Gli evangelisti i primi giornalisti cattolici. Scrivere di verità è toccare i fili dell’alta tensione. Giornalista martire della verità

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Ieri, 23 gennaio 2021 abbiamo letto il Messaggio del Santo Padre Francesco per la LV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali «Vieni e vedi» (Gv 1,46). Comunicare incontrando le persone dove e come sono, che viene celebrata oggi, la Domenica della Parola di Dio, memoria liturgica di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Un Messaggio rivolto direttamente a noi giornalisti e comunicatori, che termina con questa preghiera:

Signore, insegnaci a uscire dai noi stessi,
e a incamminarci alla ricerca della verità.
Insegnaci ad andare e vedere,
insegnaci ad ascoltare,
a non coltivare pregiudizi,
a non trarre conclusioni affrettate.
Insegnaci ad andare là dove nessuno vuole andare,
a prenderci il tempo per capire,
a porre attenzione all’essenziale,
a non farci distrarre dal superfluo,
a distinguere l’apparenza ingannevole dalla verità.
Donaci la grazia di riconoscere le tue dimore nel mondo
e l’onestà di raccontare ciò che abbiamo visto.

Mi astengo dal commentare il Messaggio di Papa Francesco, facendomi interrogare dalle parole che rivolge a me, comunicatore.

In aggiunto a quanto pubblicato questa mattina Per un’informazione coraggiosa. Un vero giornalista non può essere indifferente di fronte ai fatti, come riflessione sulle parole del Santo Padre propongo due testi che ho ricevuto questo pomeriggio.

Il primo testo, Oggi più che mai bisogna scriverla la verità, anche se così facendo si toccano i fili dell’alta tensione è dello Staff del Blog dell’Editore, che mi assiste nel mio lavoro di comunicazione.

Il secondo testo, Giornalisti cattolici, la necessità di un patto generazionale è a firma dell’amico e collega Andrea Gagliarducci – che sul tema ha sempre da proporre delle riflessioni non banali, alla scuola del suo mentore, il compianto vaticanista Benny Lai – pubblicato questa mattina sul suo blog in lingua italiana Vatican Reporting.

Oggi più che mai bisogna scriverla la verità, anche se così facendo si toccano i fili dell’alta tensione

Se il giornalista odierno dovesse scrivere le proprie idee soggettive dei fatti unite ai propri pregiudizi è meglio che prenda armi e bagagli e vada a fare qualcos’altro. Il giornalista, partendo dall’osservazione soggettiva deve necessariamente, attraverso un percorso di ricerca di verità, giungere a determinare i fatti attraverso le prove che supportano una verità oggettiva. Il giornalista che scrive in modo soggettivo è quel giornalista che tende a condizionare l’opinione pubblica attraverso il mezzo del suo ufficio facendosi strumento di menti raffinatissime, che usano il mezzo mediatico per “creare” notizie. Il giornalista in tal caso è più un burattino nelle mani del burattinaio, che crea la notizia su disposizione. Il giornalista degno di questo nome cerca, trova e verifica la notizia attraverso un minuzioso lavoro d’inchiesta. Alla fine di questo duro lavoro divulga la notizia di verità senza paura, con il coraggio che le attribuisce la sua professione nell’onestà di fatti incontrovertibili.

Il giornalista deve essere un segugio della verità, che segue il suo istinto di obiettività. La penna del giornalista non deve scrivere le sue idee o i suoi pregiudizi. La penna del giornalista deve scindere i sentimenti soggettivi dell’essere umano, con la professione giornalistica del comunicatore. Il giornalista deve scrivere la verità cercata, trovata e confutata da elementi incontrovertibili, emersi dal lavoro di verifica e di indagine. Se il giornalista non fa questo, non è un giornalista. Se non fa questo, è un opinionista e come tale può indicare le proprie idee e i propri pregiudizi.

Le parole contano. Le parole hanno un peso enorme, soprattutto se si parla di verità. Perché parlare di verità è pericoloso. La storia è piena di giornalisti martiri della verità. In che modo si può scrivere la verità? Solo ed esclusivamente se si ha l’umiltà di morire a sé stesso e di seguire la strada degli elementi di prova che supportano la narrazione della verità dei fatti. Se si fa questo con la determinazione di cercare e trovare questi elementi a tutti i costi, pagando anche di persona se necessario.

Cercare, trovare, scrivere/parlare e divulgare la verità è un processo lungo. In questo processo il giornalista è un comunicatore, un investigatore, un attento custode delle prove, che vanno rese comprensibili e divulgate ai lettori di ogni ordine e grado di istruzione. Il giornalista ha anche il compito di rendere “digeribile” la verità scoperta. Si tratta di un processo di difficile comprensione, poiché il mondo spesso è impreparato alla verità. Però, la verità è fondamentale per la crescita e per la libertà dell’essere umano, e per il futuro dell’umanità.

Conoscere significa sapere. Se l’essere umano è informato, è un essere umano libero di scegliere del proprio futuro, basandosi su elementi oggettivi, che possono aiutarlo ad essere migliore e a far diventare migliore il mondo nel quale vive, lavora e si esprime. Tutto ciò può farlo perché ha conosciuto la verità, l’ha assimilata, l’ha elaborata, l’ha fatta propria, grazie a chi in modo oggettivo e senza condizionamenti la verità l’ha cercata, trovata e divulgata con coraggio.

Se ogni barca sceglie il proprio capitano, possiamo dire che sono le notizie che scelgono i propri lettori e non viceversa. Se si scrive di verità, non si sceglie l’interlocutore a cui scrivere. Poiché sarà la notizia di verità stessa a scegliere il lettore attento e sensibile, che apprezza il gran lavoro d’inchiesta svolto che ha permesso alla notizia di verità di raggiungerlo e di toccargli l’anima. Lo sbaglio più grande che un operatore dei media può fare è sottovalutare l’intelligenza del lettore, pensando che lo stesso sia facilmente condizionabile e facilmente manipolabile. Questo è semplicemente fuori da ogni logica comunicativa, oltre a non essere un corretto uso dello strumento di comunicazione.

Il valore più alto al quale un giornalista o un comunicatore deve puntare l’attenzione è la visione oggettiva del mondo. Soprattutto la visione deve tendere all’imparzialità che servirà nel momento della ricerca della verità. Poiché solo con l’imparzialità unita alla visione oggettivamente devota alla lente si verrà condotti alla verità, sostenuta da prove incontrovertibili. Se un operatore della comunicazione pensa di detenere il “quarto potere” solo per il fatto di poter condizionare l’opinione pubblica, è meglio che vada a occuparsi di altro. Poiché sarà sempre una persona che tenderà ad imporre una verità soggettiva, che verrà prima o poi ribaltata.

Fino a prova contraria, i fatti contano di più dei tentativi di condizionamento dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica saprà sempre meglio distinguere la comunicazione che tende ad informare dalla comunicazione che tende a non comunicare e a condizionare. E l’opinione pubblica saprà regolarsi di conseguenza.

Ogni giornalista degno di questo nome ha le proprie fonti. Ciò che comunica una fonte va sempre verificato e analizzato. Nessuna fonte è portatrice assoluta del verbo. Un giornalista deve essere credibile, soprattutto se è cattolico. E se è cattolico e credente prima di tutto deve essere credibile. Come si diventa credibili? Si diventa credibili divulgando ai lettori la verità oggettiva, indicando gli elementi che hanno condotto a scoprire la verità. Lo sbaglio più grande che può fare un giornalista, è dare una propria lettura dei fatti senza morire a sé stesso e senza umilmente analizzare gli elementi oggettivi che conducono alla verità. Perché le notizie non si “creano”. Le notizie si cercano, si verificano e si raccontano con coraggio, attraverso la grande devozione all’osservazione obiettiva della lente.

L’unico patto che il giornalista e il comunicatore devono fare, è un patto con la propria coscienza rispetto alla verità oggettiva. Ma sappiamo bene che il compito più difficile nella ricerca della verità non è solo la ricerca della stessa, ma soprattutto – una volta che la verità è stata trovata – il valore aggiunto è che questa verità venga divulgata in modo incontrovertibile.

Abbiamo già in passato rivolto la nostra attenzione ai giornalisti, in particolare ai vaticanisti. Li abbiamo esortati a cercare e a divulgare la verità senza la paura di essere sanzionati, senza la paura di essere esclusi per un onesto lavoro da un volo papale. Se non ora quando? Oggi più che mai bisogna scriverla la verità, anche se così facendo si toccano i fili dell’alta tensione. Nessun Papa escluderà un giornalista che onestamente divulgherà la verità anche se scomoda. Non è mai troppo tardi per fare chiasso. Quel chiasso di verità che Roma ha sentito e mai dimenticherà.

Lo Staff del Blog dell’Editore
Domenica 24 gennaio 2021, San Francesco di Sales

Giornalisti cattolici, la necessità di un patto generazionale
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 24 gennaio 2021

C’è un passo del Vangelo che sembra non entrarci niente con il lavoro dei giornalisti, e che invece, secondo me, è particolarmente pregnante. È quel momento del Vangelo di Luca (14,26-27) in cui Gesù dice: “Se uno viene a me non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. E poi aggiungeva Gesù: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.

Ma chi sono i figli, la moglie, i fratelli di un giornalista? Beh, un giornalista ha la sua lettura delle cose, anche i suoi necessari pregiudizi. Ma quelli devono essere assolutamente messi da parte, quando si cerca di raccontare una storia. Perché una storia può sorprendere, perché le cose possono avere sfumature diverse, e per quanto le proprie letture possano essere stimolanti e belle, e magari anche calzanti secondo alcune logiche, non sono semplicemente vere. Una parola detta male racconta un mondo tutto diverso. E, spesso, quella parola viene detta male proprio perché si è così legati alla propria lettura che non si vuole perdere una allusione. È umano, è vitale, è normale. Ma non racconta la verità.

Mi veniva da pensare questo, mentre rileggevo il messaggio del Papa per la 55esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Socialiche si celebra il 24 gennaio, giorno di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. In particolare, Papa Francesco sottolinea che “voci attente lamentano da tempo il rischio di un appiattimento in ‘giornali fotocopia’ o in notiziari tv e radio e siti web sostanzialmente uguali, dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, ‘di palazzo’, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società”.

Questa è, dire il vero, una visione molto parziale della realtà. I giornali fotocopia esistono da tempo, così come da tempo esistono le agenzie fotocopia, ed esistono da ben prima della rivoluzione del web, che ha necessariamente cambiato anche i ritmi di produzione e di lavoro. Esistono perché si è sostituito alla ricerca della verità e dei fatti una sorta di patto di non concorrenza. Si ha più paura di prendere un “buco” – cioè, di mancare una notizia – che non di raccontare una storia che si discosti dalla narrativa generale.

Ma non c’è solo questo. Spesso, i giornalisti sono semplicemente impossibilitati a scrivere la verità come la vedono, perché viene loro richiesto di scrivere secondo il punto di vista del giornale, che sarebbe il punto di vista del direttore, che in generale diventa il punto di vista dell’editore. Si è rotta la fiducia tra giornalista e direttore, e da tanto tempo, perché si è deciso che i giornali debbano raccontare una visione del mondo, più che raccontare i fatti.

Non è una storia nuova, ed è normale che ogni giornale – ma sarebbe meglio dire medium, perché ormai la definizione include anche le molte testate web – voglia dare una visione del mondo. È il modo in cui si dà la visione del mondo che diventa cruciale. Si decide a priori quale è il pubblico da intercettare, e si scrivono cose che possano intercettare davvero quel pubblico. Anche io, quando scrivo per le agenzie americane o quando ho scritto in passato per quotidiani italiani, sono e sono stato sottoposto a processi di editing che, in fondo, cambiando la struttura delle frasi, non cambiano il pazzo ma ne tradiscono lo spirito, non permettono di far vedere le cose come davvero le ho viste io, o come sono riuscito a ricostruirle. Non sono il solo cui succede, e la fortuna di oggi è che ci sono spazi internet infiniti che permettono a tutti noi, poi, di chiarire quale sia davvero il nostro punto di vista.

Abbiamo l’idea – gli editori hanno l’idea, e i direttori di conseguenza – che si debba intercettare il pubblico di un certo tipo, e in nome di questo si modifica anche la lettura della realtà. Si dice, spesso, che è solo questione di linguaggio. Non è mai vero. Noi facciamo cose con le parole.

Nel suo messaggio, Papa Francesco prosegue affermando che “la crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più ‘consumare le suole delle scarpe’, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”.

Anche qui, è una lettura parzialmente vera. Non si tratta solo della crisi dell’editoria, si tratta di una logica del profitto che porta comunque tutti ad utilizzare la soluzione più semplice. Lavorare davanti ad un computer, per molti direttori, può essere lo stesso che stare sul posto. Ma è semplicemente perché non pensano ai grandi reportage, non pensano alla sfumatura che cambia davvero il senso di un pezzo. Stare sul posto dà profondità. Per molti, semplicemente non vale la pena. Tanto – dicono – il lettore a queste cose non sta attento. Meglio fare il minimo necessario massimizzando le risorse.

Non è solo una questione economica, è anche un problema di pigrizia. Un inviato, d’altro canto, prevede anche che si restauri quel patto di fiducia tra direttore e giornalista che spesso viene tradito. Un inviato vede le cose, un direttore sembra a volte decidere ciò che il giornalista vuole vedere. Un titolo viene considerato, a volte, più importante di una notizia stessa.

Papa Francesco ringrazia anche il “coraggio” di tanti giornalisti, che ci hanno permesso di conoscere “ad esempio, la condizione difficile delle minoranze perseguitate in varie parti del mondo; se molti soprusi e ingiustizie contro i poveri e contro il creato sono stati denunciati; se tante guerre dimenticate sono state raccontate. Sarebbe una perdita non solo per l’informazione, ma per tutta la società e per la democrazia se queste voci venissero meno: un impoverimento per la nostra umanità”.

Anche in questo caso, si tratta di una visione parziale. Spesso il problema non è conoscere le emergenze dimenticate, le storie che strappano il cuore e che ci mettono di fronte all’esistenza di un’altra umanità, che ci dovrebbe muovere a compassione e dovrebbe farci venire voglia di cambiare il mondo. Questo è facile, perché l’indignazione è un qualcosa che tutti sappiamo provare quando ci troviamo di fronte ad una guerra dimenticata o alla marginalizzazione dei poveri.

Il vero coraggio, però, consiste nel dire il perché di queste situazioni. Consiste nell’analizzare le strutture di peccato, nel mostrare le reti di corruzione, anche nel mettere in luce una mentalità che può essere fallace, e che può portare gravi conseguenze. Il coraggio significa vedere oltre le situazioni. Non si tratta solo di guardare de visu, si tratta di analizzare. Come se ci trovassimo di fronte alla diagnosi di una malattia: non dobbiamo capire cosa è, dobbiamo comprendere come ragiona la malattia, dove agisce, dove andrà a colpire, perché questa malattia possa essere guarita.

Tutto nasce, però, dal problema principale. Che essere giornalista non viene più visto come un servizio, ma viene più considerato come parte della narrativa del Quarto potere. Racconti mitizzati, come quello di Tutti Gli Uomini del Presidente, non fanno altro che raccontare che i giornalisti, in fondo, non sono altro che in balia delle loro fonti, e che le fonti li possono manipolare se questi non hanno il coraggio di guardare in maniera più ampia, di fare un passo indietro e rinunciare alla narrativa che hanno invece impostato – e che magari hanno anche impostato con coraggio, nessuno lo mette in dubbio.

E questo porta al corollario che a direttori ed editori, spesso, non interessa il punto di vista dei giornalisti, ma si aspettano che i giornalisti raccontino quello che vedono loro. E spesso i direttori hanno solo deciso che un notiziario vada in una direzione, non hanno consumato la suola delle scarpe.

Nel giorno di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti proprio perché attraverso una sorta di free press (volantini distribuiti gratuitamente) combatteva la riforma calvinista a Ginevra, credo sia il caso di lanciare un patto generazionale per i giornalisti cattolici che hanno la mia età, e che si sono trovati stretti tra una generazione di mezzo che, in fondo, è frutto delle grandi ideologie politiche del Sessantotto e nel mondo cattolico della grande stagione dei movimenti, e la generazione che segue, che invece ormai è fatta di persone che “fanno le notizie”, non di persone che leggono le notizie, di comunicatori piuttosto che di giornalisti che sappiano essere mediatori della realtà. Tutti, oggi, possono fare i giornalisti, ma è difficile essere giornalista.

Il nostro patto generazionale deve essere questo: che sappiamo prediligere l’analisi alla notizia, la storia al commento; che comprendiamo che il lettore non è solo quello che cerca testi brevi, e che anzi si può costruire un lettore nuovo, un lettore attento, e che quello è parte della nostra missione; che, una volta che prenderemo responsabilità, formeremo giornalisti in grado di raccontare ciò che vedono con coraggio, e non imporremo mai il nostro punto di vista. Dobbiamo essere plurali, e dobbiamo comprendere l’esigenza di studiare. Dobbiamo rimettere le chiavi della storia nel racconto giornalistico. Dobbiamo evitare propaganda e personalizzazioni, imparando a raccontare (e non mitizzare) le persone e non i personaggi.

Vale, soprattutto, per il giornalismo che fa informazione religiosa. Perché, in fondo, se non riusciamo a farlo con l’informazione religiosa, non siamo in grado di farlo con nessuno. E i grandi santi giornalisti (da padre Massimiliano Kolbe a padre Adolf Kajpr) raccontano quanto davvero sia pericoloso un giornalista che racconti la Verità. Senza fronzoli, senza cercare narrative, che sono il vero virus dell’informazione oggi.

Se riusciremo a mettere in atto questo patto generazionale, potremo avere un nuovo giornalismo. Un giornalismo approfondito e veloce, consapevole che a volte è meglio dopo che bene, ma prima e imprecisamenteUn giornalismo che sappia riconoscere la costruzione del consenso, e la sappia ignorare. Un giornalismo che sappia non essere attivista, ma piuttosto sappia essere mediatore tra la realtà e il lettore.

Se riusciremo a farlo per l’informazione religiosa, riusciremo ad avere un nuovo punto di vista. Non acciaccato sulle persone, ma che respira con l’ampiezza delle idee. E che, nel caso del giornalismo cattolico, possa respirare a pieni polmoni l’universalità data dalla Chiesa cattolica. Una universalità che va al di là di ogni Papa e di ogni prete di strada; ma anche al di là di ogni episodio di corruzione e da ogni edificante storia di santità.

E riusciremo a farlo solo se odieremo nostro padre e nostra madre, ovvero i nostri legittimi pregiudizi con i quali ci approcciamo ad ogni cosa, perché in fondo nessuno di noi nasce dal nulla, ma tutti sono frutto di una vita che porta idee e schemi mentali.

Ecco, questo deve essere il nostro patto generazionale. Sperando che non sia troppo tardi per costruire il futuro.

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