Con il senno di poi, leggere quanto scritto un secolo fa da Enaudi contro l’abuso dello strumento dei decreti legge. Vox clamantis in deserto

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Riporto un articolo a firma di Angelo Maria Petroni “Libertà e responsabilità per il buon governo” pubblicato sul Sole 24 Ore il 30 ottobre 2011 in riferimento al pessimismo di Luigi Enaudi per “l’irrigidimento della società economica” causato dal proliferare di quelli che egli chiamava “municipalizzatori, statizzatori, socializzatori”. Quanto segue, scritto un decennio fa su quanto esposto da Enaud un secolo fa, anche se letto con il senno di poi [*], fa almeno capire come siamo potuto arrivare ad oggi. E dove siamo arrivato, per chi non lo sapesse, l’ha descritto con la lucidità che lo distingue il filosofo, scrittore e giornalista Marcello Veneziani [L’Anticasta ha aperto il parlamento come una scatola di tonno: il tonno è sparito, è rimasto il residuo gelatinoso e al potere c’è la Feccia con i traffichini, al posto della Casta con i faccendieri – 18 novembre 2020].

“Il primo regime sanitocratico della storia, che ha messo la ‘salute prima di tutto’, è stato quello nazional socialista” (Marco Gervasoni).

Costante rimase in Einaudi l’idea della irriducibilità della dimensione politica all’accordo corporativo da un lato e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall’altro. Riferendosi alle tendenze di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti legge, egli affermava: “Diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell’esecuzione. A legiferare essi sono disadatti, perché guardano ad un solo aspetto della questione; mentre anche nelle questioni più minute, bisogna guardare al complesso” (Luigi Einaudi, “Contro gli abusi dei decreti legge in difesa del parlamento”, Il Corriere della Sera, 6 settembre 1921).

Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) è stato membro dell’Assemblea Costituente e il secondo Presidente della Repubblica Italiana. Intellettuale ed economista di fama mondiale, accademico, politico e giornalista, è considerato uno dei padri della Repubblica Italiana. Magari ne fosse uno come lui al Quirinale oggi.

«Einaudi giunse a teorizzare l’esistenza di un “punto critico” di non ritorno, diverso per ogni società, eppure esistente per ognuna di esse, oltrepassato il quale il prevalere dello spirito egualitaristico e del dirigismo economico mettevano in pericolo “l’esistenza medesima della libertà dell’uomo”. Einaudi riteneva che quel “punto critico” fosse già stato toccato dall’Italia degli anni Cinquanta.

Questa opposizione alle ideologie egualitariste non significa che Einaudi fosse insensibile a quella che, nel periodo della sua gioventù, veniva chiamata “la questione sociale”. Tutt’altro. Il giovane Einaudi ebbe ad esempio in grande favore le leghe operaie, e la loro funzione di “riscatto” delle classi povere. Le leghe esprimevano infatti la concreta volontà di elevare la propria posizione attraverso l’etica del sacrificio e del risparmio. Einaudi esaltò sempre il ruolo positivo della dialettica sociale, “la bellezza della lotta”, come egli scrisse nel 1924 in polemica sia con il sorgere del corporativismo fascista sia con le visioni tecnocratiche. E se fu contrario alle ideologie egualitariste di matrice socialista Einaudi, seguace in questo del radicalismo di John Stuart Mill, considerò che principio fondamentale della concezione liberale della società fosse l’eguaglianza nei punti di partenza tra tutti gli individui. Dal che discendeva, tra le altre cose, il suo essere favorevole a significative imposte di successione.

Allo stesso modo, diversamente da molti economisti liberali, Einaudi non riteneva che il paradigma dell’homo oeconomicus potesse e dovesse escludere ampi e sistematici interventi in materia di politica sociale. Permettetemi di ricordare soltanto un passo del 1944: “in una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari delle industrie rischiose sarebbero più alti e i lavoratori accantonerebbero di più. Poiché gli uomini non sono né perfetti, né previdenti, giova che l’assicurazione sia obbligatoria”. Einaudi liberale e liberista non fu mai contro lo Stato. Non lo fu innanzitutto proprio per ragioni fondate sulla scienza economica. Come egli scrisse nel 1919, “il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra la più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività”.

Einaudi economista fu antieconomicista nel negare che la vita sociale e politica possa essere interamente ricondotta alla produzione e alla distribuzione economica. Lo fu nel duplice senso di opporsi alle tesi marxiste nelle loro diverse versioni, e nel negare che il benessere generale fosse la pura somma degli interessi individuali. I diversi e spesso contrastanti interessi individuali sono resi compatibili dall’esistenza dello Stato, il quale – come Einaudi affermò efficacemente – non è “una mera società per azioni”. Ma lo Stato che Einaudi reputava così necessario era cosa ben diversa dallo Stato come esso si era venuto affermando dalla fine della Belle époque, si era strutturato nel ventennio fascista, ed era per molti aspetti trapassato nell’Italia del dopoguerra: lo Stato neocorporativo.

Egli aveva compreso chiaramente sin dagli inizi del Novecento un fenomeno che le democrazie liberali del secondo dopoguerra avrebbero poi manifestato in tutta la sua ampiezza, cioè che l’interesse generale di una nazione non corrisponde affatto alla pura sommatoria ed alla collusione degli interessi delle singole categorie professionali e dei gruppi sociali ed economici. Il vero interesse generale può essere perseguito soltanto attenendosi a principi e a regole universali.

Costante rimase in Einaudi l’idea della irriducibilità della dimensione politica all’accordo corporativo da un lato, e alla gestione tecnocratica della cosa pubblica dall’altro. Riferendosi alle tendenze già evidenti nell’età giolittiana, ovvero di trasferire la legiferazione agli esperti, spesso utilizzando lo strumento dei decreti legge, egli affermava: “Diciamolo alto e forte, senza falsi pudori e senza arrossire: la potestà legislativa deve spettare esclusivamente al corpo ‘generico’. Alla Camera presa nel suo complesso, anche se incompetente nelle singole questioni e nei singoli suoi membri. Legiferare vuol dire stabilire dei principi e delle regole di condotta. A farlo non sono competenti gli specialisti e i ‘competenti’. Costoro hanno un ben diverso compito: quello dell’esecuzione”. Ammiratore della tradizione cosiddetta “realistica” della scienza politica italiana, ed in particolare di Gaetano Mosca, Einaudi condivideva la massima che gli stati non si governano con i paternostri. Ma egli non volle mai condividere le tesi di chi da ciò traeva la conclusione che la morale dovesse essere bandita dalla politica. Erano infatti per lui i valori morali quelli che, a lungo termine, permettevano la libertà e la prosperità delle nazioni» (Angelo Maria Petroni).

[*] Con l’espressione proverbiale “del senno di poi son piene le fosse” si vuole indicare l’inutilità della previsione del passato a coloro che dopo un determinato avvenimento dicono quello che si poteva o non doveva fare, ma si indica ugualmente la capacità di valutare un evento, una situazione solo a posteriori quando ormai è troppo tardi ed è del tutto inutile.
Ancora ieri abbiamo ricordato “vox clamantis in deserto”, letteralmente “la voce di colui che grida nel deserto”, riferibile a persona i cui consigli rimangono inascoltati.

”Del senno di poi ne sono piene le fosse”, fa dire Alessandro Manzoni a Don Abbondio ne I Promessi Sposi. E mai, come in questi tempi, dove la paura del contagio assedia l’Italia, che deve fare i conti con decini di migliaia di morti di persone e di centinaia di migliaia di imprese, con una povertà dilagante, questo proverbio, che Don Lisander affidò al sacerdote entrato nella storia della letteratura non certo per il coraggio, torna d’attualità.

Il perché è semplice e sta nel fatto che tutti, indistintamente, al di là del cursus honorum che si portano dietro, si sentono abilitati a dire la loro e più delle volte a sproposito e senza conoscenza e comprendio. A dire la loro anche davanti alla tragicità del periodo, quando forse prudenza ed equilibrio consiglierebbero di tenere la bocca chiusa. Non è così ed allora l’Italia, dopo essere stata terra di santi, poeti e navigatori, ora lo è anche di virologi, di infettivologi, di epidemiologi.

E mentre tutti si sentono abilitati a sciorinare la loro, chi dal caso è stato portato a governare in questo storico momento, che necessità altri personaggi che ‘a schifezza ra schifezza ra schiefezza ra schifezza ‘e l’uommene, dovrebbe capire che un Paese si guida, non si imbonisce con dei balconazo, non si governa con dei decreti leggi (e peggio ancora, dei providimenti amministrativi come i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri), accompagnati da modi e metodi dittatoriali, ma con rettitudine, professionalità, serietà e senso del bene comune. Lo osservò già all’inizio dell’aprile scorso Romolo Martelloni, esperto di tematiche politiche, sociali, storiche e di geopolitica, Presidente del Centro Studi Politici Criticalia e Direttore della rivista Fly Orbit News.

E se come non bastasse, ci sono di mezzo anche i miliardari dei social network a limintare le nostre libertà, con quella più cruciale, la libertà di pensiero e di espressione.

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