Rosario Livatino sarà beato

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Al termine dell’anno papa Francesco ha riconosciuto il martirio del magistrato Rosario Angelo Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990 in odio alla fede; era nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì ed è stato ucciso da un commando mafioso sulla strada tra Canicattì ed Agrigento il 21 settembre 1990.


Fin da piccolo appare molto portato allo studio, ma anche pronto ad impegnarsi nel sociale, come fa attraverso la sua attività nell’Azione Cattolica. Dopo la laurea in giurisprudenza, nel 1978 entra in magistratura presso il tribunale di Caltanissetta e poi passa a quello di Agrigento. In breve tempo si crea molti, pericolosi nemici: si occupa di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana, mettendo a segno numerosi colpi contro la mafia, a cui confisca molti beni.

Contestualmente il Papa ha riconosciuto le virtù eroiche del Servo di Dio Vasco de Quiroga, Vescovo di Michoacán (1470-1565); del Servo di Dio Bernardino Piccinelli, dell’Ordine dei Servi di Maria, Vescovo titolare di Gaudiaba ed Ausiliare di Ancona (1905-1984); del Servo di Dio Antonio Vincenzo González Suárez, Sacerdote diocesano (1817-1851); del Servo di Dio Antonio Seghezzi, Sacerdote diocesano (1906-1945); del Servo di Dio Bernardo Antonini, Sacerdote diocesano (1932-2002); del Servo di Dio Ignazio Stuchlý, Sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales (1869-1953); della Serva di Dio Rosa Staltari, Religiosa professa della Congregazione delle Figlie di Maria Santissima Corredentrice (1951-1974).

La notizia era stata data dal card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, in diretta streaming: “Ha incarnato la beatitudine di coloro che hanno fame e sete di giustizia e per essa sono perseguitati, mettendo pienamente a frutto il dettato conciliare sull’apostolato dei laici, sulla scorta dell’esperienza maturata in seno all’Azione cattolica…

La preghiera costante e la quotidiana partecipazione al mistero eucaristico, insieme alla solida educazione cristiana, ricevuta in famiglia e corroborata dalla meditazione assidua della Parola di Dio e del magistero della Chiesa, hanno fatto di lui un autentico profeta della giustizia e un credibile testimone della fede in un momento storico e in un contesto sociale tristemente segnati da una mentalità sotto diversi aspetti disumana e disumanizzante”.

Poi, il cardinale ha ricordato la ‘coscienza profondamente libera’ del giudice Livatino: “Si è consacrato sub tutela Dei a restituire dignità a un territorio ferito dalla mentalità e dalla prassi mafiosa, annunciando il Vangelo attraverso la lotta all’ingiustizia, il contrasto alla corruzione e la promozione al bene della persona e della comunità.

E’ riuscito a mettere sul tavolo del Tribunale il Vangelo e il Codice. L’ha fatto con la delicatezza silenziosa di un uomo che credeva. Restando in attesa della decisione pontificia riguardo al Rito di Beatificazione, chiediamo al Signore che la testimonianza del prossimo Beato sia di stimolo e di esempio per un rinnovato impegno di santità da parte di tutti”.

Il 30 aprile 1986, intervenendo a Canicattì alla conferenza su ‘Fede e diritto’, Rosario Livatino ha delineato il compito del magistrato: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare.

Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata…

Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”.

Per Livatino questa riflessione era valida anche per il non credente: “Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia.

E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.

Quindi il giudice deve essere indipendente, come disse in un altro intervento del 1984: “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende”.

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