Con OC Media tra gli sfollati della guerra azera-turca contro la Repubblica di Artsakh. A Baku, alla presenza di Erdogan, Aliyev rivendica le “storiche terre azere” in Armenia e Artsakh

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Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan è arrivato ieri a Baku per una visita di due giorni in Azerbajgian, dove oggi ha partecipato alla “Parata della vittoria”, organizzata dalle autorità azere per celebrare le conquiste territoriali al termine dei 44 giorni di aggressione contro la Repubblica di Artsakh, sancite dall’accordo di cessato il fuoco imposto dalla Russia.

Il Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan e il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev alla “Parata della vittoria” a Baku.

Alla “Parata della vittoria”, che si è tenuto nella piazza Azadliq della capitale azera, erano presenti soldati di Ankara e sono stati messi in mostra i droni turchi Bayraktar TB2, ritenuti cruciali per l’esito dell’aggressione armata azera-turca nel Nagorno-Karabakh. Durante la visita, ha riferito la Presidenza di Ankara, Erdogan terrà colloqui con il Presidente azero Ilham Aliyev per un ulteriore rafforzamento dei rapporti bilaterali. Prevista inoltre la firma di nuovi accordi e protocolli d’intesa tra i due Paesi. “Il fatto che l’Azerbaigian salvi le sue terre dall’occupazione non significa che la lotta sia finita”, ha detto Erdogan durante la “Parata della vittoria”. “La lotta condotta in ambito politico e militare continuerà da ora su molti altri fronti”.

Il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev alla “Parata della vittoria” a Baku.

Alla “Parata della vittoria” a Baku, Aliyev ha proclamato che l’area della capitale della Repubblica di Armenia Yerevan, il Zangezur (una striscia di terra montuosa che separa la provincia meridionale armena di Syunik e la Repubblica Autonoma di Nakhichevan in Azerbajgian) e la regione del lago Sevan (il più grande lago dell’Armenia e uno tra i più grandi laghi d’alta quota al mondo, nella provincia di Gegharkunik, ad est del Paese) sono terre storiche azere. La guerra continua, l’odio cresce, il dittatore azero-turco alza la posta. Per tutti gli Armeni si profila un ulteriore futuro di incertezza.

L’analisi del Difensore dei diritti umani dell’Armenia conferma, che le dichiarazioni e le espressioni di odio e ostilità incluse nei discorsi dei Presidenti azeri e turchi erano le stesse usate anche dai soldati azeri-turchi durante la recente guerra di aggressione dell’Azerbajgian mentre torturavano, uccidevano o trattavano in modo degradante i prigionieri armeni di guerra e civili prigionieri con eccessivo cinismo e umiliazione.

“Questi sono stati i discorsi che hanno costituito negli anni il sistema di predicazione istituzionale in Azerbaigian, volto a diffondere e infliggere odio e ostilità contro gli Armeni in base alla loro etnia, avallando l’impunità esplicita e sostenendo tutto ciò al più alto livello ufficiale”, ha detto il Difensore dei diritti umani dell’Armenia, Arman Tatoyan.

“Nel periodo di settembre-novembre del 2020 i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi dalle forze militari azere sono stati oltre ogni immaginazione umana per il volume e il livello della loro crudeltà: queste sono state azioni che richiedono ulteriori ricerche scientifiche per capire cosa può essere l’estremo della crudeltà di cui un essere umano è capace “, ha affermato il Difensore dei diritti umani dell’Armenia.

Il Presidente turco nel suo discorso pieno di odio e minacce contro l’intero popolo armeno, ha ricordato che oggi è il giorno della glorificazione delle anime di Ahmed Jevad Pasha, Nuri Pasha, Enver Pasha e dei membri dell’Esercito islamico del Caucaso. “È un dato di fatto che queste persone sono i Giovani Turchi, che hanno organizzato e commesso il genocidio armeno nell’Impero ottomano, accompagnandolo con uccisioni, infliggendo danni alla salute, torture e stupri”, ha affermato Tatoyan. “Di questi, Enver Pasha in particolare, durante gli anni del genocidio armeno, fu tra gli organizzatori delle atrocità, nella sua posizione di Ministro militare dell’Impero Ottomano (1913-1918) e Jevad Bey, organizzò e commise le azioni genocide durante la Prima guerra mondiale, nella sua posizione di Comandante della città di Costantinopoli (ora Istanbul) e membro dell’organizzazione speciale statale turca “Teskilat Mahsume”, basata sull’ideologia del pan-turkismo. Inoltre, queste persone, in particolare Nuri Pasha, che era il fratello di Enver Pasha, come parte dell’Esercito islamico del Caucaso, hanno preso parte alle atrocità di massa del settembre 1918 commesse contro gli Armeni a Baku. Queste atrocità sono state anche accompagnate da torture e stupri”, egli aggiunto. “La glorificazione di queste persone dal Presidente turco e farlo con un discorso pubblico pronunciato durante una parata militare mostra espliciti intenti genocidi. Lo scopo di questo discorso è senza dubbio quello di instaurare più odio “, ha sottolineato il Difensore dei diritti umani dell’Armenia.

“Tutto questo è rafforzato da dichiarazioni schiettamente false, che incolpano gli Armeni per la distruzione del patrimonio o degli oggetti religiosi azerbajgiani o turchi”, ha aggiunto. “Questi discorsi sono minacce dirette rivolte alla vita e alla salute dell’intero popolo armeno, la popolazione civile armena, un terrorismo esplicito, che sono sotto il divieto assoluto stabilito dal diritto internazionale. I suddetti discorsi affermano anche la politica genocida dell’Azerbajgian applicata attraverso metodi di pulizia etnica e terrorismo durante questa guerra”, ha detto Tatoyan.

Il Difensore dei diritti umani dell’Armenia ha invitato la comunità internazionale a reagire e ad adottare misure preventive sostanziali riguardo a quelle questioni, che violano i principi fondamentali del diritto internazionale e minano l’intero sistema internazionale dei diritti umani e della protezione umanitaria.

Sono oltre 100.000 le persone obbligate – durante e dopo i recenti combattimenti a seguito dell’aggressione azera-turca contro la Repubblica di Artsakh in Nagorno-Karabakh – ad abbandonare le proprie case. Chi ha trovato rifugio in Armenia descrive la solidarietà ricevuta ma anche la sofferenza di vite segnate per sempre dalla guerra. E l’accordo per il cessato il fuoco tra Armenia, Azerbajgian e Russia certamente non è un trattato di pace.

Condividiamo un reportage recente tra gli sfollati dall’Artsakh a firma di Dvin Titizian per OC Media.

Tra gli sfollati della guerra in Nagorno-Karabakh a Mughni (Foto di Dvin Titizian/OC Media).

“Abbiamo lasciato lì i nostri cuori”: sfollati dalla guerra nel Nagorno-Karabakh
di Dvin Titizian [1]
OC Media [2], 28 novembre 2020

[Traduzione italiana dall’inglese a cura dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa]

Mentre sorseggia un tè in un famoso caffè nel centro di Yerevan, Irina Safaryan, 28 anni, originaria di Stepanakert, ricorda cosa ha fatto il giorno prima che scoppiasse l’inferno. “Quella sera stavamo festeggiando il fidanzamento di uno dei nostri amici della diaspora armena in un pub molto conosciuto chiamato Bardak”, ricorda Irina. “Nessuno dei pub di Yerevan può battere quel posto”.

Irina Safaryan (a sinistra) con le sue amiche Siranush Sargsyan (al centro) e Lianna Adamyan (a destra) durante una protesta per chiedere il riconoscimento internazionale per la Repubblica di Artsakh (Foto di Dvin Titizian/OC Media).

La mattina successiva, Irina e sua sorella, che era in visita da Yerevan con la sua bambina, sono state svegliate dal “suono assordante di un’esplosione”. “Ho aperto la finestra e sembrava la scena del film Pearl Harbor”, racconta Irina. “Ho detto a mia sorella di prendere velocemente le sue cose e siamo corse al rifugio sotterraneo. Diverse ore dopo, sono uscita per pubblicare sui social media qualche post su cosa stava accadendo”.

Era il primo giorno della guerra scoppiata a fine settembre 2020 tra Armenia e Azerbajgian per il Nagorno-Karabakh. La guerra, durata 44 giorni, ha provocato migliaia di morti e decine di migliaia di sfollati.

Irina è nata in un bunker durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh, nei primi anni ’90, ed è cresciuta nella città di Hadrut, nel sud della regione: la sua vita è quindi intrecciata con il conflitto, ma nemmeno lei immaginava che i combattimenti sarebbero ritornati con tale ferocia. “Avevamo percepito che qualcosa si stava preparando – ricorda – ma non avremmo mai immaginato che sarebbero state bombardate le città e gli insediamenti civili. Pensavamo che tutto si sarebbe svolto in prima linea proprio come la guerra dell’aprile del 2016. Per 30 anni, Stepanakert e altre città [del Nagorno-Karabakh] non hanno vissuto la guerra”.

Irina ha poi rimandato, lo stesso giorno, sua sorella e sua nipote a Yerevan. Lei ha invece deciso di restare. Ha lavorato principalmente presso il centro stampa di Stepanakert e ha contribuito a coordinare gli sforzi di volontariato in città. Anche i suoi nonni e sua madre erano nel frattempo sfollati. Poco più di una settimana dopo, il 6 ottobre, Irina ha deciso di andarsene: la guerra aveva già preso un tributo sia fisico che emotivo troppo alto. Sperava però di rientrare presto.

L’unico dei suoi familiari più prossimi a rimanere in quei giorni in Nagorno-Karabakh è stato suo padre, nella sua città natale di Hadrut. Se ne è poi andato quando le forze azere si avvicinavano alla città.

Dopo che la dichiarazione di pace trilaterale che ha posto fine alla guerra è stata firmata da Armenia, Azerbajgian e Russia, il 10 novembre, Irina si è trovata di fronte al fatto che Hadrut e la loro casa di famiglia erano ora sotto il controllo azerbajgiano e che probabilmente non vi sarebbe mai più tornata. Irina, ora rientrata a Stepanakert, alla domanda su quali siano i piani per il futuro suoi e della sua famiglia risponde che il futuro, ora, è una cosa di cui non riesce a parlare: “Non ho niente da dire”.

I volontari Marianna Torosyan e Artyom Ohanyan (Foto di Dvin Titizyan/OC Media).

Volontari

Secondo i funzionari del Nagorno-Karabakh durante la guerra sono state sfollate ed hanno dovuto cercare rifugio in Armenia oltre 100.000 persone, il 70% della popolazione della regione. Altri 40.000 sono stati gli sfollati dopo la fine della guerra, poiché residenti nelle regioni che ora sono sotto il controllo dell’Azerbajgian. Al 23 novembre quasi 25.000 persone che se ne erano andate dal Nagorno Karabakh sono tornate.

Quando è iniziata la guerra sono state molte le iniziative di volontariato e le organizzazioni non governative ad adoperarsi in soccorso di chi fuggiva dalla guerra. Poi è presto subentrato il ministero del Lavoro e degli Affari sociali che ha contribuito a coordinare gli sforzi a livello nazionale ed ha fornito assistenza sociale, medica e psicologica di base oltre che gli alloggi.

Gli sforzi di volontariato hanno caratterizzato l’intera società armena. Gli studi d’arte, i musei e i teatri hanno offerto lezioni e spettacoli gratuiti per i bambini sfollati; cliniche dentali private offrivano cure dentistiche gratuite; e molti hanno aperto le porte delle loro case per accogliere famiglie che si sono trovate senza.

Un gruppo di quattro giovani volontari del piccolo villaggio di Mughni, vicino alla città di Ashtarak, si è incaricato di ospitare e prendersi cura di quasi 170 rifugiati del Nagorno-Karabakh che soggiornano nel loro villaggio. “Tutto è iniziato quando abbiamo messo alcune scatole nel centro di Ashtarak per raccogliere donazioni a favore dei nostri soldati”, racconta Marianna Torosyan, 16 anni, la più giovane dei volontari. “Presto la gente chiedeva se si potevano aiutare anche i rifugiati”.

Marianna e gli altri tre volontari di fatto si occupano del mantenimento dei bambini e delle donne che soggiornano nel loro villaggio e molti degli sfollati li trattano come se facessero parte della loro famiglia. Raccolgono continuamente donazioni e hanno un magazzino pieno di cibo e medicine per le famiglie che sostengono. Sono riusciti anche a trovare un donatore dal Canada che ha acquistato vestiti nuovi per tutti i bambini sfollati. Hanno inoltre raccolto la disponibilità sull’utilizzo di molte case i cui proprietari o non vivevano più in Armenia o ne avevano più di una.

Quattro famiglie, una casa

Le prime persone che hanno aiutato a trovare una casa sono state quattro famiglie della regione di Martuni. Ora vi sono venti persone che vivono in una casa a due piani – 15 bambini di età compresa tra 4-14 anni e cinque adulti. Tutti gli uomini di queste famiglie erano inizialmente a combattere in prima linea.

Il giorno in cui li abbiamo incontrati diversi bambini sono corsi da Marianna e Artyom – un suo amico e co-volontario – e hanno fatto la fila per abbracciarli. “Chi ti piace di più? Io o Manan [Marianna]?”, ha chiesto Artyom scherzando. “Entrambi!”, hanno risposto gioiosi i bambini. Dopo aver trovato un posto tranquillo nell’ampio giardino in modo che i bambini non la interrompessero, una degli adulti, Narine Arzumyan, 49 anni, ha subito iniziato a esprimere la propria gratitudine ai volontari e al villaggio in generale.

Narine ha dovuto abbandonare il villaggio di Yemishjyan il primo ottobre, con i suoi quattro figli e assieme alla sua vicina, con altri sei figli.
“Pensavamo che sarebbe finita presto, quindi all’inizio ci proteggevamo nel nostro rifugio sotterraneo”, racconta Narine. “Ma dato che i bambini si stavano spaventando, abbiamo deciso di andarcene. Ora abbiamo trovato questo posto meraviglioso a Mughni”.

Narine è rimasta molto colpita dal sostegno ricevuto. Dice che, grazie a questo aiuto, non hanno bisogno di nulla. A suo avviso anche le recenti chiusure scolastiche dovute al Covid-19 non hanno influenzato più di tanto i bimbi.

Marianna e le sue amiche volontarie hanno periodicamente portato i bambini sfollati ai musei della zona e allo zoo e un’insegnante è andata più volte alla settimana a lavorare con loro in modo che non rimanessero indietro negli studi. Il 5 ottobre, molti dei bambini che stavano a Mughni sono stati battezzati, i volontari sono diventati le loro madrine e padrini. Ora che la guerra è finita, tre delle quattro famiglie sono rientrate, mentre Narine è rimasta, ora raggiunta dal marito. Mi hanno detto che per ora c’erano troppe “incertezze” in Nagorno-Karabakh ma che intendevano, comunque, rientrare.

La famiglia Poghosyan (Foto di Dvin Titizian/OC Media).

I Poghosyans

Un’altra famiglia che ha trovato rifugio a Mughni è stata quella dei Poghosyans: Zhora e Valentina Poghosyan con le loro due nuore, Lilit e Ruzanna, e i loro cinque nipoti. Zhora ha trasportato loro ed altri parenti e vicini – un totale di 25 persone – in un unico viaggio nel suo furgone Ford Transit: ha rimosso i sedili per fare in modo che ci potessero stare tutti. I suoi due figli sono rimasti a combattere.

La famiglia Poghosyan è originaria del villaggio di Togh, nei pressi di Hadrut. Subito dopo la conquista di Hadrut da parte delle forze dell’Azerbajgian Lilit è venuta a sapere che la loro casa era stata rasa al suolo. “Quello che sta accadendo in Nagorno-Karabakh è un massacro”, mi ha detto la settimana prima della firma della dichiarazione di pace. “Questa guerra è diversa. Questa volta i droni hanno reso la guerra diversa. I nostri rifugi non potevano aiutare molto. Quel primo giorno siamo stati colpiti dagli UAV, li vedevamo costantemente nel cielo”.

“Stiamo sentendo notizie di decapitazioni, e ora le munizioni al fosforo. È disumano – è intervenuta Ruzanna – non vorremmo mai che i loro figli e anziani [dell’Azerbajgian] vivessero quello che stiamo attraversando”. “Abbiamo lasciato lì i nostri cuori”, ha aggiunto, dicendo che se ne sono andati per il bene dei bambini.

Quando ho chiesto ai bambini cosa mancasse loro di più quasi tutti hanno risposto i loro padri, tranne Avet, di 4 anni. Ha detto che gli mancavano i suoi stivali da pioggia. Con Hadrut ora fuori dal controllo armeno, non hanno più una casa a cui tornare e ad Avet i suoi stivali per la pioggia mancheranno per sempre. I mariti di Lilit e Ruzanna le hanno poi raggiunte a Mughni, dove rimarranno per il momento. Ruzanna dice che ora vivranno in Armenia, ma senza speranza nel futuro. “Ho perso il mio villaggio natale, la mia casa”, afferma. “Non ritorneremo nell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] perché ogni centimetro di Artsakh è ora in prima linea. Non è più sicuro per cittadini pacifici come noi”.

Incagliati

Non tutte le famiglie del Nagorno-Karabakh sono state fortunate a trovare una casa decente in Armenia. Rima Petrosyan, madre di 23 anni, originaria del villaggio di Askeran e i suoi due figli, sono arrivati in Armenia il 29 ottobre. Sono stati portati in un collegio nella città di Vanadzor, insieme ad altri 100 sfollati.

Narine Arzumyan (a sinistra) e Lusine Mirzoyan (a destra) con i loro figli (Foto di Dvin Titizian/OC Media).

Ha raccontato che le condizioni in cui vivevano erano “orrende”. Senz’acqua calda e riscaldamento la bronchite dei suoi figli è peggiorata. Dato che le autorità non fornivano alcun aiuto Rima ha iniziato a chiamare ogni conoscente che aveva con la speranza di trovare un nuovo posto dove poter stare. Fu allora che un’amica l’ha messa in contatto con Marianna. Non c’erano più case a Mughni, così Marianna ha offerto la casa della sua famiglia.

Rima e i suoi due figli sono rimasti lì per due settimane. Suo figlio ha mosso i primi passi a Mughni. La storia di Rima è simile a quella di molti altri in Nagorno-Karabakh. Suo marito, padre e fratello sono rimasti in prima linea. “La paura è nel mio cuore”, ha detto. “Desidero solo poter rivedere mio marito e i miei uomini”. Dopo la fine della guerra, Rima è tornata a casa nel Nagorno-Karabakh dove è stata raggiunta anche dal marito.

Coesistenza

Ora che le armi tacciono e che alcuni degli sfollati hanno iniziato a rientrare in Nagorno-Karabakh, sta tornando una parvenza di normalità. Ma per molti la situazione è ancora lontana da una vera pace e nessuna delle famiglie con cui abbiamo parlato ritiene sia possibile la convivenza con l’Azerbajgian.

“Se c’era un barlume di speranza prima, questa guerra l’ha cancellato completamente”, afferma Irina Safaryan. “’Ho preso parte a iniziative di costruzione della pace per dieci anni e ho incontrato molti azeri. Abbiamo pianto insieme, litigato, passato dei bei momenti insieme. Ma ogni volta che tornavano mi cancellavano dalla loro lista di amici, pur scusandosene. A casa gli venivano fatti problemi”.

Irina ha smesso di credere in queste iniziative di pacificazione dopo le prime due a cui ha preso parte. Ora le considera uno spreco di denaro. “Ho visto miei amici azeri celebrare la morte degli armeni sui social media. Li ho bannati tutti. Credo che vogliano un Nagorno-Karabakh senza armeni”.

Narine Arzumyan, madre di quattro figli, originaria del villaggio di Yemishjyan, dice di non aver mai vissuto pacificamente con gli azerbajgiani. “Solo quando ho vissuto in Russia per un po’ avevo delle amiche azerbajgiane e non abbiamo avuto problemi”, spiega. “Ma non credo che possa accadere in Nagorno-Karabakh. Siamo come cane e gatto”. Zhora Poghosyan ha spiegato che negli anni ’60 e ’70 conviveva abbastanza con gli azerbajgiani. “Le nostre case erano una accanto all’altra”, ricorda. “Ma ora? No, non dopo tutto questo”.

Milena, la figlia di Irina (Foto di Dvin Titizian/OC Media).

La ruota che gira

Gyulvard è cresciuta nella città azerbajgiana di Sumgayit, dove ha lavorato come infermiera. Ha detto di aver convissuto pacificamente con gli azerbajgiani fino al 1988. Il 27 febbraio di quell’anno vi sono state violenze e pogrom anti-armeni hanno attraversato l’intera città. Ha visto persone trascinate fuori dalle loro case e picchiate, suo fratello è stato quasi ucciso.Lei stessa è scampata a malapena alla morte. Quando la folla inferocita è arrivata alla sua porta, è stato il suo vicino azerbajgiano a tenere a bada gli aggressori. La famiglia è poi fuggita da Sumgayit e si è trasferita in Karabakh, dove però sono scoppiate violenze ancora maggiori. Suo figlio è stato uno delle migliaia a morire nella prima guerra del Nagorno-Karabakh.

Ora, 30 anni dopo, è stato suo nipote ad andare a combattere. “Continuiamo a vedere solo guerra”, mi ha detto con un sospiro. Una storia di violenza che si ripete come una “ruota che gira”.

Ma Gyulvard non ha perso la speranza. Sua nipote, Elmira, mi ha raccontato che alcuni mesi prima che la guerra scoppiasse Gyulvard aveva avuto un incubo, che preannunciava il conflitto. “Ne aveva poi avuto un altro, dieci giorni prima della firma degli accordi di pace, in cui Gyulvard si era vista in una chiesa, dove aveva sentito una voce che le diceva di accendere dieci candele, e una volta che lo ha fatto la voce l’ha rassicurata sul fatto che ora, finalmente, la pace sarebbe arrivata”.

[1] Dvin Titizian. Originaria di Toronto, Canada, Dvin vive in Armenia da 19 anni. Dopo molti anni di lavoro che le ha distrutto l’anima, alla fine ha preso un rischio e ha smesso di continuare a flirtare con la scrittura. Dopo aver lavorato come consulente freelance, copyeditor e traduttrice per un anno, è entrata a far parte di OC Media nell’autunno del 2019, coprendo tutto l’Armenia. È anche orgogliosa della sua occupazione secondario come mamma a tempo pieno di due ragazzini.

[2] Open Caucasus Media: “Giornalismo feroce e indipendente. Siamo onesti, la situazione dei media nel Caucaso è grave. Ogni giorno siamo accusati di ‘servire il nemico’, chiunque quel nemico possa essere. I nostri giornalisti sono stati molestati, arrestati, picchiati ed esiliati. Tuttavia, perseveriamo. Per noi questo è un lavoro d’amore. Open Caucasus Media ti offre notizie, commenti, contenuti multimediali e indagini dal Caucaso settentrionale e meridionale, con un’analisi approfondita delle questioni, dei movimenti, dei conflitti e delle persone che plasmano la regione. Siamo orgogliosi del nostro impegno per il giornalismo etico e dei nostri valori fondamentali:
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Foto di copertina: Il monastero di Geghard, un’eccezionale costruzione architettonica che si trova nell’omonimo comune nella provincia di Kotayk’, in Armenia. Esso è parzialmente scolpito nella roccia di una montagna adiacente. Nell’anno 2000 è entrato a far parte della lista dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.

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