Trattativa Stato-Mafia. Non smettiamo di pretendere la verità

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Il 5 gennaio è un giorno importante e simbolico.
Ecco perché lo Staff del Blog dell’Editore ha lavorato stanotte, per riuscire a farmi dare in data odierna, 5 gennaio 2021 il pezzo che segue. Un giorno questo, che non vogliamo far passare inosservato, per tutti i siciliani onesti, per ricordare il giorno di nascita di Peppino Impastato e il giorno dell’assassinio di Pippo Fava, uomini del giornalismo e della comunicazione libera contro le mafie.
Il 5 gennaio 1948 a Cinisi nasce Peppino Impastato. Cosa si può dire di Peppino che non si sa già? Barbaramente e vilmente ucciso la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 su ordine di Tano Badalamenti, continua a vivere attraverso le sue idee, sempre attuali.
Il 5 gennaio 1984 a Catania viene assassinato il giornalista Pippo Fava.
Il 5 gennaio 2007 a Trapani viene ucciso Antonino Via, un giovanissimo lavoratore che corso in difesa di un collega in balia di alcuni rapinatori. Per porre in essere il loro criminoso intento, non esitavano a far fuoco contro Nino, ferito a morte in un largo prospicente il luogo di lavoro, a lui adesso intitolato.
Onore ai nostri grandi conterranei siciliani, caduti per un mondo migliore.

«Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente!» (Peppino Impastato, giornalista assassinato dalla mafia, nato il 5 gennaio 1948).

«Amico mio, chissà quante volte tu hai dato il tuo voto ad un uomo politico così, cioè corrotto, ignorante e stupido, sol perché una volta insediato al posto di potere egli ti poteva garantire una raccomandazione, la promozione ad un concorso, l’assunzione di un tuo parente, una licenza edilizia di sgarro. Così facendo tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i parlamenti e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiritualmente più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società. Di tutto quello che accade oggi in questa nazione, la prima e maggiore colpa è tua» (Pippo Fava, giornalista assassinato dalla mafia il 5 gennaio 1984).

Ieri, lo Staff mi aveva segnalato il programma di Report alle ore 21.20 su RAI 3, sulla Trattativa Stato-Mafia, oggetto del processo penale in atto al Tribunale di Palermo: “Report stasera è imperdibile”. Sanno che guardo la televisione quasi mai. Ma ieri notte, ho fatto un’eccezione. Ho seguito Report e mi sono sentito in profondo imbarazzo, di fronte a tanti dati che bucano il silenzio, che uccide come la mafia. Come disse Peppino Impastato.

Il lettore che ieri ha scritto “Report racconta sempre una parte dei fatti”, commentando l’annuncio della puntata di Report, sul mio diario Facebook, può stare sereno e fare sogni tranquilli. Tutto ciò che è stato trattato da Report questa notte, sono le risultanze e le evidenze delle sentenze del processo di primo grado sulla trattativa Stato-Mafia; del processo Bagarella; del processo sulla strage di Capaci; del processo sulla strage di via D’Amelio (1, 2, 3 e quater); dei vari processi sui depistaggi, che sono tutt’ora in atto; del processo “n’drangheta stragista”. Sul sito di Radio Radicale vi sono le centinaia di ore di audio-registrazione di detti processi.

Il grande lavoro di Report presentato questa notte, a nostro giudizio è uno dei lavori giornalistici più approfonditi, arguti, completi ed esaustivi mai fatti sul tema. Sottolineiamo, che Report questa notta ha mandato inoltre in onda la dichiarazione esclusiva di Salvatore Baiardo, che smonta la tesi dell’avvocato e politico padovano Nicolò Ghedini che nega gli incontri avvenuti tra il boss Graviano, Berlusconi e Dell’Utri. Palermo, Caltanissetta, Firenze, Roma, Reggio-Calabria e Catania le procure coinvolte. Ricordiamo a margine, le dichiarazioni di Ghedini in difesa di Silvio Berlusconi, che hanno suscitato non poche polemiche, come quella in cui sostiene che la legge non si applica necessariamente allo stesso modo per tutti i cittadini (Lodo Alfano, Ghedini: «L’applicazione della legge non è uguale per tutti», Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2009). L’occasione era il dibattito sulla costituzionalità del Lodo Alfano, che avrebbe garantito la sospensione dei processi penali – ferme restando le fasi precedenti il rinvio a giudizio e le indagini improcrastinabili – alle quattro più alte cariche dello Stato.

Una su tutti. Alla domanda del giornalista di report sulla Trattativa Stato-Mafia l’Onorevole Claudio Martelli  – Ministro di grazia e giustizia dal 2 febbraio 1991 al 10 febbraio 1993, nel Governo Andreotti III e nel Governo Amato I – risponde, che la Trattativa è opera di organi dello Stato, attribuendo la responsabilità al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, facendo il nome e il cognome di quest’ultimo.

La lettera: QUI.

Pare che questa lettera, scritta dai detenuti mafiosi e le loro famiglie, nel 1993 sia stata portata al Presidente Scalfaro personalmente dal Capo cappellani delle carceri Monsignor Cesare Curioni e da Don Fabio Fabbri (Trattativa, cappellano in aula: “Un amico dei servizi mi ha sconsigliato di deporre” – Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2015, episodio emblematico, anche se normalmente sacerdoti chiamati a deporre vengono consigliati dai loro ordinari di “sapere tutto ma di non ricordare”). Fatto è, che sotto casa di Scalfaro nel giugno del 1993 vi erano questi due cappellani delle carceri. Pare anche, che abbiano avuto un ruolo nella questione della sostituzione del Capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (DAP), il Dott. Nicolò Amato (ritenuto dai mafiosi troppo duro) e stranamente dopo la sostituzione di Amato viene annullato il regime di carcere duro (41bis) a 300 detenuti, dall’allora Ministro di giustizia succeduto a Martelli nel 1993, Giovanni Battista Conso (Torino, 23 marzo 1922 – Roma, 2 agosto 2015), giurista e accademico, già presidente della Corte costituzionale nonché Ministro di grazia e giustizia nel Governo Amato I (12 febbraio – 28 aprile 1993) e nel Governo Ciampi (28 aprile 1993-16 aprile 1994).

La puntata Report di ieri sera è stato una puntata straordinaria, che lascia il segno e dovrebbe prendere posto di ogni libro di storia dei programmi scolastici di questa Nazione. È stato impressionante, l’enorme lavoro svolta dalla redazione di Report, che mette in luce le gravi mancanze di apparati dello Stato.

Un membro dello Staff, che da anni segue le vicende di Mafia, mi ha confessato questa mattina, che ha avuto difficoltà a seguire questa puntata di Report, visto le emozioni che suscitavano in lui le immagini e le testimonianze. Il materiale a riguardo che ha raccolto è veramente tanto, anche perché sono passato quasi 30 anni dai fatti del 1992 a Capaci e in via D’Amelio a Palermo.

Oggi sappiamo anche
che la prospettiva è capovolta,
definitivamente.
Non ha vinto chi pareva che avesse vinto.
Non ha vinto chi ha fatto uccidere vigliaccamente

e non ha vinto chi ha ucciso barbaramente.

La foto (dal profilo Facebook della figlia Luana) ritrae Ilardo che incontra San Giovanni Paolo II al carcere di Rebibbia in visita ai detenuti.

«Quando moriremo,
nessuno ci verrà a chiedere
quanto siamo stati credenti,
ma credibili»
Rosario Livatino

Alla luce della futura beatificazione del Servo di Dio Rosario Livatino, Magistrato assassinato dalla Stidda ad Agrigento il 21 settembre 1990 (il 21 dicembre 2020 Papa Francesco ha promulgato il decreto con il quale se ne riconosce il martirio in odium fidei), ricordiamo la figura di Luigi Ilardo, mafioso siciliano pentito, “convertito” seriamente e divenuto uomo delle istituzioni. Ilardo ha condotto gli inquirenti – già 10 anni prima dell’arresto di Provenzano – al covo di Mezzojuso.

Ma Provenzano non si doveva arrestare. E, infatti, non verrà catturato. Una latitanza lunga 43 anni. Un vero e proprio record criminale e parastatale, mentre è in corso la schifosa Trattativa Stato-Mafia. Dopo aver stretto collaborazione e amicizia con il Colonnello Michele Riccio del ROS, dopo aver messo a verbale davanti al giudice Caselli la sua volontà di collaborare con le istituzioni, rientrando in Sicilia Luigi Ilardo è stato assassinato. Fu assassinato per aver voluto riscattare la propria vita e, quindi, lo consideriamo “martire della lotta alla mafia”. Il Colonnello Riccio è testimone oculare di che persona era Ilardo («Ilardo, di fronte a Mori, di getto dice: ‘Guardi, che molti attentati attribuiti a Cosa nostra sono stati voluti dallo Stato. E noi ne abbiamo subito le conseguenze’»), di cosa ha rischiato per dare informazioni preziose su Provenzano ben 10 anni prima del suo effettivo arresto, informazioni che il ROS di Palermo con la colpa del Colonello Mario Mori (Capo ROS condannato in primo grado nel processo trattativa Stato-Maffia, già Direttore del SISDE) ha volutamente accantonato, posticipando di fatto l’arresto di Provenzano, informazioni per le quali Ilardo ha perso la vita.

Parla il Colonnello dei Carabinieri Michele Riccio (QUI): «Ilardo mi diceva: “Il problema è Cancemi”. Era a conoscenza di parecchi fatti. Infatti, quando era al ROS non ha detto nulla. Poi, quando lo hanno allontanato dal ROS ha cominciato a parlare. Cosa Nostra aveva paura dei pentiti storici. Cosa Nostra ha paura del passato, perché nel passato nasce la Trattativa. In passato ci sono i colloqui tra Provenzano, Santapaola, Madonia. Sono loro che se iniziano a parlare possono creare i grandi danni». E sulla morte di Ilardo: «Lo Stato ha sempre utilizzato la criminalità organizzata. Il mandante esterno in questi omicidi di Stato c’è sempre. Poi c’è il contatto che dice a due picciotti: “Andate ad ammazzare questo”. A Ilardo lo sparano sotto casa. L’ordine è arrivato dallo Stato. È successo per tutti gli omicidi eccellenti. Ilardo è uno degli omicidi eccellenti».

Report ha dedicato ieri seri, 4 gennaio 2021 una puntata speciale alla Trattativa Stato-Mafia, alle stragi del 1992 e quelle del 1993 per cui sono indagati dalla Procura di Firenze anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Con testimonianze inedite e documenti esclusivi viene ricostruito per la prima volta in televisione il ruolo ricoperto da alcuni settori delle istituzioni nelle stragi del 1992 e in quelle degli anni precedenti. Un filo nero collegherebbe infatti l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 alle bombe di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mafia, massoneria, terroristi di destra e servizi segreti deviati avrebbero contribuito per anni ad organizzare e ad alimentare una strategia stragista che puntava alla destabilizzazione della democrazia nel nostro Paese. Lo raccontano a Report magistrati, collaboratori di giustizia e protagonisti dei piani eversivi. Report fa luce sul ruolo inconfessabile ricoperto dagli uomini dello Stato nella pianificazione e nell’esecuzione delle stragi. Una verità a cui probabilmente era arrivato Paolo Borsellino. Quando viene ucciso in via D’Amelio, sparisce l’agenda rossa che portava sempre con sé, dove conservava tutti gli appunti sulle indagini da lui svolte in prima persona sulla strage di Capaci. Che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino? Grazie a testimonianze esclusive, Report è stato in grado di aggiungere un tassello importante alla ricostruzione della vicenda. Il video: QUI.

Ora apritele le inchieste
anziché continuare a chiuderle …!
Luana Ilardo
Facebook, 4 gennaio 2021 Ore 23.26

“Giovanni amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca”

Poche parole su un biglietto, scritto da una donna che non c’è più ad un uomo che non c’è più. Eppure, è l’immagine di un trionfo. Della vita sulla morte. Del bene sul male. Dell’umanità contro la disumanità. È stato rinvenuto nella Cancelleria del Tribunale di Palermo, dove lavorò Giovanni Falcone. Glielo scriveva Francesca Laura Morvillo, sua moglie.

Biglietto di Francesca Laura Morvillo al suo marito Giovanni Falcone.

Siamo abituati a guardare certe figure in un modo incentrato sulla loro straordinaria valenza simbolica. Come fossero soltanto magistrati, eroi, icone antimafia, vittime di mafia, personaggi che hanno reso migliore questo Paese. Ma tendiamo a dimenticare che prima di tutto questo, sono/erano esseri umani. Con sentimenti, con una vita privata, con le loro tenerezze, le speranze, i sogni, le piccole debolezze. La voglia magari di una vita normale, lontano dai riflettori, dalle scorte, dalle auto blindate e da quel convitato di pietra, in abito nero, con cui sempre, in ogni momento della loro esistenza, si ritrovavano a fare i conti. Perché sapevano bene che quel conto, prima o poi, qualcuno glielo avrebbe presentato.

Negli ultimi mesi della sua vita Giovanni Falcone, trasferitosi a Roma, amava ogni tanto uscire da solo la sera, senza scorta. Si sentiva più sicuro, lontano dalla Sicilia, e amava fare lunghe passeggiate per sentirsi normale. Un cittadino qualunque, in lunghe passeggiate, magari tra piazza Navona e campo dei Fiori, o seduto sulla scalinata di Trinità dei Monti.

Tra nemici tremendi, “menti raffinatissime” e persino presunti amici che pugnalano alle spalle, questo biglietto ci mostra il lato più personale di Giovanni Falcone. Ci rimanda l’immagine non solo del giudice professionale e coraggioso, ma anche quella di un uomo ricco di tenerezza e di umanità.

Giovanni Falcone con la moglie Francesca Laura Morvillo.

Oggi avrebbe compiuto 74 anni
di Davide de Bari
Antimafiaduemila.com, 14 dicembre 2019

“Giovanni amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca”. È questa la frase scritta da Francesca Morvillo a suo marito Giovanni Falcone che non fece in tempo a leggere, visto che tutti e due morirono nella strage di Capaci il 23 maggio 1992, insieme agli uomini della scorta (Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani). Un biglietto ritrovato dopo tantissimi anni dalla loro morte che esprimeva l’essenza dell’amore che vi era tra i due, che sapeva andare oltre ogni cosa. Un amore così intenso che il destino ha fatto sì che nessuno dei due potesse sopravvivere all’altro. Era il 14 dicembre 1945 quando a Palermo nacque il magistrato Francesca Laura Morvillo. Lei aveva delle spiccate capacità nel mondo della giurisprudenza, visto che suo padre era sostituto procuratore e anche suo fratello Alfredo decise di entrare in magistratura. La stessa strada fu percorsa anche da Francesca che entrò in magistratura il 10 marzo 1971 come giudice del Tribunale di Agrigento. Dopo pochi anni fu nominata sostituto procuratore della procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo. Francesca aveva delle eccellenti qualità professionali, caratterizzate da un impegno di assoluto rilievo. A Palermo era seriamente impegnata in difesa dei minori e molto spesso aveva a che fare con ragazzi provenienti da famiglie mafiose.

Fu a Palermo che Francesca conobbe Giovanni Falcone a una cena a casa di amici nel 1979. Falcone era arrivato nel capoluogo siciliano da un anno, con un matrimonio alle spalle con la moglie Rita. I due si innamorano perdutamente uno dell’altro. La Morvillo era l’unica donna che potesse comprendere e capire il lavoro e il sacrificio che stava svolgendo Falcone in quanto non era un uomo come tanti. Giovanni sapeva che solo un altro magistrato che si batteva con passione per la giustizia come Francesca poteva sopportare tutto quello che gli anni insieme gli avrebbero riservato. Da lì a poco Falcone ricevette la scorta, è così che ebbe inizio una vita blindata. Falcone, insieme al pool composto da Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, coordinati da Antonino Caponnetto divennero il nemico numero uno della mafia. L’amore tra i due era spesso messo a dura prova per gli ostacoli che si trovavano a vivere, visto che, dopo la collaborazione di Tommaso Buscetta, Falcone insieme a suoi colleghi istruì il maxi processo, blindati con le famiglie nel carcere dell’Asinara. Francesca non lo lasciò mai e lo sosteneva come poteva, senza trascurare il suo lavoro da magistrato minorile. La donna accettò anche di non avere figli perché come le disse un giorno Falcone “non si fanno orfani, si fanno figli”. Francesca e Giovanni si sposarono, con una cerimonia segretissima nel maggio 1986 celebrata davanti al sindaco Leoluca Orlando, uno dei testimoni fu il giudice Antonino Caponnetto.

Dopo il successo nel maxi processo, ebbe inizio una stagione ancora più dura per Falcone: quella anche nota come “stagione dei veleni”, in cui il magistrato subì una lunga serie di attacchi e delegittimazioni. Una situazione davvero difficile da affrontare, come quella del 21 giugno 1989 quando Giovanni Falcone e sua moglie si trovavano in vacanza in una villa all’Addaura, dove furono ritrovate 58 cartucce di esplosivo, di tipo Brixia B5, all’interno di un borsone sportivo. È in quel momento che Falcone rilasciò un’intervista al giornalista Saverio Lodato in cui parlò per la prima volta delle “menti raffinatissime”. Quell’attentato ebbe delle conseguenze notevoli nel rapporto tra Francesca e Giovanni, come raccontato dal fratello Alfredo nel libro “L’obbiettivo” del magistrato Luca Tescaroli, “Furono conseguenze piuttosto pesanti […] rimase molto scioccata e incise seriamente sulla loro vita familiare, perché… per tutta l’estate… la sera mia sorella se ne andava a dormire a Palermo e lui restava lì. […] Quindi, ha avuto ripercussioni sia di carattere pratico… disagi concreti, sia nella loro vita familiare, sia come suo vero e proprio shock per ciò che era accaduto”. Un altro amico giornalista di Falcone, Francesco La Licata, raccontò che il magistrato, dopo il fallito attentato, si armò anche di una pistola. “L’ho visto che aveva un’arma addosso […] a una certa ora faceva andare via la moglie e si opponeva in ogni modo alla sua presenza nella villa… almeno quella sera proprio stavano quasi litigando perché lei voleva rimanere e lui invece ha insistito molto per farla andare via, perché diceva: ‘Hai capito che devo rimanere lucido? Devo rimanere lucido, devo capire, devo pensare… se penso a me non posso pensare anche a te – raccontò La Licata nel libro di Tescaroli -. È per questo mi disse che dormiva per terra, evitava di dormire nel letto”.

Nonostante i grandi ostacoli, Francesca cercava in tutti i modi di stare accanto a Falcone, tanto che chiese al Csm di avere un incarico che gli permettesse di stare accanto al marito. “L’esigenza di raggiungere la sede richiesta per mantenere l’unità del nucleo familiare dato che il proprio coniuge Giovanni Falcone, anch’esso magistrato, – scriveva la Morvillo al Csm – è stato destinato al Ministero di Grazia e Giustizia con l’incarico di direttore generale degli affari penali”.

La Morvillo era accanto a Giovanni anche in quel tragico 23 maggio 1992, giorno in cui persero la vita assieme agli agenti della scorta. Francesca non morì subito, fu trasportata d’urgenza all’ospedale Cervello, poi trasferita al Civico, nel reparto di neurochirurgia, dove però perse la vita intorno alle 23, per le gravi lesioni interne riportate. Quando era ancora cosciente, nel letto d’ospedale pronunciò quelle sue ultime parole: “Dov’è Giovanni?”. Un amore quello di Francesca che andò oltre ogni limite e che ancora oggi fa battere il cuore a chi legge quelle sue parole d’amore nei confronti di un uomo che per la giustizia decise di sacrificare qualsiasi cosa della sua vita.

L’ultima Intervista a Paolo Borsellino
Palermo, 19 maggio, 1992


Quella che segue è la trascrizione integrale dell’intervista rilasciata dal magistrato Paolo Borsellino il 21 maggio 1992 a Palermo a due giornalisti francesi di Canal+, Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi. L’intervista venne registrata quattro giorni prima dell’attentato di Capaci, il 23 maggio 1992, in cui fu ucciso Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Laura Morvillo e tre agenti della scorta (Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani). Due mesi dopo, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino venne ucciso nella strage di via d’Amelio a Palermo, coinvolgendo anche i cinque uomini della scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vicenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).

Questa intervista integrale. ed altro materiale riguardante sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone, sono contenuto nel libro di riferimento per conoscere la storia della lotta alla mafia “Le ultime parole di Falcone e Borsellino”, curato da Antonella Mascali (Chiarelettere 2019). Questo libro raccoglie i principali interventi, le interviste, le parole di Giovanni Falcone (1939-1992) e Paolo Borsellino (1940-1992). Una collezione preziosa, un volume utile, per riascoltare le voci dirette dei due colossi della lotta contro Cosa Nostra. Un omaggio doveroso e un necessario ritorno a ciò che veramente hanno detto e scritto, ora che sono venute alla luce quelle verità per le quali entrambi hanno sacrificato la vita. Con un saggio introduttivo di Roberto Scarpinato, Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo, che ha lavorato con Falcone e Borsellino e si è occupato di alcuni dei più importanti processi di mafia degli ultimi anni.

Sigfrido Ranucci è stato il primo a mandare in onda per la RAI l’ultima intervista fatta a Paolo Borsellino, che non era mai stata mandata in onda prima. Solo L’Espresso aveva pubblicato dopo anni la trascrizione. Ranucci ha denunciato ieri sera, che dopo la messa in onda c’è stata da parte delle reti Fininvest/Mediaset dell’epoca una campagna denigratoria nei suoi confronti. Inoltre, tramite la confidenza del cuoco del carcere nel quale “Piddu” Madonia era detenuto, nel 2015 Ranucci ha saputo che Madonia su di lui aveva emesso una sentenza di morte. Ranucci solo ieri sera ha fatto presente la minaccia per la sua persona.

La trascrizione dell’ultima intervista a Paolo Borsellino dal sito Terzoocchio.org

Borsellino – Sì, Vittorio Mangano l’ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il ’75 e l’80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L’indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice – si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un’ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere – ora i miei ricordi si sono un po’ affievoliti – di questa famiglia, che era stata autrice dell’estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l’esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l’ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente a Cosa Nostra.
Giornalista – “Uomo d’onore” di che famiglia?
Borsellino – L’uomo d’onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia della quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga, di traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane.
Giornalista – E questo Mangano Vittorio faceva traffico di droga a Milano?
Borsellino – Il Mangano, di droga… (Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l’arrivo di una partita d’eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come “magliette” o “cavallo”. Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico di droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa – beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più ;700 milioni di multa… La sentenza di Corte d’Appello confermò questa decisione di primo grado…
Giornalista – Quando ha visto per la prima volta Mangano?
Borsellino – La prima volta che l’ho visto anche fisicamente? Fra il ’70 e il ’75
Giornalista – Per interrogarlo?
Borsellino – Sì, per interrogarlo
Giornalista – E dopo è stato arrestato?
Borsellino – Fu arrestato fra il ’70 e il ’75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l’ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po’ sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni
Giornalista – Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
Borsellino – A Palermo la prima volta
Giornalista – Quando, in che epoca?
Borsellino – Tra il ’75 e l’80, probabilmente fra il ’75 e l’80
Giornalista – Ma lui viveva già a Milano?
Borsellino – Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo
Giornalista – E si sa cosa faceva a Milano?
Borsellino – A Milano credo che lui dichiarò di gestire un’agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non “cavalli” per mascherare il traffico di stupefacenti
Giornalista – Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
Borsellino – Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero…
Giornalista – Ma lui comunque era già uomo d’onore e negli anni Settanta?
Borsellino – … Buscetta lo conobbe già come uomo d’onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di quell’estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d’incontro… ma tutti e due erano detenuti all’Ucciardone qualche anno prima o dopo il ’77
Giornalista – Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova…
Borsellino – Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d’onore. Contorno tuttavia – dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo – precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade
Giornalista – Mangano conosceva Bontade?
Borsellino – Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone
Giornalista – Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c’è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato (Luigi D’Angerio, ndr) che usciva dalla casa di Berlusconi.
Borsellino – Non sono a conoscenza di questo episodio
Giornalista – Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un’avanguardia?
Borsellino – Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le “teste di ponte” dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n’erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono (altri mafiosi coinvolti nell’inchiesta di San Valentino, ndr) credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c’è dubbio comunque che… è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po’ diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone (nel ’76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr) lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all’interno dell’organizzazione mafiosa…
Giornalista – Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
Borsellino – Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone
Giornalista – Dunque quando Mangano parla di “cavalli” intendeva droga?
Borsellino – Diceva “cavalli” e diceva “magliette”, talvolta
Giornalista – Perché se ricordo bene c’è nella San Valentino un’intercettazione tra lui e Marcello Dell’Utri, in cui si parla di cavalli
Borsellino – Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare (Borsellino guarda le sue carte, ndr). No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo… Tra l’altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant’è che Mangano fu condannato al dibattimento del maxi processo per traffico di droga
Giornalista – Dell’Utri non c’entra in questa storia?
Borsellino – Dell’Utri non è stato imputato del maxi processo per quanto io ne ricordi, so che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano.
Giornalista – A Palermo?
Borsellino – Sì, credo che ci sia un’indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari.
Giornalista – Marcello Dell’Utri o Alberto Dell’Utri?
Borsellino – Non ne conosco i particolari, potrei consultare avendo preso qualche appunto, cioè si parla di Dell’Utri Marcello e Alberto, di entrambi.
Giornalista – I fratelli
Borsellino – Sì.
Giornalista – Quelli della Publitalia?
Giornalista – E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell’Utri?
Borsellino – Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla
Giornalista – Perché c’è nell’inchiesta della San Valentino, un’intercettazione fra lui e Marcello Dell’Utri in cui si parla di cavalli.
Borsellino – La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo (Borsellino sorride, ndr). Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l’albergo
Giornalista – In un albergo. Dove?
Borsellino – Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza di Milano
Giornalista – Ah, oltretutto.
Borsellino – Sì
Giornalista – C’è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell’Utri?
Borsellino – Non mi dovete fare queste domande su Dell’Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena… dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi
Giornalista – Sono di Palermo tutti e due…
Borsellino – Non è una considerazione che induce alcuna conclusione… a Palermo gli uomini d’onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero
Giornalista  C’è un socio di Marcello Dell’Utri, tale Filippo Rapisarda che dice che questo Dell’Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade.
Borsellino – Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia di Pippo Calò…Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano più numerose, si è parlato addirittura in un certo periodo almeno di duemila uomini d’onore con famiglie numerosissime, la famiglia di Stefano Bontade sembra che in un certo periodo ne contasse almeno 200, si trattava comunque di famiglie appartenenti a un’unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti, e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera
Giornalista – Lei di Rapisarda ne ha sentito parlare?
Borsellino – So dell’esistenza di Rapisarda, ma non me ne sono mai occupato personalmente.
Giornalista – Perché quanto pare, Rapisarda, Dell’Utri, erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia.
Borsellino – Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Rapisarda e Dell’Utri, non so fornirle particolari indicazioni, trattandosi ripeto sempre di indagini di cui non mi sono occupato personalmente.
Giornalista – Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
Borsellino – Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura… so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda – che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla
Giornalista – Ma c’è un’inchiesta ancora aperta?
Borsellino – So che c’è un’inchiesta ancora aperta
Giornalista – Non le sembra strano che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell’Utri, siano collegati a uomini d’onore tipo Vittorio Mangano?
Giornalista – Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
Borsellino – Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano
Giornalista – Concernenti cosa?
Borsellino – Questa parte dovrebbe essere richiesta… quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento
Giornalista – Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell’Utri e uomini d’onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s’interessa all’industria, o com’è?
Borsellino – A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l’organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso
Giornalista – Lei mi dice che è normale che Cosa Nostra si interessi a Berlusconi?
Borsellino – È normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali
Giornalista – E uno come Mangano può essere l’elemento di connessione tra questi mondi?
Borsellino – Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un’attività commerciale. E’ chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti
Giornalista – Però lui si occupava anche di traffico di droga, l’abbiamo visto anche in sequestri di persona…
Borsellino – Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni – siamo probabilmente alla fine degli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70 – appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c’è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona. Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so…
Giornalista – E questa inchiesta quando finirà?
Borsellino – Entro ottobre di quest’anno.
Giornalista – Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
Borsellino – Certamente…
Giornalista – Perché ci servono per un’inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria…
Borsellino – Passerà del tempo prima che…

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