C’è più gente su treni e in metro ma il capo della Sanità blocca ancora le piste da sci. Così uccide il comparto turistico

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Che l’esponente dell’estrema sinistra Roberto Speranza era la peggiore scelta possibile per riscaldare la poltrona suprema al Ministero della Sanità, lo sapevano anche i sassi e ciononostante è stato confermato. A quella carica che gli dà nell’emergenza pandemica più poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri. Per quanto riguarda le sue ultime gesta – in attesa che chiude anche il mare per l’estate – riporto l’articolo dell’amico e collega Renato Farina di oggi su Libero Quotidiano Speranza, il peggiore confermato da Draghi. L’abominevole ministro delle nevi. Ma non si tratta di una consapevolezza di oggi, reso solo più manifesta con la questione sciistica.

Il 23 settembre 2020 sul Fatto Quotidiano, dopo 9 mese di gestione dell’emergenza sanitaria, Prof. Ivan Cavicchi, esperto di politiche sanitarie, docente all’Università Tor Vergata di Roma, scrisse in una lucida riflessione, con quattro proposte secche. Lo riporto – per capire quanto tempo abbiamo perso e come mai ci troviamo nei guai – come introduzione all’articolo di Farina, che riflette sulla cronaca di questi giorni.

«Chi sia il ministro Roberto Speranza lo abbiamo capito:
a) un bravo ministro che ha gestito al meglio possibile la crisi della pandemia;
b) un giovane politico consapevole di avere una promettente carriera davanti;
c) un bluffer che sulla sanità si trova incastrato tra gli errori della sinistra di governo e un futuro incerto e difficile e che dice di voler riformare ma non cambia niente, convinto che con i soldi si risolve tutto, e che per questo rinuncia (almeno a giudicare dalle sue proposte) a pestare i calli a chi è il vero responsabile dei disastri nella sanità;
d) un democratico – per modo di dire: mai visto un ministro aperto a tutti ma solo in televisione e chiuso come una porta blindata nei confronti di chi lo critica.
In sintesi: uno che per la politica rinuncia alla storia, cioè alla possibilità di voltare pagina, di aprire un nuovo corso riformatore, risolvendo una volta per tutte la crisi profonda del nostro Ssn. Un classico esempio di sinistra che nei confronti del cambiamento non riesce ad essere di sinistra come una vera sinistra.
Al ministro Speranza rivolgo quattro idee secche di riforma.
La prima cosa che riformerei è il postulato che in sanità muove tutto (tipo di governo, organizzazione, servizi, persino professioni e contratti): la “tutela“. Culturalmente ma anche scientificamente è un concetto vecchio di “difesa” nato già vecchio nella riforma di 40 anni fa, secondo il quale la sanità è difesa dalle malattie e la salute un diritto naturale dell’individuo, quando è ben altro.
Con la pandemia abbiamo capito che:
1) la difesa sanitaria non basta, bisogna certamente rinnovare i vecchi approcci di prevenzione, ma anche creare una nuova coscienza sociale e una cultura più che preventiva predittiva della salute;
2) oltre ai diritti alla salute è indispensabile sancire dei doveri alla salute che oggi nessuna norma prevede. Con la pandemia sfido chiunque a dire che la salute non sia un dovere individuale e sociale;
3) oltre all’individuo il vero, nuovo, protagonista della salute è la comunità (la salute non è solo un interesse della collettività). Oggi la salute dipende certo dai comportamenti individuali, ma anche dai comportamenti di una comunità.
Quindi la seconda cosa che farei è superare l’organizzazione territoriale della sanità (il territorio come “circoscrizione”, “distretto”, è un concetto di pura amministrazione delle persone) e al suo posto metterei la “comunità” che, al contrario, come soggetto politico non è puramente amministrabile ma è un soggetto co-decisore e quindi partecipante. Quindi non più Usl (unità sanitarie locali) ma Sssc, cioè “sistemi socio-sanitari di comunità”, non solo di servizi ma anche di “insiemi” di persone (cittadini e operatori), cioè gruppi eterogenei di persone, che con ruoli diversi partecipano alla costruzione della salute e al suo governo.
La terza cosa quindi che farei: cambierei l’attuale modello di governo della sanità. Da un governo delegato e paternalista, monocratico e tirannico sui cittadini e sugli operatori, si dovrebbe passare ad un governo della comunità basato sull’alleanza tra diritti e doveri, quindi dei malati e degli operatori.
Per me la forma di governo più adeguata non può che essere autenticamente federalista, ma il federalismo vero, non quello fasullo del titolo V e del regionalismo differenziato. Si tratta di distribuire i poteri non solo tra le istituzioni, ma tra istituzioni e comunità. Ma anche di riammettere i comuni esclusi nel ’92 dal governo della sanità. Comune e comunità sono la stessa cosa.
In questo ambito ridefinirei i rapporti tra Stato e Regioni, quindi supererei quell’obbrobrio della riforma del titolo V del 2001 e cancellerei le aziende (una vera disgrazia per la sanità) e al loro posto metterei i Csc, cioè i “consorzi per la salute di comunità”. Il consorzio giuridicamente è l’unione di più individui o enti, legati tra loro con doveri e diritti comuni e per un fine determinato, quindi espressione di un contratto sociale tra cittadini operatori e istituzioni: i suoi organi di gestione sono i più coerenti con il concetto di comunità.
La quarta cosa che farei è riformare il lavoro e le attuali forme di contrattazione. Le professioni che hanno rapporti di cura con i malati debbono essere definite giuridicamente quali “professioni impareggiabili” per cui non possono essere assimilate alle definizioni burocratiche del pubblico impiego. Non si può curare la gente con la burocrazia. Il lavoro è il capitale della sanità e quindi va pagato come tale.
Fino ad ora si è pagato il pennacchio, cioè la qualifica, e non le capacità di lavorare; da oggi in poi si tratta di pagare meglio e di più sulla base dei risultati di salute valutati in relazione alle complessità affrontate: cioè mettere il malato tra i criteri della retribuzione. Oggi il malato non è in nessun modo un riferimento retributivo.
Ivan Cavicchi».

Foto di Massimo Percossi/ANSA.

Speranza, il peggiore confermato da Draghi
L’abominevole ministro delle nevi
di Renato Farina
Libero Quotidiano, 17 febbraio 2021

Bisognerebbe chiamare Reinhold Messner per il riconoscimento ufficiale. Fu lui il più autorevole testimone visivo dell’apparizione sull’Himalaya dell’orrenda creatura. Allora, signor Messner ci dica: è lui o non è lui? Ma sì che è lui: Roberto Speranza è l’abominevole ministro delle nevi. Dopo di che la mia proposta sarebbe: sedarlo e impagliarlo. Detta così fa ridere. In sostanza è una tragedia. Economica, politica, morale.

Questa creatura lucana è considerata – a parte Mara Carfagna, secondo le pagelle date da Conchita De Gregorio – l’estrema sinistra del governo. Il compagno Roberto ha chiuso con una firmetta le Alpi e gli Appennini, usando le maniere spicce degli ukaz sovietici. Ha bloccato con uno svolazzo su un decreto autocratico la vita stessa delle zone montuose d’Italia inutilmente coperte di provvida neve, che era stata battuta con ardore dai “gatti” e poi con delicatezza lisciata dai maestri per essere percorsa da milioni di sciatori in astinenza da un anno. Com’erano soddisfatti, cominciavano a respirare i disgraziati fornitori di magnifici servizi. Gli ski-lift pronti a misura di Covid, le code per salirci dinoccolatissime e a prova di ressa. Insomma, poca sciolina e molta amuchina. E invece è apparso con cipiglio spaventevole l’abominevole, in perfetta rima da yeti.

L’antecedente storico di questa mossa dittatoriale è la lotta di Stalin contro i kulaki (i contadini proprietari di un paio di mucche) dell’Ucraina negli anni 30. Resistevano la collettivizzazione. Li fece morire letteralmente di fame. Nessuna intenzione di stabilire un’equivalenza, e ci mancherebbe. Ma l’idea di prepotenza è la medesima. Se posso praticare un potere assoluto, lo afferro con due mani e lo esercito. Per il bene della causa, che coincide con la volontà di chi comanda. E al diavolo il popolo bue.

Secondo quanto spiegò a suo tempo in un dotto articolo il giurista Sabino Cassese il governo Conte ha brandito gli strumenti tipici dello stato di guerra, senza nessuna dichiarazione di guerra. Con la compressione anticostituzionale delle libertà individuali e l’esautorazione di qualsivoglia simulacro di democrazia. Draghi non pare muoversi alla stessa maniera. Senza permesso, Speranza invece sì. Ed è così che – sentito il Comitato tecnico scientifico – per la terza volta consecutiva ha fatto finta di scandire il conto alla rovescia per il via al turismo della neve, e poi stop. La prima volta è stato il 2 gennaio. Gli impianti e il relativo comparto alberghiero era stato stabilito aprissero il 7 gennaio. Cinque giorni prima ha fatto sapere che non era il caso. E la data fatidica è stata spostata al 18 gennaio «su consiglio delle Regioni per prepararsi meglio». Si prepararono eccome. Niente da fare. Si è protratto il fermo fino al 15 febbraio. E siamo già nel mondo di Draghi. Uguale a quello di Conte, a quanto pare. A 12 ore dall’annunciato semaforo verde, con le località già colme di sciatori, e le funivie e seggiovie tirate a lucido e sanificate, contrordine, italiani: da domani non si scia. Si riapre forse il 5 marzo. Ah sì? Stagione finita. Rifornimenti di vettovaglie da buttare, camerieri assunti a tempo, e da mandare a casa. Speranza dice: «Prima la salute, manderemo subito i ristori». A parte che non ci crediamo. Resta lo spreco di risorse, di speranze, di voglia di ripartire. E’ chiaro che la salute è importantissima. La salute però è anche evitare di uccidere l’animo di intere comunità trattate come schiave agli ordini di ghiribizzi parascientifici. Non è esasperando irrazionalmente il principio di precauzione che si salva la vita alla gente. Possibile che gli algoritmi di cui sono armati gli epidemiologi funzionino solo all’ultimo istante e valgano solo in montagna?

Non è stato spiegato da Speranza e dagli scienziati perché mai il Covid in versione londinese debba avere come terreno di caccia esclusivo le piste da sci, da bob e da slittino, ed invece trascuri le piste ciclabili e quelle per i monopattini; non salga sui treni o sulle metropolitane  dove c’è più gente in un vagone che in tutta Madesimo o Cortina d’Ampezzo, ma in compenso gremisca le ovovie.

I casi personali sono sempre i più istruttivi per cogliere le assurdità. Alpi e Appennini chiusi, come se lì si celebrasse una movida futile, quando invece sono la spina dorsale d’Italia, parte costitutiva dell’identità nazionale e pure della sua economia. Invece Stazione centrale di Milano e Termini in Roma, per fortuna!, Speranza non le ha serrate. Uno dice, e perché questo privilegio? Se vuole mando le foto al ministro: i punti dove ci si tocca, ci si respira addosso, sono proprio i check point anti-Covid delle stazioni. Le quali di primissima mattina sono semi vuote. In compenso ci sono assembramenti causati dalle misure di sicurezza.   Infatti invece di andare direttamente ai binari bisogna incolonnarsi per compilare e consegnare le autocertificazioni. Tavolini dove ci si ammassa. I migranti che non parlano italiano si fanno aiutare a scrivere i questionari. La paura di perdere il treno per i controlli provoca il pigia pigia. Dateci uno ski-lift per andare ai treni che si rischia di meno.

Però Speranza figura tra i moderati, altrimenti Mattarella non avrebbe scelto lui, per il quale d’altra parte ha un debole, spiegabile con la straordinaria gentilezza che ha ammaliato persino Avvenire. Il quotidiano dei vescovi gli ha perdonato l’autorizzazione che come ministro della Salute ha dato all’aborto farmacologico a domicilio, incurante dei rischi non diciamo del bambino, che tanto non conta niente, ma anche della donna che vuole interrompere la gravidanza. Prima la salute? Ma va’, prima l’ideologia.

Di fatto, Draghi lo ha confermato in una carica che dà a Speranza nell’emergenza pandemica più poteri del presidente del Consiglio. Affannato com’è a compilare un Recovery Plan decente, dopo che Conte gli aveva lasciato una bozza straziante per ignoranza, Draghi non si è ancora sintonizzato sulla lunghezza d’onda dei bisogni e dei sentimenti quotidiani della gente che non sa neppure che la Bce sta a Francoforte. In questo momento importa di più, signor Premier, fermare la follia dei megalomani che schioccano le dita e chiudono le montagne, che rifinire i discorsi per oggi al Senato e domani alla Camera.  Le tre parole che salvarono l’euro «whatever it takes» (faremo tutto il necessario), per cui Draghi è meritatamente famoso e onorato nel mondo, qui in Italia vanno tradotte in vaccini, in decisioni sagge che tengano conto di tutti i fattori in gioco: salute, economia, libertà, voglia di rinascere. Altrimenti è un guaio. Rimandi nell’amata Siberia il commissario politico della Lucania. Prima che chiuda anche il mare.

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