Anche la Chiesa anglicana ha i suoi leaks. A favore delle donne vescovo

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Li chiameremo angli-leaks? Dopo che per soli sei voti non è passata al sinodo la nuova legislazione della Chiesa anglicana che permetteva l’ordinazione delle donne vescovo, un memo interno di William Fittal, segretario generale del Sinodo, è stato passato al Times di Londra. Vi si legge che la Chiesa d’Inghilterra sta vacillando per lo shock e affrontando una “grande crisi” costituzionale, e che c’è preoccupazione soprattutto per il morale che la mozione ha avuto sul clero di Inghilterra. Ma che il problema fosse particolarmente sentito, lo dimostra il fatto che l’attuale primate anglicano Rowan Williams – in uscita – abbia sostenuto con forza che “è in crisi la credibilità della Chiesa d’Inghilterra”, e che l’arcivescovo di Canterbury entrante Justin Welby abbia arringato: “So che è solo questione di tempo, prima o poi consacrerò donne vescovo”.

 

Intanto, la decisione del sinodo ha segnato uno “stop” in un dibattito che dura sin dagli anni Sessanta, e che aveva già vissuto un momento di scontro quando – nel 1992 – il sinodo anglicano aveva approvato l’ordinazione di donne sacerdote. In quel caso, era stato necessario un compromesso: alle parrocchie che non erano d’accordo vennero garantiti i cosiddetti “flying bishops”, “Vescovi volanti”, uomini, che non hanno una diocesi ma si spostano per seguire i fedeli a loro affidati. La scelta non evitò, in ogni caso, un esodo sostanzioso verso la Chiesa cattolica.

Nel caso delle ordinazioni episcopali, Williams aveva proposto un altro tipo di compromesso. Ovvero, che in quelle diocesi dove la sensibilità non permettesse di accettare una donna vescovo potesse essere scelto un co-vescovo uomo. Una proposta che fu oggetto di aspro dibattito negli scorsi anni.

Anche il dibattito all’ultimo sinodo non è stato cosa facile. Su 44 diocesi di Inghilterra, 42 si sono dette favorevoli all’ordinazione episcopale per le donne. Ma perché la mozione passasse servivano i due terzi dei voti favorevoli dell’assemblea. Un traguardo che non è stato raggiunto per soli sei voti negativi. E sì che nei giorni precedenti al Sinodo era partita una campagna di sensibilizzazione in favore del sì, promossa dallo stesso Rowan Williams con lo slogan: “Enough waiting”, abbiamo aspettato abbastanza”.

Una campagna comprensibile, dato che oggi molti anglicani hanno la sensazione di aver cancellato 12 anni di lavoro. Una campagna comprensibile anche perché la Chiesa di Inghilterra, dopo il sì al sacerdozio femminile, si è tinta di rosa: nel 2010, secondo l’annuario della chiesa di Stato inglese, il “Church of England Yearbook”, per la prima volta più donne che uomini sono state ordinate, 290 contro 273. E secondo lo studio “Religious Trends”, entro il 2025 il numero delle donne sarà pari a quello degli uomini, mentre, soltanto sette anni fa, appena il 10 per cento dei 9.500 pastori della chiesa di Inghilterra era costituito da donne.

Nelle 72 ore successive alla votazione, William Fittal ha scritto il memorandum interno che è poi finito sulle pagine del Times. Fittal è uno dei membri di più lunga data del sinodo dei vescovi, anche se – ammonisce lo stesso Times – il suo consiglio è raramente ascoltato.

Fittal ha inviato il suo memorandum ai membri del Consiglio degli Arcivescovi, un gruppo formato dagli arcivescovi di Canterbury e York e altri tra i membri del clero e i laici più prominenti della Chiesa di Inghilterra, delineando un piano che potrebbe portare a una legislazione più semplice e quindi ad una approvazione a larga maggioranza. Ad esempio, inserendo una clausola che permetta di consacrare donne vescovo senza provvedimenti per quanti si oppongono.

Ma questo deve essere fatto presto, in modo che possa essere presentato al sinodo che si terrà nell’Università di York entro il prossimo giugno. “Lo dobbiamo fare – scrive Fittal – perché il tempo non è dalla nostra parte. Il Parlamento è impaziente”. E Tony Baldry, che rappresenta la Chiesa di Inghilterra nella Camera dei Comuni, ha detto la scorsa settimana che un nuovo tentativo che permetta alle donne di diventare vescovo dovrebbe aver luogo “il più presto possibile”.

E qui si inserisce il problema del possibile intervento parlamentare. La Chiesa d’Inghilterra è ovviamente divisa su argomenti sul gender e sulla sessualità umana, mentre il Parlamento d’Inghilterra ha portato avanti leggi sempre più liberali, tanto che le Charities cattoliche sono state escluse dal sistema delle adozioni per il loro rifiuto a dare in adozione bambini a coppie omosessuali, prediligendo coppie tradizionali, andando contro i principi di uguaglianza e di non discriminazione stabiliti dall’Equality Act. Il Parlamento ha la possibilità di legiferare per la Chiesa di Inghilterra, stabilendo per esempio che il rifiuto di ordinare donne vescovo è anche questa una discriminazione. Potrebbe decidere di intervenire?

Dal 1919, il Parlamento ha ceduto in pratica l’iniziativa legislativa alla stessa Chiesa d’Inghilterra. Pure se decidesse, oggi, di venir meno a questa pratica consolidata, è difficile pensare che lo faccia senza il consenso della Chiesa d’Inghilterra. E se questo consenso ci fosse, non ci sarebbe ragione per cui la Chiesa d’Inghilterra non debba prendere personalmente l’iniziativa.

D’altronde, il Parlamento inglese ha lasciato l’iniziativa legislativa alla Chiesa d’Inghilterra perché quando ha legiferato per la Chiesa (l’ultima volta è stato con il Public Worship Regulation Act, nel 1874) i risultati non sono stati buoni. Il rischio è sempre quello di inasprire la divisione, dato che il Parlamento ovviamente legifera tenendo conto  di una maggioranza. In fondo, come ha detto il card. Betori durante l’ultimo sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, la democrazia crea una maggioranza e una opposizione, la Comunione unisce.

Ma c’è da considerare anche l’emendamento all’Equality Act del Parlamento inglese, sulla parità dei sessi, che ha ricevuto la prima lettura il 22 novembre e sarà in seconda lettura il 18 gennaio del 2013. Se questo verrà abrogato con la sola eccezione della Chiesa d’Inghilterra, l’Equality Act sarà discriminatorio; e invece verrà abrogato senza eccezioni, avrà l’opposizione di ogni altra confessione cristiana e anche delle altre religioni. Una divisione che rende difficile un possibile supporto da parte del governo.

Altra peculiarità: ogni decisione del Sinodo deve essere sottoposta alla Commissione ecclesiastica. Questa non è una commissione parlamentare congiunta. In realtà, è più una commissione legale congiunta di 30 persone, equamente divisi tra rappresentanti della Camera dei Lord e dei Comuni. Ogni cosa che approva la commissione può però essere rigettata dal parlamento, e questo potrebbe smorzare ogni entusiasmo della commissione di cercare un compromesso sulla questione, che sarebbe accettabile per la Chiesa d’Inghilterra, ma forse meno accettabile per la città civile.

E nemmeno il governo avrebbe interesse a promuovere una legge. Il rischio è che l’intervento negli affari di una organizzazione religiosa aprirebbe la strada alla richiesta (politica, più che religiosa) di intervenire a gamba tesa su altre questioni, come quella sulle proprietà delle congregazioni religiose. C’è un precedente, e la dice lunga: il Church of Scotland Act, del 1921, che aprì la strada per la riconciliazione di uno scisma avvenuto nel 1843. In quell’occasione, i ministri si assicurarono che l’atto fosse solo un mero “riconoscimento” del compromesso raggiunto tra le parti.

Sono molte le controversie da risolvere, insomma, per una Chiesa d’Inghilterra legata mani e piedi con l’apparato statale. Uno strascico dello Stato confessionale, ancora vivo mentre in Gran Bretagna la fede religiosa lascia il posto all’indifferenza religiosa, e più che una religione di Stato c’è un pluralismo di religioni. La struttura dello Stato confessionale è stata abbandonata da tempo, ma non ha messo da parte i legami della Chiesa con lo Stato. Il problema chiave resta allora il fatto che, sebbene la Chiesa di Inghilterra agisca praticamente come società di volontariato e beneficenza, resta ad ogni modo parte dello Stato: la Regina, come capo dello Stato, è “supremo governatore” della Chiesa, mantiene il titolo di difensore della fede, deve essere in comunione con essa e nomina – almeno formalmente – il clero; e l’arcivescovo incorona e consacra il nuovo sovrano, e la Chiesa conduce importanti cerimonie pubbliche e rituali che sono di tutto il Regno Unito. I tribunali ecclesiastici restano tribunali del territorio, anche se hanno perso già nel 1850 la loro giurisdizione di legge pubblica; 26 vescovi siedono nella Camera dei Lord, anche se eletti da una commissione della stessa Chiesa d’Inghilterra.

Insomma, troppe implicazioni da considerare. Il Parlamento non interverrà, perché questo potrebbe essere politicamente controproducente. Ma il fatto che se ne parli dà la cifra di quella che giustamente Fittal ha definito “una crisi costituzionale”. Succede, quando leggi dello Stato e leggi della Chiesa si intrecciano, in un dibattito che va ben oltre la confessione religiosa e tocca direttamente le leggi e la struttura dello Stato. Così, il leak del memorandum di Fittal al Times rappresenta forse un segnale per la Chiesa di Inghilterra. È tempo di sbrigarsi, prima di dover affrontare una crisi interna che potrebbe avere conseguenze sul peso stesso della Chiesa di Inghilterra in Gran Bretagna.

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