La parola del giorno “indragare”. Il drago di Napoli. I drekar vichingi e sassoni

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La parola del giorno per oggi è il verbo transitivo e intransitivo pronominale “indragare” (diventare un drago, letteralmente o figuratamente), composto parasintetico di “drago” [*] col prefisso “in-“ nello significato di “entrare dentro”. Forma antica: “indracare” (di registro letterario).

Transitivo (figurativo, raro): trasformare in drago; incrudelire a guisa di drago; diventare violento e aggressivo come un drago; rendere velenoso e crudele come un drago; infierire come un drago; esasperare.

Intransitivo pronominale: diventare come drago, farsi violento e aggressivo. “L’oltracotata schiatta che s’indraca Dietro a chi fugge” (Dante); “S’indraca Messerin contro i pedanti” (Carducci); “Questa è sol la cagione, ond’io m’esaspero Incontro al cielo, anzi m’indrago, e invipero” (Sannazzaro); “Plebe indracata” (Guerrazzi); “Che s’indraca, cioè la quale incrudelisce, ed ampia la gola per divorare, come fa lo draco” (Francesco da Buti, Commento sopra la Divina Commedia); “Mostrando versi, ove costei m’indraga” (Franco Sacchetti, Rime).

Partecipo passato, anche come aggettivo: indragato (inferocito).

Parrebbe un po’ strano trovare la Divina Commedia sullo stesso scaffale di Eragon e del Signore degli anelli, ma tra le tante cose Dante è anche questo: uno scrittore fantasy. La cosa tende a sfuggirci perché la mitologia cui attinge è quella classica e non quella germanica, che oggi va decisamente più di moda; tuttavia a guardar bene si trovano creature fantastiche per tutti i gusti. Confusi tra gli ignavi, per esempio, ci sono numerosi esseri che volendo potremmo immaginare come elfi, orecchie a punta e tutto il resto. Nell’antinferno infatti sono accolti anche gli «angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro»: creature tra il maligno e il benefico che, nella tradizione popolare, tendevano appunto a identificarsi con spiritelli, elfi e simile genia. E poi naturalmente ci sono i draghi; certo, per come se li immaginavano i medievali, vale a dire serpentoni molto cattivi. Nella tradizione occidentale infatti draghi e serpenti sono quasi intercambiabili (il greco drákon possiede entrambi i significati) ed entrambi sono simbolo del diavolo, come la Bibbia ribadisce dalla Genesi all’Apocalisse. Nella Divina Commedia si contano, possiamo dire, due draghi e mezzo (Gerione infatti ha solo il corpo da serpente, integrato con materiali assortiti). Uno, nel Purgatorio, è una pura allegoria, espressione della forza distruttiva di eresie e scismi. Ben più d’impatto è il letterale “indragamento” cui assistiamo in Inferno XXV, un canto che sembra uscito fresco fresco da un libro di Harry Potter. Anzitutto le anime sono circondate da serpenti mostruosi (con e senza zampe) e, appena morse, si riducono in polvere, per poi rinascere come una grottesca fenice dalle proprie ceneri. Non solo: loro stesse si fondono con i serpenti, dando origine a orrendi ibridi. Il custode della bolgia poi li supera tutti: già ibrido di suo (essendo un centauro), è ricoperto da una massa di bisce e da un drago che vomita fuoco. Giusto per mantenerci sul sobrio. È nel Paradiso però che Dante se ne esce con la parola “indragarsi”, qui usata in senso metaforico. Cacciaguida descrive infatti una famiglia fiorentina che «s’indraca / dietro a chi fugge, e a chi mostra il dente / o ver la borsa come agnel si placa» (Par. XVI). Ossia incrudelisce come un drago contro gli inermi, mentre diventa un agnellino con i violenti e i ricchi. In questo senso “indragarsi” è quasi sinonimo del suo stretto parente “inviperirsi”, e può descrivere tanto un’esplosione di rabbia quanto un’ira duratura.

[*] Drago, che attraverso il latino “dracone” è dal greco “drákon” (drago, serpente), probabile derivazione di “dèrkesthai” (guardare, perché si credeva che questa creatura paralizzasse con lo sguardo):
– Mostro favoloso immaginato come un enorme rettile alato, che vomita fuoco.
– Persona che possiede qualità eccezionali, che riesce molto bene in qualcosa: in matematica è un drago; a giocare a tennis è un drago; con il PC è un drago.
– Soprannome di alcuni animali quali varano di Komodo, drago barbuto, drago d’acqua, drago volante e drago marino comune (animali realmente esistenti).
– In aeronautica, forma abbreviata di pallone drago.

Dragone, dal latino “dracone” (drago):
– Mostro favoloso; drago.
– Nel XV secolo, archibugiere a cavallo; più tardi, soldato di una specialità della cavalleria (dal francese dragon, perché lo stendardo portava raffigurato un drago).
– Imbarcazione a vela per regate, armata con randa e fiocco, dall’inglese “dragon [boat]”, nave di guerra vichinga e sassone, in norrena “dreki” dal proto-germanico “drakô” (drago), plurale “drekar”, conosciuto più comunemente con il nome “drakkar” a causa di un errore di trascrizione francese. Il dreki è caratterizzato da una forma lunga, in media attorno ai 25 metri, stretta e slanciata (da cui il nome “longship”) e da un pescaggio particolarmente poco profondo. Queste caratteristiche conferiscono all’imbarcazione una grande velocità e le consentono la navigazione in acque di un solo metro di profondità, permettendo di avvicinarsi molto alla riva, rendendo così gli sbarchi velocissimi. Inoltre, erano utilissime per navigare in mare e risalire i fiumi. Un altro vantaggio di queste imbarcazioni deriva dalla loro simmetria: la particolare forma della dreki consente infatti una inversione rapidissima. Alcune versioni più tarde del design includono una vela rettangolare montata su un unico albero. Generalmente la prua delle drekar era “decorata” con minacciose teste di drago o con divinità mostruose con lo scopo di proteggere la nave dai mostri marini, presenti nella mitologia norrena e di spaventare i nemici.

Aggettivo draconico (in astronomia): si dice del periodo che intercorre tra due successivi passaggi della luna al suo nodo ascendente, derivante dal latino “draco” (drago) con suffisso (-onis), perché nell’astrologia araba l’orbita lunare era raffigurata come un drago.

Aggettivo dragonato (in araldica), derivante di “dragone”: si dice di animale che presenta coda di drago.

Fonti: Treccani.it, Unaparolaalgiorno.it, Educalingo.com, Il Nuovo De Mauro, Dragopedia.it.

Nel centro storico di Napoli, ci sono vicoli dallo strano nome: vico Santa Maria ad Agnone e vico della Serpe, tra il Duomo e Castel Capuano. Le stradine, di origine medievale, ci tramandano l’esistenza in quella zona di un antico complesso religioso, formato da una chiesa e da un monastero, ora sede del Centro Interdipartimentale di Studi Archeologici dell’Università degli Studi “L’Orientale”. Nelle leggende campane, tra i miti e le storie che continuano a vivere attorno a noi, non mancano quella che ci racconta la storia del drago (grossa serpe) che viveva a Napoli, fuori Porta Capuana, dove oggi sono il vico Santa Maria ad Agnone e il vico del Serpe, e di un prodigioso intervento della Madonna.

La storia si svolge nell’anno 833 d.C. A quel tempo, l’area di vico Santa Maria ad Agnone era una palude esterna alla cinta muraria della città partenopea. Ma, soprattutto, era infestata da un grande e velenoso serpe che uccideva ogni essere vivente (uomini, animali e persino piante) che incrociasse il suo sguardo. Un sabato, un nobiluomo, tal Gismondo, molto devoto alla Madre di Dio, decise di attraversare la palude per visitare la chiesa di San Pietro ad Aram. Da fervente credente desiderava raggiungere Napoli per pregare sull’altare dove, secondo la tradizione, San Pietro celebrò la prima messa. Gismondo ci pensò a lungo. Il terribile drago rappresentava una minaccia per l’uomo, ma la sua fede era più forte. Alla fine, pur temendo le spire del pericoloso drago, decise di intraprendere l’ardua impresa, confidando nella protezione della Madonna e dell’Apostolo. Così, passò per Porta Capuana incolume senza imbattersi nel drago. La sua Fede lo aveva salvato. In quella notte, gli comparve in sogno la Vergine, comunicandogli che l’animale era morto e che era stata lei stessa ad averlo ucciso. La fede di Gismondo era stata tanta da colpirla e farla intercedere per salvarlo. Lui, in cambio, avrebbe dovuto costruire una chiesa lì dove c’era il cadavere del drago. La chiesa edificata, sottolineò la Madonna nel sogno, sarebbe stata il simbolo della liberazione dal male. Napoli, da quel momento in poi, avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo. L’indomani, quindi, Gismondo cercò la carcassa del drago. Una volta trovata, si mise all’opera. Fu edificata la “Chiesa di Santa Maria ad Agnone”, da quello del serpente ucciso che, come ci ricorda lo storico Giovanni Antonio Summonte nella sua “Historia del Città e del Regno di Napoli” (1675), «Anguis e Angueo vien latinamente detto» ((grossa serpe). L’edificio andò completamente distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale. Della leggenda del drago di Napoli resta solo la strada dove sorgesse l’antica chiesa.

La leggenda sembra nascere in un ambito religioso tipicamente cristiano: la Madonna che sconfigge il serpente, simbolo del male, è un tema piuttosto ricorrente nelle rappresentazioni cristiane. Probabilmente, risente di precedenti tradizioni religiose pagane di origini magnogreche: lo sguardo letale del serpente ricorda, per esempio, quello altrettanto mortifero della gorgone Medusa. Se, però, la caliamo nel periodo storico di riferimento, cioè nella prima metà del IX secolo d.C., questa leggenda può raccontarci qualcosa d’altro.

Dall’anno 822 fino all’anno 836, la città di Napoli, all’epoca sotto il dominio formale dei Bizantini, fu assediata invano per ben cinque volte dai Longobardi del Ducato di Benevento. Gli Uomini dalle Lunghe Barbe non riuscirono mai a “prenderla” in quanto, pur circondandola per terra, non erano in grado di bloccarne il porto e, di conseguenza, i rifornimenti via mare. I Longobardi veneravano la grosse serpe. Il nome latino di questo rettile ricorre in diversi toponimi dell’Italia conquistata, nell’Alto Medioevo, da questo popolo barbarico: Agnone Cilento nel Salernitano; Agnone in provincia di Isernia; Agnone nel Frusinate, situato nei pressi del fiume Liri; Villa Latina, ancora in provincia di Frosinone, nome moderno dell’originario Agnone, ecc. Un altro elemento da non sottovalutare è il fatto che, una volta realizzato il monastero per opera del nobiluomo Gismondo, vi furono immediatamente spostate monache di origini longobarde di rito basiliano.

Allora, alla luce di quanto finora esposto, è probabile che questa leggenda sembra raccontare allegoricamente le vicende politiche di quell’epoca: il serpente rappresenterebbe la minaccia longobarda alla città partenopea; l’intervento della Madonna, invece, la protezione cristiana ai propri fedeli e la morte dell’animale, a sua volta, la vittoria del Cristianesimo sugli ultimi residui di paganesimo ancora presenti nella nostra Penisola.

Fonte: Francesco Di Rienzo, Altosannio.it e Annunziata Buggio, Grandenapoli.it.

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