La Palestina riconosciuta come Stato osservatore all’Onu. Per la Santa Sede, un passo avanti verso la soluzione dei due Stati

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“Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la “two-state solution” (la soluzione di due Stati) divenga realtà e non rimanga un sogno”. Vale la pena citarlo tutto, questo lungo passaggio di Benedetto XVI. Lo pronunciò il 15 maggio del 2009, ripartendo da Israele. E assume un peso particolare oggi, dopo che l’Assemblea Generale dell’Onu ha votato a favore del riconoscimento della Palestina come Stato non membro e osservatore. Vale la pena citarlo perché questo passaggio è il cuore e il centro della dichiarazione che la Santa Sede ha diffuso subito dopo la votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu.

La Santa Sede è stata sempre favorevole alla soluzione dei “due Stati”. Vero è anche che l’ascesa di Benedetto XVI al soglio di Pietro ha in qualche modo cambiato la prospettiva. Se la Segreteria di Stato di Sodano era stata persino aggressiva in alcuni attacchi ad Israele e considerata troppo sbilanciata in favore della Palestina , Benedetto XVI ha voluto ritagliarsi un ruolo di amicizia e di vicinanza a tutte le parti in causa. Tanto che il viaggio in Israele del 2009 si è concluso in un successo. E sì che il Papa non mancò di fare gesti clamorosi, come andare a visitare “il muro” –  la controversa barriera costruita dagli israeliani che separa ampi tratti dei territori palestinesi dallo Stato ebraico – e definirlo tragico.

Negli scorsi giorni, un centinaio di personalità cristiane, religiosi e laici, hanno difeso con forza il riconoscimento della Palestina. In un manifesto – primo firmatario, il patriarca latino emerito di Gerusalemme Michel Sabbah – hanno sottolineato che “”Noi, palestinesi cristiani, siamo i discendenti dei primi cristiani. Siamo anche componente organica e integrale del popolo palestinese. E proprio come i nostri fratelli e sorelle palestinesi musulmani ci siamo visti negare i nostri diritti umani e nazionali per quasi un secolo”. Sono circa 100 mila i palestinesi cristiani nei territori della Cisgiordania e la striscia di Gaza, pari all’1,6 per cento della popolazione in quell’area. Il quadruplo di loro vivono invece nella diaspora. All’epoca della creazione dello Stato d’Israele, nel 1948, i cristiani in Palestina erano circa 350 mila e rappresentavano il 20 per cento della popolazione.

Sul riconoscimento della Palestina all’Onu, la Santa Sede rilascia una dichiarazione pesata, non come arbitro, ma come Paese particolarmente interessato allo sviluppo degli eventi e desideroso di mantenere rapporti di vicinanza sia con gli israeliani che con i palestinesi. Con i primi, anche per concludere le trattative sull’applicazione dell’Accordo Fondamentale, che sembrano non finire mai. Con i secondi, perché i cristiani della regione sono soprattutto arabi palestinesi, una minoranza isolata che va protetta. La dichiarazione ricorda la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che “pose la base giuridica per l’esistenza di due Stati, uno dei quali non è stato costituito nei successivi sessantacinque anni, mentre l’altro ha già visto la luce”. Sottolinea che riconoscere alla Palestina il rango di Stato non membro osservatore va proprio inquadrata nei “tentativi di dare una soluzione definitiva, con il sostegno della comunità internazionale” alla questione. Ma – aggiunge – “è convinzione della Santa Sede che tale risultato non costituisca, di per sé, una soluzione sufficiente ai problemi esistenti nella Regione: ad essi, infatti, si potrà rispondere adeguatamente solo impegnandosi effettivamente a costruire la pace e la stabilità nella giustizia e nel rispetto delle legittime aspirazioni, tanto degli Israeliani quanto dei Palestinesi”. E auspica perciò la ripresa dei negoziati internazionali.

Negoziati cui, secondo gli accordi di Oslo del 1993, si sarebbe dovuta affidare la costituzione di uno Stato palestinese. Ma qual è il territorio dello Stato della Palestina? Per i palestinesi, la Palestina è quella storica pre-1948, prima della nascita dello Stato di Israele. Ma il riconoscimento non riguarda tanto la frontiera definita dall’armistizio del 1949 (la Linea Verde), quanto il modello inventato e consolidato ad Oslo. Questo crea anche degli scontenti, tra i palestinesi che non sono in Csgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Lo stato riconosciuto dall’ONU non permette più cambiamenti da una situazione che – seppur considerata svantaggiosa – era perlomeno considerata reversibile. Ora, da un lato la nuova situazione può permettere una più facile transizione politica, ma dall’altro lato può estromettere del tutto quello che si è formato nei Territori Occupati.

I palestinesi saranno soddisfatti della soluzione? O prevarranno tra loro gli scontenti, coloro che vogliono un territorio costruito sull’identità araba, una modalità tra l’altro ormai spazzata via dalla Primavera Araba? Si deve correre con lo sguardo al 24 settembre del 2011, a Ramallah. Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, veniva accolto da una folla in tripudio. E le arringava: “Sono andato alle Nazioni Unite per portare il vostro messaggio. Il mondo intero ha accolto la nostra richiesta di riconoscimento di uno Stato indipendente con grande rispetto e apprezzamento”.

La strada per la “piena statualità” – in inglese, “full statehood” – iniziò il giorno dopo. Il 25 settembre del 2011, il Segretario del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ricevette la richiesta ufficiale dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. L’OLP è un organizzazione ombrello, che raccoglie la maggioranza dei partiti e movimenti politici palestinesi. È all’OLP che spetta la rappresentanza unica dei palestinesi in ambito internazionale, e non all’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese, nata dopo gli accordi di Oslo del 1993.

OLP e ANP hanno la stessa leadership – Mahmoud Abbas, leader del partito al Fatah – ma la distinzione è importante. L’OLP è infatti osservatore all’ONU come entità, uno status che gli fece riconoscere Yasser Arafat nel 1974. Una posizione non  prevista dalla Carta delle Nazioni Unite, che viene conferita per prassi a quelli Stati e entità che ne condividono i fini e i principi. Nel 1988, Arafat dichiarò l’indipendenza della Palestina, e dunque in assemblea generale il nome “Palestina” rimpiazzò quello di “OLP”. Ma era solo un cambio cosmetico. Nel 1998, l’Assemblea Generale ha concesso alla Palestina dei privilegi da Stato membro, come la possibilità di partecipare alle sue sedute plenarie e di co-promuovere delle risoluzioni.

Ma il 25 settembre 2011 l’OLP ha chiesto di diventare un membro a tutti gli effetti. Sì, diceva Mahmoud Abbas, gli accordi prevedono che dobbiamo creare lo Stato palestinese attraverso un negoziato bilaterale con Israele, ma sembra improbabile che ci possiamo riuscirci. La battaglia di Abbas è solo un primo segnale: è ovvio che la richiesta sarebbe andata a sbattere contro il veto degli Stati Uniti in Consiglio di Sicurezza. “Uno Stato palestinese è possibile solo attraverso negoziati con Israele”, è la posizione degli USA, condivisa da Israele. Ma Abbas porta avanti la sua battaglia. E chiede di innalzare lo status dell’OLP in assemblea generale – dove non ci sono veti e può raccogliere un vasto consenso internazionale – da entità Osservatore a Stato non membro osservatore. Gli USA mantengono la loro posizione, e inviano una nota privata ai governi europei che chiede di non supportare la richiesta presentata da Abbas. La nota – riporta il Guardian – rimarca che “un eventuale esito positivo del voto sarebbe estremamente controproducente e potrebbe comportare delle conseguenze negative importanti”. Come drastiche riduzioni di finanziamento all’Olp?

Basta infatti ricordare gli effetti che una decisione simile ha avuto nei confronti dell’UNESCO lo scorso novembre, quando la Palestina è diventato un membro a titolo pieno e di pari livello rispetto agli altri suoi 195 componenti. Dal 1 novembre 2011, esattamente il giorno dopo il voto all’assemblea di Parigi, gli Stati Uniti hanno ritirato infatti la loro quota di contribuzione all’organizzazione, che equivale a ben il 22% del budget totale.

Una misura ‘punitiva’ giustificata dalle stesse ragioni per cui la richiesta di Abbas è stata bloccata nel Consiglio di sicurezza, oltre al fatto che gli americani ritengono che non spetti all’organo principale di cooperazione internazionale in materia di cultura delle decisioni politiche così sensibili, quali la questione dello Stato palestinese.

Il giorno dopo che la bandiera palestinese è stata alzata davanti la sede dell’Unesco, l’Islanda – primo Paese dell’Occidente – ha riconosciuto lo Stato della Palestina. Una notizia storica, che arriva mentre proseguono le riduzioni finanziarie degli Stati Uniti alle organizzazioni che sostengono lo Stato di Palestina. Riduzioni che toccano anche l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che aiuta i rifugiati palestinesi. A compensare il taglio dei fondi è arrivato il Brasile, che ha versato poco meno di un milione di dollari in una cerimonia tenutasi non casualmente a Gaza e che ne ha promessi globalmente 7 e mezzo. In fondo, si fa politica estera anche aprendo e chiudendo i rubinetti delle agenzie dell’ONU.

C’è anche questo dietro la lunga marcia della Palestina per farsi riconoscere come Stato. Una lunga marcia che non è senza rischi. Ma che ha anche conseguenze positive per i palestinesi, come la possibilità di farsi riconoscere dei siti storici ed archeologici come patrimonio dell’umanità. E anche qui entra in gioco la politica.

Il primo di questi siti ad essere riconosciuto è stata la Chiesa della Natività di Betlemme, una scelta dal chiaro significato politico. A Betlemme passa il muro israeliano. Ma non è solo quello. Attorno a Betlemme ci sono diverse colonie israeliane – come Har Homa che ormai conta decine di migliaia di abitanti – e la città è separata da Hebron dal blocco di colonie Gush Etzion. Betlemme patrimonio dell’umanità può allora significare che se Israele decidesse di ampliare le colonie o costruirne di nuove, questa decisione potrebbe trovare un ostacolo nella comunità internazionale.

Resta da vedere quali saranno le conseguenze pratiche del riconoscimento della Palestina a Stato osservatore non membro dell’ONU. Già in occasione della discussione sul Arms Trade Treaty, il trattato internazionale sul commercio delle armi, le vibranti proteste per la presenza dell’OLP come Osservatore portarono la Santa Sede – tra i principali attivisti riguardo al Trattato, insieme al Regno Unito – a dover accettare uno status diminuito insieme alla Palestina, in modo da non fermare il negoziato. Negoziato che poi è fallito.

Per ora, l’unica conseguenza pratica per la Palestina potrebbe essere quella di entrare a far parte della Corte penale internazionale, cosa che le permetterebbe di presentare richieste di parere su questioni inerenti all’occupazione ed al conflitto. Ma questo non è scontato. Già ad aprile scorso la Corte non dichiarò ammissibile la richiesta di ingresso della Palestina, una delle moltissime. E questo perché la giurisdizione non si può applicare ai Territori Occupati finché non ci sarà uno Stato. E il nuovo status alle Nazioni Unite non garantisce che ci sia uno Stato, perché non basta il riconoscimento anche da parte di altri Stati. Occorrono un popolo, un territorio e una sovranità effettiva. Elementi che Abbas non sembra avere.

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