict Barometer (Università di Heidelberg), 20 guerre, in riferimento a 14 paesi. Si tratta in realtà della punta dell’iceberg, in quanto, nello stesso anno, sono 388 in totale tutte le situazioni di guerra e conflitto armato registrate. Le situazioni più letali sono pari a 38 (war e limited war). Altri 148 conflitti sono stati classificati nei termini di ‘violent crisis’. I rimanenti 202 conflitti si sono sviluppati senza mezzi violenti (87 ‘crisi non violente’ e 115 ‘dispute’). Il numero di guerre registrate nel 2011 non coincide con il numero di paesi in guerra, dato che in uno stesso paese possono essere presenti più fronti di guerra. Il caso più eclatante è quello del Sudan, dove nel corso del 2011 sono stati registrati 4 distinti fronti di guerra. Rispetto a situazioni ‘vecchie’ di conflitto armato, degenerate in guerre e vere e proprie, si registra la presenza di 3 nuovi conflitti avviati nel corso del 2011, inquadrabili all’interno della ‘primavera araba’, e localizzati nella regione maghrebina e medio-orientale: si tratta della guerra nello Yemen, in Libia e in Siria. Dal 2010 al 2011 il numero totale di conflitti è passato da 370 a 388: 18 in più.

Particolarmente significativo l’aumento nel numero di guerre: dai 6 casi del 2010 si è passati ai 20 casi del 2011. Un confronto storico con i dati in possesso dell’Heidelberg Institute, raccolti a partire dal 1945, dimostra che il 2011 è l’anno con il numero più elevato di guerre mai registrato dalla fine del secondo conflitto mondiale. Sei guerre già registrate nel 2010 hanno mantenuto nel 2011 il medesimo livello di gravità: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Sudan, Somalia e Messico. Altre 14 situazioni di conflitto sono esplose ex novo o degenerate in guerre aperte. Inoltre per la quarta volta è stato effettuato con la collaborazione dell’SWG un sondaggio su un campione di popolazione italiana, realizzato appositamente per il Rapporto. Rispetto alle precedenti edizioni del sondaggio aumenta la conoscenza dei conflitti. Solo il 12% degli italiani non è in grado di indicare alcun conflitto armato degli ultimi 5 anni (erano il 20% nel 2008). I meno informati sono gli anziani (14,5%).

Prevalgono nel ricordo collettivo degli italiani i teatri di guerra che hanno coinvolto i paesi occidentali: Afghanistan e Iraq (46 e 37%), i nuovi conflitti della Primavera araba (Libia 37%, Siria 10%). Cresce la percentuale di coloro che considerano la guerra un ‘elemento evitabile’ (79%). Resta comunque costante la presenza di una parte degli intervistati (1 su 5) che considera inevitabili le guerre, in quanto legate all’essenza della natura umana. Secondo gli italiani, le cause dei conflitti sono soprattutto gli interessi economico-finanziari (64%), seguiti dai dissidi religiosi (40%) e dalle situazioni politiche (37%). Il 67% degli italiani ritiene che la gestione delle crisi internazionali non possa prescindere da una politica condivisa a livello internazionale e il 71% degli italiani è a favore di un rafforzamento dell’Onu (80% nel 2004). Il 13% degli italiani è a favore dell’intervento militare nei contesti di crisi, mentre il 10% propende verso un approccio umanitario, finalizzato alla fornitura di aiuti concreti alle vittime ed ai rifugiati. Aumentano gli sfiduciati: il 7% degli italiani ritiene giusto non intervenire e lasciare che le crisi si risolvano localmente risparmiando soldi e tempo (2% nel 2001).

E quale è il ruolo della Chiesa? Uno degli ambiti di impegno della Chiesa universale si riferisce al possibile ruolo di denuncia e richiamo delle istituzioni e dei vari attori protagonisti del contesto globale: combattere le speculazioni, costruire un mondo più giusto, su valori etici rinnovati, appare la strada maestra per dare una risposta alle migliaia di persone coinvolte dalle guerre e dai conflitti nel mondo. L’impegno della Chiesa riguarda anche il livello di responsabilità personale dei credenti, che apre all’orizzonte nuove sfide e interessanti prospettive di impegno, soprattutto sul piano informativo ed educativo.

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