I miliardari dei social network, un pericolo per la democrazia ben prima del caso Trump. Wikipedia invece, una splendida ventenne

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Proponiamo alla riflessione degli attenti lettori, due contributi da Il Punto, la newsletter del Corriere della Sera di ieri, 12 gennaio 2021. Nel primo l’editoralista Gianluca Mercuri tratto del fenomeno di Wikpedia, “la cosa più fedele allo spirito originario di Internet. Nel secondo Elena Tebano fa un’analisi dello “immenso potere delle grandi multinazionali tecnologiche” che “è un pericolo per la democrazia”, sottolineando quanto abbiamo già evidenziato più volte nella nostra copertura sulla censura nei social network, che il problema è presente ben prima del caso Trump. La problematica è scissa dai comportamenti del Presidente degli Stati Uniti d’America.

La cosa più fedele allo spirito originario di Internet: perché Wikipedia è una splendida ventenne
di Gianluca Mercuri, Editorialista
Il Punto | la newsletter del Corriere della Sera
12 gennaio 2021

A Diderot sarebbe piaciuta o no? Sì, si può convenire con l’Economist (d’altronde in questa newsletter ci capita spesso): il «promotore, direttore editoriale ed editore dell’Encyclopédie» – come da didascalica definizione nella voce a lui dedicata in italiano – sarebbe stato «deliziato» da Wikipedia, la versione 2.0 dell’immenso dono all’umanità fatto dall’Illuminismo nel ‘700: perché se il filosofo francese voleva che la sua opera «assemblasse tutta la conoscenza sparpagliata sulla faccia della Terra», l’enciclopedia online ha lo stesso obiettivo, lo stesso slancio divulgativo e umanitario. La stessa meravigliosa ispirazione democratica.

E allora buon compleanno Wiki, che nascevi il 15 gennaio 2001. È bello immaginarti come una ragazza africana di vent’anni (poi vedremo perché), che studia, s’informa, diventa esperta di qualcosa e dedica tempo e sforzi a informare su qualunque argomento chiunque ne abbia voglia, con un semplice clic. I clic in questi due decenni sono stati tanti, rendendo il sito – con i suoi 55 milioni di articoli scritti solo da volontari in 300 lingue – il tredicesimo più visitato del mondo. Una ragazza umile che sa di non essere infallibile, Wiki, e infatti non si considera una reliable source, una fonte affidabile, e lo fa presente in modo molto chiaro. Ma proprio per questa sua onestà di fondo, e per l’incredibile contributo che dà alla diffusione di ogni forma di sapere, Wikipedia può considerarsi la cosa più fedele al suo spirito originario mai prodotta da Internet. Il luogo più vicino alla promessa di una Rete a disposizione delle persone comuni, «perché potessero usare i loro computer come strumenti di liberazione, istruzione ed elevazione», culturale e sociale.

Il tutto, in una sfida permanente alla ricetta per il successo della Silicon Valley: niente azionisti, niente pubblicità, niente miliardari che ci costruiscono fortune gigantesche, niente economie di scala ma una crescita enorme e organica, in un work in progress senza fine. Nata tra lo scetticismo generale – fino a qualche anno fa un intellettuale che la raccomandasse veniva additato dai critici come «un dietologo che consigliasse McDonald’s» – ora Wiki ha una reputazione molto più solida di social e piattaforme tecnologiche screditati da anni di fake news, complottismo e violenza dilaganti, propaganda politica occulta e dati personali estorti. Al punto che Toby Negrin, il chief product officer della fondazione di San Francisco che fornisce l’infrastruttura del sito, può definirlo «guardiano della verità» senza il timore di farsi ridere dietro. Basti pensare che, in piena pandemia, l’Organizzazione mondiale della Sanità l’ha scelta come veicolo principale per contrastare l’infodemia sul Covid, partendo dalla presa d’atto che Wiki rappresenta la fonte principale di informazione per i pazienti ma anche per i medici.

È un miracolo economico, fondato unicamente sulle donazioni delle associazioni benefiche e dei singoli utenti: il giornale inglese lo paragona alla genitorialità e al lavoro domestico come servizio non retribuito ma dal valore incalcolabile per il suo impatto sociale.

Ma è anche un miracolo di accuratezza, nonostante le preoccupazioni originarie, gli errori, gli scherzi dei buontemponi, gli scandali occasionali. Già nel 2005 uno studio di Nature aveva appurato che il livello di precisione non era troppo dissimile dalla leggendaria Enciclopedia Britannica. Come è stato possibile? La garanzia principale è la sua stessa diffusione immensa, per cui un errore viene facilmente rintracciato da qualcuno in grado di correggerlo. E poi, il fatto che «aggiungere un paragrafo», a differenza delle enciclopedie «vere», non costa nulla: così si può agilmente compensare un punto di vista con un altro ed evitare squilibri politico-ideologici.

Ma al fondo c’è la purezza dell’idea, il fatto che il suo obiettivo non sia il guadagno di qualcuno, ma l’imparzialità e l’accuratezza. Gli algoritmi dei social servono a far aumentare il tempo che ci sprechiamo su, quindi a vendere più pubblicità. Quelli di Wiki servono a monitorare il più possibile i contenuti contro sviste e manipolazioni. Nelle ultime presidenziali Usa, ogni voce poteva essere aggiornata solo da chi avesse un account da editor da almeno un mese e con almeno 500 interventi a suo nome.

Insomma, nota l’Economist, gran parte del successo di Wikipedia si deve «alla cultura che i suoi utenti hanno creato», e che in questi vent’anni è stata tramandata e rafforzata: secondo la ceo Katharine Maher, nell’Internet di oggi, così frammentato e orientato alla commercializzazione, un sito del genere non potrebbe nascere, ma per fortuna è già nato e quella cultura originaria lo preserva. Una cultura che fa appello alla natura umana, dice Maher, perché «alla gente piace avere ragione e mostrare la sua competenza». Da questo punto perfino gli errori rafforzano il sito, perché invogliano a interventi riparatori. Ma per sopravvivere e crescere, chiaramente, anche Wiki ha bisogno di aggiornarsi: nata per essere usata sui computer, si sta adeguando all’era dello smartphone con tools adatti al micro-editing, interventi chirurgici e non più solo articoli lunghissimi, in modo da invogliare sia i giovani sia chi vive nei paesi meno avanzati, dove i cellulari sono molto più diffusi dei pc.

È un fronte decisivo, perché il limite principale di Wikipedia è il fatto di essere troppo maschile e troppo occidentale: l’80 per cento dei contributor sono uomini e vivono in America e in Europa. Per questo è bello immaginare la Wiki ventenne come una ragazza africana, o asiatica o sudamericana: la fedeltà alla sua missione di emancipazione si gioca tutta lì, e Diderot ne sarebbe molto contento. Come dice l’Economist, in Occidente Wikipedia è una comodità, nel resto del mondo una rivoluzione.

L’immenso potere delle grandi multinazionali tecnologiche è un pericolo per la democrazia. Ben prima del caso Trump
di Elena Tebano
Il Punto | la newsletter del Corriere della Sera
12 gennaio 2021


La decisione di Twitter e Facebook di espellere il presidente statunitense Donald Trump dalle loro piattaforme, di fatto silenziandolo, ha suscitato allarme in tutto il mondo perché ha reso evidente il potere in mano alle grandi multinazionali della tecnologia. È successo perché le due aziende questa volta lo hanno esercitato su una libertà politica tradizionale, quella di espressione. Ma è un allarme tardivo, che non coglie il fulcro del vero potere delle nuove tecnologie e delle società che le controllano, aziende per definizione non democratiche (perché rispondono a logiche diverse dalla democrazia, quelle del profitto, e dipendono dai loro proprietari, non dalla sovranità popolare). Le grandi corporazioni tecnologiche già da tempo prendono decisioni politiche mascherandole da decisioni tecniche, senza che possano venir sottoposte allo scrutinio democratico. Per questo, se vogliamo davvero salvaguardare le libertà fondamentali al cospetto dell’attuale evoluzione tecnologica, dobbiamo cambiare radicalmente il modo di guardare il rapporto tra tecnologia e politica.

Una delle analisi più lucide sulla questione è quella di Kevin Roose sul New York Times, che scrive: «Nessun pensatore serio crede che Twitter e Facebook, in quanto aziende private, siano obbligate a dare una piattaforma a qualsiasi utente, così come nessuno dubita che il proprietario di un ristorante possa sbattere fuori un cliente indisciplinato per aver fatto una scenata». In questo senso ha ragione Beppe Severgnini quando sul Corriere spiega che i due social avevano tutto il diritto di bandire Trump, perché il presidente ha violato le loro regole, causando un pericolo enorme per il popolo americano. Anzi, le due società avevano persino il dovere di impedirglielo. «Ma ci sono domande legittime sul fatto che una piccola manciata di dirigenti tecnologici non eletti, responsabili solo nei confronti dei loro consigli di amministrazione e dei loro azionisti (e, nel caso di Zuckerberg, di nessuno dei due) debba esercitare un potere così enorme – continua Roose -. Queste azioni sollevano anche questioni a lungo termine, come ad esempio se i modelli di business delle aziende dei social media siano fondamentalmente compatibili con una sana democrazia, o se una generazione di politici dipendenti da Twitter può mai disimparare la lezione che l’accumularsi di retweet è un percorso più sicuro verso il potere che governare in modo responsabile».

Queste piattaforme, che sono diventate indispensabili tanto per la politica che per l’interazione tra cittadini, hanno già una valenza politica, che esercitano quotidianamente su una scala senza precedenti. Uno dei principi base del loro funzionamento, per esempio, è massimizzare le interazioni e il tempo passato online da parte dei loro utenti. È un obiettivo economico e commerciale, ottenuto tramite una impostazione tecnica (algoritmi che rendono più visibili i contenuti che generano più reazioni, cioè di solito quelli più controversi) e ha immediate conseguenze politiche: dare grandissima visibilità nell’opinione pubblica virtuale – i social dove stiamo quasi tutti – alle frange più conflittuali ed estremistiche. L’Alt Right, i cospirazionisti di QAnon e simili si sono diffusi sfruttando moltissimo questo meccanismo. Per esempio su YouTube. Ormai i politici e i loro consulenti di comunicazione lo sanno e se ne approfittano a ogni occasione, come dimostra il famoso tweet del leader della Lega Matteo Salvini sulla Nutella (spiegato qui dall’esperto di comunicazione digitale Matteo Flora).

Donald Trump è potuto diventare Trump anche grazie al funzionamento “tecnico” dei social. «Nel 2009, quando è entrato per la prima volta in Twitter, Trump era una star dei reality in cerca di attenzione, e Twitter era un social network nascente che aveva bisogno di celebrità di alto profilo per attirare la crescita – ricorda Roose -. Le riflessioni senza filtri di Mr. Trump si sono rivelate essere un tesoro di interazioni per Twitter, che ha raccomandato i suoi tweet a milioni di nuovi utenti attraverso i suoi algoritmi».

Per massimizzare i loro profitti i social hanno già cambiato i temi e soprattutto i toni del dibattito pubblico. Il loro fine non era politico, ma il risultato è senza dubbio politico.

L’altro grande ambito di azione politica delle aziende tecnologiche è la profilazione degli utenti, la raccolta di una mole gigantesca di dati che permette di prevedere (e dunque di influenzare) i loro comportamenti, come ha dimostrato lo scandalo di Cambridge Analytica. Anche in quel caso il problema è diventato evidente perché le aziende tecnologiche hanno usato il loro potere per interferire in un campo tradizionale della politica: la scelta dei destinatari della pubblicità elettorale. Ma sono le forme meno tradizionali del loro potere quelle più pericolose. Per esempio il fatto che a Facebook basti introdurre un badge (una specie di bollino) «io ho votato» con cui gli utenti possono segnalare ai loro contatti che sono andati al seggio per far aumentare enormemente l’affluenza a un’elezione. Inutile dire che se quel bollino viene mostrato di più alla popolazione di un determinato convincimento politico e meno a quella di idee opposte i risultati di un’elezione cambiano (vale per qualsiasi contenuto, per altro).

I social teoricamente possono farlo, perché grazie alla profilazione degli utenti sanno tutto di loro: dall’orientamento politico a quello sessuale. È questa concentrazione di conoscenza e insieme capillarità a essere pericolosa. Il fatto che una manciata di social network sia diffusa in tutto il mondo (con poche eccezioni, come la Cina) ed abbia la possibilità cambiando i suoi algoritmi di influenzarne la popolazione ben oltre i governi nazionali dà un’idea dell’immensità del loro potere.

C’è un altro esempio recente che mostra come i social mascherino da decisioni tecniche decisioni politiche. Mi riferisco a quanto avevo segnalato su questa newsletter a maggio dell’anno scorso: il fatto che tutti i Paesi del mondo abbiano dovuto adeguarsi alla decisione di Apple e Google di far funzionare le app per segnalare i contagi da Sars-Cov-2 (come Immuni) tramite il bluetooth. In quel modo le due aziende hanno imposto ai governi che i dati di contatto fossero raccolti e memorizzati solo sui telefoni degli utenti, e non sui server dei singoli governi. Così si sono garantiti il monopolio sulle informazioni di localizzazione. Lo hanno giustificato sostenendo che in questo modo difendevano la privacy degli utenti. Ma era la privacy rispetto al potere politico tradizionale, non rispetto alle aziende tecnologiche che hanno continuato come al solito a raccogliere moltissimi dati (compresa la geolocalizzazione, tramite numerose app). E soprattutto hanno potuto farlo indipendentemente dalle decisioni di ogni singolo governo.

Dopo il silenziamento di Trump su Twitter e Facebook, l’estrema destra cospirazionista americana si è riversata su un altro social network, Parler, che ha politiche più blande nei confronti della violenza e quindi avrebbe permesso loro di continuare con i consueti incitamenti alla violenza e alla sedizione. Adesso tutto Parler è stato silenziato, grazie ad Amazon che con il suo Amazon Web Services ne ospitava i server. E ha deciso di non fornirgli più il servizio.

Amazon Web Services ospita anche i server della Cia, oltre che di innumerevoli aziende private. Non è un editore, ma un fornitore di servizi internet e ha tutto il diritto di scegliersi i clienti che vuole, in base alle regole che preferisce. Ma se è il principale fornitore di questo tipo di servizi ha un potere enorme, anche su un apparato fondamentale dello Stato (americano) come i servizi segreti. In più sa moltissimo di tutti noi che usiamo la sua piattaforma per gli acquisti online o quella per guardare film e serie tv. Di nuovo, una concentrazione di potere e conoscenza senza precedenti: la stessa che le permette di avere vantaggi economici enormi, per esempio producendo a suo marchio i prodotti che i suoi clienti comprano di più da aziende concorrenti (e solo quelli).

Il fatto che i confini tradizionali tra economia e politica sono cambiati, perché l’industria digitale ha una capacità senza precedenti di influenzare i comportamenti delle persone e trarne profitto. Per impedire che questo potere possa essere abusato servono prima di tutto contromisure economiche: per esempio impedire l’accentramento di attività in poche aziende e l’accumulo di dati di provenienza diversa (se hai i dati di Whatsapp non puoi incrociarli con quelli di Facebook o di Amazon). Il buon vecchio anti trust, insomma. E poi una riflessione sul tipo di contenuti e sulla neutralità solo apparente delle piattaforme. Non basterà, ma è un primo passo.

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