La parola del giorno per oggi è imbonitore. Un ciarlatano, uno strillone

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Il sostantivo maschile/femminile “imbonitore/trice” definisce chi cerca di convincere qualcuno sui pregi di una merce o di uno spettacolo, invitando a comprare o a parteciparvi da “imbonire”, derivato di “b[u]ono” col prefisso locativo “in-“. Presentatore pretenzioso e chiassoso di un prodotto o di uno spettacolo. Per estensione (spregiativo) esaltatore esagerato e spesso interessato dei meriti e dei pregi di qualcuno (ciarlatano, strillone).

Il significato originale della parola è riferita ad un venditore ambulante che con frasi d’effetto e decantando i pregi della propria merce con un profluvio di parole efficaci, semplici o dotte quando conviene, dà dimostrazioni sbalorditive di quel che dice, esaltando ciò che vuole vendere in maniera irresistibile, cerca di attirare il pubblico e convincerlo a fare acquisti – e noi col portafogli in mano, rapiti, compriamo subito, anzi, ne prendiamo due (“prendi due e paghi tre”, offerta irresistibile). Indica anche lo strillone che, all’ingresso di locali di spettacolo, di baracche da fiera, ecc., alletta la gente ad entrare. Infine, è una persona che esercita pratiche da guaritore, o si approfitta in modo simile della buona fede delle persone, allo scopo di ottenere denaro o altri vantaggi grazie a false promesse. Poi, per estensione (spregiativo), definisce chi esalta le qualità inesistenti di qualche cosa o fa uso di parole sonanti per dare a intendere cose lontane dal vero (un ciarlatano, uno strillone). Queste sono fra le prime immagini che ci possono venire in mente quando si sente parlare di imbonitori.

In realtà l’imbonitore non nasce in questa specifica veste; piuttosto emerge col profilo di un buttadentro o acchiappino, come si usa dire oggi, indicando figure di richiamo per un’attività. Il verbo ‘imbonire’, prima del Novecento, aveva indicato l’azione del rabbonire, e conseguentemente quella dell’ingraziarsi. Questi significati originali ci fanno capire quale sia il nucleo originale dell’imbonire – cioè quello del porre qualcuno (il cliente) in un buono stato, in uno stato di benevolenza, di buona disposizione d’animo.

A inizio Novecento (probabilmente su influenza di usi omologhi francesi) l’imbonire inizia a profilarsi come azione di richiamo di clienti – acquirenti o spettatori. Così l’imbonitore si afferma come strillone o – come dicevamo – buttadentro che invita con vigore e maestria i passanti a entrare nel locale o nel teatro, e anche venditore che decanta ed esalta in modo convincente le virtù formidabili della sua merce.

Proprio il modo in cui è espansivo, accattivante e entrante, perfino invadente ai limiti di un’astuta sfacciataggine, da un lato ci rapisce, dall’altro ci allarma. Ma il termine ‘imbonitore’ tendenzialmente non è lusinghiero, e adombra volentieri l’intenzione coperta della fregatura da parte di qualcuno che sa cucinare l’uditorio portandolo a credere quel che vuole.

Fonte: Unaparolaalgiorno.it, Treccani.it.

Foto di copertina: Pietro Longhi, Il ciarlatano, 1757, olio su tela, 63×50 cm, Museo di Ca’ Rezzonico, Venezia.
Il dipinto raffigura un ciarlatano che, dall’alto di un tavolo, affascina con la sua parlantina un gruppo di donne. Alle sue spalle un teatrino di marionette, spettacolo assai diffuso a Venezia nel Settecento. In primo piano due nobili sono vestiti in maschera, con abiti fedeli alla moda carnevalesca dell’epoca. Quest’opera fa parte di un’ampia serie dedicata dal Longhi alle feste in maschera e agli spettacoli allestiti per le strade (soprattutto sotto i portici di Palazzo Ducale) da attori, indovini, ciarlatani e chiromanti, un allegro divertimento per l’aristocrazia locale e per gli stranieri in visita a Venezia. Questo lavoro riflette la tendenza del Longhi nel corso della metà del secolo, di abbandonare la luminosa tavolozza, influenzata da R. Carriera, a favore di toni decisamente bruni, stesi sempre con una rapida pennellata. È possibile che a determinare questa tendenza siano stati gli echi rembrandtiani giunti a Venezia grazie a Bartolomeo Nazari. Il dipinto è firmato e datato in basso a sinistra: «Longhi Pin.T. 1757». Appartenuto a Teodoro Correr, passò insieme a tutta la collezione al Museo Correr. Oggi il quadro si trova al Museo di Ca’ Rezzonico, antico palazzo aristocratico, nel 1935 venduto dagli eredi della nobile casata al Comune veneziano, e quindi destinato ad ospitare i capolavori del Settecento veneziano.

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