Le comunità religiose: non zone di non diritto, ma spazi di libertà. L’autonomia della Chiesa in quattro punti

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In quattro punti, la Santa Sede ha spiegato “La libertà e l’autonomia istituzionale della Chiesa” alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quattro punti per sottolineare che “la Chiesa non si confonde in alcun modo con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico”; che “la distinzione tra la Chiesa e la Comunità politica viene garantita dal rispetto per la loro autonomia reciproca, la quale condiziona la loro mutua libertà”; e i limiti di questa libertà “sono per lo Stato, astenersi dall’adottare misure atte a nuoce alla salvezza eterna dei fedeli e per la Chiesa rispettare l’ordine pubblico”; una nota per sottolineare che “la libertà della Chiesa deve essere riconosciuta dal potere civile”. In ballo, ci sono due casi che riguardano la libertà della Chiesa presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E nel presentare la nota in una intervista a Radio Vaticana, l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha sottolineato: “E’ reale il rischio che il relativismo morale che si impone come nuova norma sociale venga a minare le fondamenta della libertà individuale di coscienza e di religione”.

 

Un allarme particolarmente sentito anche da Benedetto XVI, che alla libertà di coscienza ha dedicato significativi passaggi del discorso di inizio anno agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, e che non manca occasione di tornare sul tema. Le due cause che hanno reso necessaria la nota sono la Sindicatul “Pastoral cel bun” contro Romania e Fernandez Martinez contro Spagna. Sono entrambi casi da analizzare.

Il primo caso riguarda un sindacato fondato nel 2008 dal clero di una diocesi ortodossa romena per difendere i loro “interessi professionali, sociali ed economici” nei loro rapporti con la Chiesa. Quando il governo romeno ha registrato il nuovo sindacato, la Chiesa ha fatto causa, sostenendo che la registrazione ha violato il principio dell’autonomia della Chiesa, dato che i canoni della chiesa non permettono di formare sindacati. Un tribunale romeno ha accolto il ricorso della Chiesa, e allora il sindacato si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che la decisione di non avallare la registrazione ha violato l’articolo 11 della Convenzione Europea, che garantisce il diritto alla libertà di associazione. Nel 2012, la camera ha definito che  – secondo l’articolo 11 – uno Stato può limitare la libertà di associazione solo se questa mostra “un bisogno sociale pressante” definito in termini di “una minaccia ad una società democratica”, e questo non è avvenuto in Romania. Così la sentenza del tribunale romeno è stata ribaltata dalla Corte, e la Romania si è appellata alla “Grande Chambre”, l’ultimo grado di giudizio della Corte Europea

Il secondo caso riguarda Fernandez Martinez, un insegnante di religion spagnolo. In Spagna, si insegna religione cattolica nelle scuole pubbliche, con insegnanti approvati da un vescovo locale. Fernando Martinez, però, non ha ricevuto l’approvazione del vecovo: spogliatosi dell’abito di sacerdote, Martinez si è pubblicamente espresso contro il celibato obbligatorio dei sacerdoti. La scuola ha così licenziato l’insegnante, e questi si è appellato alla Convenzione europea: il suo licenziamento – ha sostenuto – ha violato il suo diritto alla privacy, alla vita famigliare e alla espressione. In questo caso, la Corte europea non ha sostenuto la sua tesi, perché nel “negare l’approvazione, il vescovo ha agito in accordo con il principio dell’autonomia religiosa”, e quindi giudicare riguardo il caso sarebbe “inappropriato per una corte secolare”. Anche Martinez si è appellato alla Grande Chambre.

Sono due casi – spiega Mamberti – che “mettono in questione la libertà della Chiesa di operare secondo le proprie regole, di non doversi sottoporre ad altre norme civile se non quelle necessarie al rispetto del bene comune e del giusto ordine pubblico”. Una vexata quaestio, si direbbe. Che non riguarda solo l’Europa. A gennaio 2012 – un anno che il Center for Law and Religious Forum della Saint John University ha definito “un grande anno per l’autonomia della Chiesa” – la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza “pro autonomia” nel caso Hosanna-Tabor Evangelical Lutheran Church and School vs EEOC, sostenendo all’unanimità una “eccezione ministeriale” alle leggi federali anti-discriminazione sull’occupazione. In pratica, la Corte Suprema ha sostenuto che le leggi sulla discriminazione non si applicano alle decisioni della Chiesa di impiegare o allontanare i suoi ministri.

Un caso, quest’ultimo, che dimostra come la nota presentata dalla Santa Sede al Consiglio d’Europa sia quanto mai necessaria, perché il principio dell’autonomia della Chiesa può essere interpretato in maniera diversa a seconda dei sistemi giuridici. “La libertà della Chiesa – spiega Mamberti – sarà rispettata tanto meglio quanto più sarà ben compresa dalle autorità civili, senza pregiudizio”. E nella nota è scritto chiarissimo – al secondo punto – che “la libertà della Chiesa deve essere riconosciuta dal potere civili in tutto ciò che concerne la sua missione, sia che si tratti dell’organizzazione istituzionale della Chiesa (scelta e formazione dei collaboratori e dei chierici, scelta dei vescovi, comunicazione interna tra la Santa Sede, i vescovi e i fedeli, fondazione e governo d’istituti di vita religiosa, pubblicazione e diffusione di scritti, possesso e amministrazione di beni temporali) sia che si tratti del compimento della sua missione tra i fedeli (soprattutto attraverso l’esercizio del suo magistero, la celebrazione del culto, l’amministrazione dei sacramenti e la sollecitudine pastorale)”.

Intanto, la Corte Europea per i diritti umani si è trovata a dover giudicare i casi di quattro persone che denunciavano di essere state discriminate perché cristiane. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha definito che i cristiani hanno il diritto di mostrare in pubblico la propria fede, e per questo possono mostrare simboli religiosi. Così, la Corte ha dato ragione a Nadia Eweida, dipendente della British Airways licenziata perché non voleva togliere la catenina con il crocifisso, non prevista dal “dress code” dell’azienda.

Negli altri tre casi – tutti del Regno Unito – la Corte si è pronunciata contro l’ipotesi di discriminazione. A far discutere è stato soprattutto il caso di Lilian Ladele. Ladele lavorava all’Islington Borough Council di Londra come impiegata all’anagrafe per la registrazione dei matrimoni. Quando la legge inglese nel 2004 ha approvato le unioni civili, ha chiesto di poter fare obiezione di coscienza, rifiutandosi di partecipare come impiegata-testimone a matrimoni omosessuali. Ma nel 2007 è stata obbligata a partecipare alle cerimonie e per questo ha fatto causa al datore di lavoro. Ha perso.  Ma la sentenza non è stata all’unanimità. Due dei sette giudici della Corte Europea per i Diritti umani . considerando che l’obiezione di coscienza di Lilian Ladele non impediva che le unioni civili tra omosessuali venissero celebrate, erano disponibili anche altri testimoni – hanno affermato, in contrasto con la maggioranza e in un documento annesso alla sentenza, che la tolleranza e i diritti dei cristiani “sono stati sacrificati sull’altare dell’ossessione per il politically correct”.

Altro caso discusso alla Corte è stato quello di Shirley Chaplin, infermiera geriatrica del Royal Devon and Exeter Foundation NHS Trust, che per 30 anni ha indossato la croce sopra il camice di lavoro, finché non le hanno chiesto di toglierla o di nasconderla sotto la casacca: Shirley ha rifiutato. Le hanno allora chiesto di farlo per motivi di sicurezza dei pazienti, e lei ha fornito una soluzione pratica, che lei ha rifiutata. Chaplin è stata così trasferita ad un lavoro dietro la scrivania, lontano dai pazienti, e Chaplin ha fatto causa per discriminazione.

Infine, si è appellato alla Corte anche Gary McFarlane, consulente nel campo di disturbi e patologie sessuali alla Relate Avon, è stato licenziato nel 2008 perché aveva annunciato ai suoi superiori che, nel caso si fosse presentata una coppia omosessuale, avrebbe preferito non assisterla, perché contro i suoi “principi cristiani”.

Sono quattro casi che hanno avuto esiti differenti, cosa che – secondo Mamberti – dimostra “che le questioni relative alla libertà di coscienza e di religione sono complessi, in particolare in una società europea caratterizzata dall’aumento della diversità religiosa e dal relativo inasprimento del laicismo”.

È anche per questo che – nella nota della Santa Sede al Consiglio d’Europa  – si legge al punto 3 che “la Chiesa non ignora che alcune religioni e ideologie possono opprimere la libertà dei loro fedeli; quanto a essa, tuttavia la Chiesa riconosce il valore fondamentale della libertà umana”. Una libertà che “dipende dalla verità”, ed è per questo che “un fedele laico o religioso non può, nei confronti della Chiesa, invocare la sua libertà per contestare la fede (per esempio prendendo posizioni pubbliche contro il Magistero) o per recare danno alla Chiesa (per esempio creando un sindacato civile di preti contro la volontà della Chiesa”. E, semmai ci sono delle controversie interne – perché tutti hanno “facoltà di contestare le decisioni del Magistero” ed essere in disaccordo fino a rompere i rapporti con la Chiesa – non compete comunque “allo Stato di entrare in questa sfera e di risolvere tali controversie”.

Ma – precisa poi la nota – “la Chiesa non chiede che le comunità religiose siano delle zone di ‘non diritt’” nelle quali le leggi dello Stato cesserebbero di applicarsi”. Perché “lo Stato deve assicurare il rispetto da parte delle comunità religiose della morale e dell’ordine pubblico giusto”, preoccupandosi “in particolare che le persone non siano sottoposte a trattamenti disumani o degradanti, così come del rispetto della loro integrità fisica e morale, compresa la loro capacità di lasciare liberamente la loro comunità religiosa. È là il limite dell’autonomia delle diverse comunità religiose che permette di garantire la libertà religiosa, tanto individuale quanto collettiva e istituzionale, nel rispetto del bene comune e della coesione delle società pluraliste. Al di fuori di questi casi, spetta alle autorità civili di rispettare l’autonomia delle comunità religiose, in virtù della quale esse devono essere libere di funzionare e di organizzarsi secondo le loro proprie regole”.

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