Delle dimenticanze selettive, sull’auto-inganno e le maschere per la zona di conforto. Case studies and salutary lessons

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Nei giorni scorsi abbiamo – doverosamente da comunicatori, ma dolorosamente da cattolici- dedicato molto tempo al caso Becciu, ormai diventato il caso L’Espresso, dopo lo scoop del quotidiano Libero, con gli articoli di Vittorio Feltri e Renato Farina, seguiti dall’intervento di Lucetta Scaraffia sul Quotidiano Nazionale e l’intervista di Gianni MInoli per “Il mix delle cinque” su Radio Rai Uno, che abbiamo riportato [QUI troverete i link alla nostra copertura].
Oggi, con l’articolo di questa mattina di Marco Tosatti su Stilum Curiae, rimaniamo in un certo senso in tema, anche se qui si tratta del rapporto McCarrick, ormai diventato il rapporto Viganò. Non solo perché pure qui entra in scena Becciu e questo si fa inciampiamo (come una pietra d’inciampo) in un’altra “scomodità” del porporato (a parte l’ambito di un futuro conclave e del futuro dell’Ordine di Malta, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi). In sostanza, si tratta sempre del medesimo fenomeno, di cui parleremo nella Postilla: “Delle dimenticanze selettive, sulle bugie dell’auto-inganno e le maschere per la zona di conforto”.

Buona lettura, buona riflessione e coloro che ne sono ancora capaci, sono invitati ad accendere le sinapsi del (proprio) cervello, perché ne è tanto bisogno. Le tessere sono sul tavolo, basta comporre il puzzle…

E armatevi di tanto buon senso, perché – ribadisco, praemonitus, praemunitus, che è un proverbio latino, riferito a coloro che hanno la brutta abitudine di affrontare le cose troppo superficialmente con la sciatteria imperante, perché non si comportino come degli arrabbattoni, ma tengano conto degli utili suggerimenti ricevuti… uomo avvisato, mezzo salvato – di seguito ci avventuriamo in un mondo di dimenticanze selettive, di auto-inganno e di maschere. Perciò, anime sensibili si astengono dal continuare.

McCarrick, il Rapporto Vaticano e Viganò. Abbiamo un Papa proprio distratto…
di Marco Tosatti
Stilum Curiae, 27 novembre 2020

Adesso che il frastuono del rapporto McCarrick, quello disegnato ad usum delphini dalla Segreteria di Stato, si è un po’ placato, mi permetto sommessamente di spigolare su alcuni dettagli, che però dettagli non sono.

Tutti ci ricordiamo dell’intervista che Valentina Alazraki gli ha fatto, e della domanda su McCarrick e Viganò. Chiedeva Valentina: «Ci sono alcuni che continuano a pensare che è vera e che continuano a chiedersi il perché, se lei sapeva o no di McCarrick. Nella stampa c’è di tutto ovviamente».

Papa Francesco: «Di McCarrick non sapevo nulla, naturalmente, nulla. L’ho detto diverse volte, non sapevo nulla. Voi sapete che io di McCarrick non sapevo nulla, altrimenti non avrei taciuto. Il motivo del mio silenzio è stato prima di tutto che le prove erano lì, vi ho detto: “giudicate voi”. È stato davvero un atto di fiducia. E poi, per quello che vi ho detto di Gesù, che nei momenti di accanimento non si può parlare, perché è peggio. Tutto va a sfavore. Il Signore ci ha indicato questo cammino e io lo seguo».

Ora, ricordiamoci anche che quel 23 giugno 2013, in cui l’arcivescovo Viganò ebbe un’udienza con il neo-Pontefice, fu Bergoglio ad aprire il tema McCarrick, e non il Nunzio. Il Papa gli chiese qualcosa del genere: McCarrick come è? E infatti dopo l’intervista mons. Viganò dichiarò: “Fa finta di non ricordare cosa gli ho raccontato di McCarrick e fa finta che non sia stato lui a chiedermi di McCarrick in primo luogo”. E conclude: “Che il papa abbia detto di non sapere nulla è una bugia”. Ora sappiamo che questo Pontefice, ahimè, si concede diciamo così, delle piccole libertà con la verità, sia quella passata sia quella delle intenzioni [QUI, QUI e QUI].

* * *

Ma è proprio così? McCarrick per lui era un cardinale fra i tanti? E nessuno gliene aveva detto nulla? Ora dal rapporto preparato dalla Segreteria di Stato, e in cui mancano – elemento assolutamente sbalorditivo – sia il Segretario di Stato, il cardinale Angelo Sodano, protagonista assoluto dell’ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II, sia il Segretario di Stato di Benedetto XVI, il cardinale Tarcisio Bertone – emerge che due dei principali collaboratori di papa Bergoglio gli avevano parlato di Theodore McCarrick eccome.

Per quanto riguarda l’allora arcivescovo Angelo Becciu – all’epoca sostituto in Segreteria di Stato – il rapporto afferma che Becciu ha  ricordato in un’intervista “di aver menzionato a papa Francesco l’esistenza di vecchie accuse relative a McCarrick nel 2013 e poi di nuovo a un certo punto tra il 2014 e il 2016”.

Becciu è venuto a conoscenza di alcune importanti informazioni da quando, nel 2000, ha lavorato come funzionario della Nunziatura di Washington, diventando così testimone della preoccupazione del nunzio Gabriel Montalvo per i misfatti di McCarrick. Il rapporto afferma che Becciu “disse a papa Francesco che il nunzio Montalvo era apparso scioccato quando venne a sapere della nomina a Washington perché Montalvo aveva escluso McCarrick dalla terna dopo aver ricevuto lettere che riportavano accuse fatte da altri sulla precedente condotta immorale di McCarrick con un seminarista”.

Ma non solo, Becciu ha anche detto al Santo Padre che “era sua convinzione che a McCarrick fosse stato successivamente vietato di viaggiare, e che questo era in relazione alle stesse accuse che erano emerse prima della nomina a Washington”.

Il rapporto racconta di un’occasione in cui McCarrick venne a Roma, dicendo che “ha ricordato l’arcivescovo Becciu chiedendo retoricamente: ‘Ma cosa ci fa McCarrick qui? Non dovrebbe essere qui’”.

L’altro personaggio importante che ha portato McCarrick all’attenzione del Pontefice è l’attuale Segretario di Stato, Pietro Parolin. Nel marzo del 2016 McCarrick scrive a papa Bergoglio e al card. Parolin. Il porporato statunitense si rivolge così a Francesco: “Santo Padre, grazie per avermi permesso di portare avanti queste mie piccole opere. Spero di poter essere utile a Lei e alla Chiesa e sono, naturalmente, sempre disposto a lasciar passare tutto, se in qualche modo Lei preferisce che io vada in un ritiro più profondo o in una casa di preghiera”. Questa ultima frase è interessante e indicativa: leggendola, sembra evidente che McCarrick desse per scontato che papa Francesco fosse consapevole delle “restrizioni” poste alla sua vita dal Vaticano; e forse che i due ne avessero parlato in una precedente conversazione.

Anche qui è utile ricordare che poco prima del 23 giugno 2013 mons. Viganò aveva incrociato McCarrick che usciva dall’udienza con il Pontefice, e vedendo il Nunzio, gli ha detto con un gran sorriso e in tono trionfante: “Mi manda in Cina”.

Il rapporto ricorda che il card. Parolin aveva ricevuto una lettera simile; e colse  l’occasione per parlare del caso McCarrick. Secondo quanto riporta il Rapporto, Parolin disse in “una breve conversazione con papa Francesco che McCarrick era stato ‘oggetto di pettegolezzi’ riguardo ad atti imprudenti del passato con adulti e che la Congregazione per i Vescovi aveva precedentemente indicato a McCarrick che egli avrebbe dovuto condurre una vita più riservata e non viaggiare così tanto”. Il rapporto prosegue dicendo che “il cardinale Parolin ha ricordato che “non la ha presentata come una questione di grave preoccupazione, o come qualcosa di molto grave”, ma che ha chiesto se si dovesse fare qualcosa, notando che ‘Continua a scrivere. Continua a viaggiare. Continua a incontrare persone’. Il cardinale Parolin ha ricordato che papa Francesco ha commentato che “forse McCarrick potrebbe ancora fare qualcosa di utile”.

E lì la questione McCarrick giacque, fino a quando James Grein, il seminarista che McCarrick avrebbe molestato quando era ancora minore, non ha deciso di aprire nei suoi confronti un’azione giudiziaria, facendo esplodere la bomba.

Questi sono gli elementi del puzzle. A ciascuno di voi giudicare quanto siano attendibili le “distrazioni” di papa Bergoglio, le sue amnesie, (o bugie, se vogliamo credere a Viganò) e quanto sia attendibile un rapporto che cerca di scaricare tutte le responsabilità su un pontefice che all’epoca, molto malato, si fidava dei suoi collaboratori. Ma che il rapporto, preparato dagli stessi – la Segreteria di Stato – che in realtà era parte in causa si è ben guardato dall’interrogare. Chissà perché…

Postilla
Delle dimenticanze selettive, sulle bugie dell’auto-inganno e le maschere per la zona di conforto

A largo ci sono dei geni – in giro con una sfera di cristallo e nel possesso di dote divinatorie insospettate – secondo cui il povero ingenuo Papa Francesco viene “ingannato” da collaboratori infedeli (però, di cui si è contornato lui), mentre altri, con più onestà intellettuale, ammettono di “non sapere”, e nell’ignoranza si sforzano a credere che sia così. Credere alle favole di Esopo, però, è esemplare, mentre restare nella propria zona di conforto con l’auto-inganno non lo è.

Invece, la realtà ormai è sotto gli occhi di coloro che dispongono ancora della capacità di vedere (non essendo ciechi), di guardare (senza paraocchi) e di voler osservare (per capire e trovare la verità). E la verità è che il “povero Francesco, si è auto-ingannato un’altra volta” (Cit.). “Quante ‘dimenticanze selettive’ ha avuto Bergoglio in questi ultimi 8 anni? C’è ancora qualcuno che crede alle sue versioni dei fatti? (Cit). “Dimenticanze selettive” operate con scaltrezza: non ha detto l’Uomo che Veste di Bianco di sé stesso che è furbo? “Come ripete spesso il Papa: ‘La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione’. Che cosa c’è di attraente in questa pastorale della manipolazione? Salvare la faccia del Capo è la grande priorità del Vaticano” (Cit.).

I fatti che si scoprono – nonostante la cortina di fumo e il muro impenetrabile del silenzio o del parlare lacunoso e ingannevole della Santa Sede – dimostrano che la realtà è proprio questa: la priorità di coprire le azione del Sovrano… e di nascondere le tracce lasciate – talvolta maldestramente – dai suoi collaboratori, nell’esecuzione degli ordini o nell’assecondare dei desideri e delle volontà del Capo.

Come e perché si finisce per credere alle proprie bugie e dimenticare selettivamente i fatti scomodi del proprio passato? Le bugie hanno una funzione sociale, permettono di sottrarsi allo sguardo inquisitore, alle inchieste sul proprio operato, al giudizio e al rifiuto degli altri. La menzogna funziona come una maschera per uniformarsi al gregge o per creare delle dinamiche al proprio vantaggio, per esacerbare le proprie qualità o per nascondere le proprie mancanze, con delle dimenticanze selettive.

Il passato non si può cambiare, ma la mente umana è piena di risorse e non teme di fare ricorso ad alcuni stratagemmi se questo significa dare un termine ad una sofferenza che mina il proprio equilibrio interiore. Questo fenomeno si chiama auto-inganno.

La psicologia clinica ci insegna, che nell’auto-inganno le bugie funzionano come una protezione del sé, una sorta di “anestetico psicologico”, a protezione dell’autostima, con lo scopo di non avere consapevolezza di aspetti o situazioni della propria storia di vita, che potrebbero produrre disagio o risultare insopportabili.

In sostanza, l’auto-inganno è il mentire del sé a sé stessi. Per capire questo fenomeno, dobbiamo rivolgerci, appunto, alla psicologia clinica, che insegna che l’auto-inganno è una delle grandi trappole della mente. L’auto-inganno si verifica in situazioni in cui una persona si auto-convince della verità di una realtà che invece è falsa, ma lo fa inconsciamente. E qui sta la differenza tra la menzogna e l’auto-inganno. Nella menzogna la persona è consapevole di non dire la verità, mentre nell’auto-inganno una realtà che è falsa senza esserne consapevole viene accettata come vera. Quindi, costui che si auto-inganna non si rende conto che lo sta facendo, o almeno non lo capisce sempre (e non è detto che non dice anche delle menzogne). Qui sta proprio il potere dell’auto-inganno. Mentre l’auto-ingannato non se ne rende conto, l’auto-inganno dimostra il suo potere, a modo suo, che potrebbe essere qualificato come silenzioso e camaleontico (atteggiamento, comportamento, ecc., che muta spesso, incoerente, incostante, instabile, mutevole, variabile, volubile, opportunistico…).

Esistono diversi tipi di autoinganno, alcuni dei quali sono più frequenti di altri. Inoltre, ognuno di essi ha diversi effetti psicologici.

Nell’autoinganno “funzionale” la persona cerca di convincersi, che la sua decisione è corretta, come nella favola della volpe caratterizzata dalla sua astuzia e dell’uva di cui si auto-convince che non è abbastanza matura, mentendo a se stessa per evitare il disagio che deriva dal fallimento di non aver soddisfatto il suo bisogno di raggiungere l’uva; a breve termine è funzionale, perché la persona decide di trasformare una verità (non essendo in grado di raggiungere un obiettivo) in una bugia che la rassicura (l’obiettivo non ne vale la pena); a lungo termine, prolungato in eccesso produce l’effetto opposto al desiderato (la persona che usa l’auto-inganno funzionale non si fida e rimane costantemente nella sua zona di conforto, perché invece di imparare le abilità necessarie per raggiungere l’obiettivo che desidera, continua a mentire a se stessa pensando che ciò che voleva non è più così prezioso o che non vale lo sforzo richiesto dal suo ottenimento).

L’autoinganno “valore da credere” nasce dalla necessità di porre fine alla dissonanza cognitiva, caratterizzato dalla convinzione che se qualcosa costa moltissimo (in termine di soldi, tempo o sforzi), ha più valore di quello che non richiede un prezzo così alto; la persona finisce per credere che l’obiettivo è prezioso per giustificare l’investimento fatto, altrimenti apparirebbe la dissonanza cognitiva; l’essere umano non è in grado di mantenere una contraddizione per molto tempo nel suo sistema cognitivo (credenze, pensieri e idee) e il suo sistema comportamentale (azioni, comportamenti) e l’auto-inganno “valore da credere” appare come un modo per risolvere la contraddizione, però ha una “data di scadenza” perché a lungo termine, la persona finisce per esserne consapevole e si sente delusa.

Una persona mente anche a sé stesso per tenere un agente esterno responsabile della propria situazione e si sente dispiaciuto per se stesso. E spesso esternalizza pensieri – che farebbero pensare a delle fobie – per trovare conforto e protezione per l’autostima e per l’ego. Fa credere ai suoi interlocutori, che nulla di ciò che accade è colpa sua, caso mai che è ingannato e che in conclusone è vittima della situazione. Da un lato, questo è ingannevole per gli interlocutori, poiché in molte situazioni veramente non è responsabili al 100% delle circostanze che affronta. Ma d’altra parte, questo immobilizza, impedisce di affrontare i problemi che fanno stare male, conferma che è impossibile superarli e rende impossibile il cambiamento.

Uno dei modi più sottili per ingannare sé stesso è mentire agli altri, per mentire a sé stesso. La persona che si auto-inganna racconta storie, parla di situazioni e percezioni distorte. Mentre inizialmente è consapevole delle piccole distorsioni della realtà, con il mentire agli altri ripetutamente, le sue bugie diventano per lui verità, perché il cervello si adatta alla disonestà e le bugie vengono vissute come delle realtà. La persona che si auto-inganna “dimentica” di aver costruito una falsa verità e anche di fronte all’evidenza empirica della sua stessa menzogna, costui riesce a continuare a negare la realtà, non per mancanza di onestà, ma per lo stesso effetto dell’auto-inganno.

Va tenuto presente che nessuno è libero dall’auto-inganno. Si tratta di un fenomeno osservato molto frequentemente nella psicologia clinica e, fino a un certo grado, è anche normale. Essere libero dalle bugie del sé a sé stesso richiede una riflessione interiore personale. Guardare nel proprio inconscio, conoscere i propri valori, ideali e desideri è il primo passo per proteggersi dall’auto-inganno e concentrarsi su obiettivi da raggiungere per davvero, nel mondo reale e non nel costrutto dell’auto-inganno.

“Mentire è un gioco linguistico che deve essere imparato come qualsiasi altro” (Ludwig Wittgenstein).

“Chi dice una bugia non sa quale compito ha assunto, perché sarà costretto a inventarne altri venti per sostenere la certezza di questa prima” (Alexander Pope).

“Imparerai a tue spese che, nel lungo tragitto della vita, incontrerai tante maschere e pochi volti” (Luigi Pirandello).

Quanto è attuale la massina di Pirandello, tratta da “Uno, nessuno e centomila”! Quante maschere non abbiamo incontrato nella vostra vita. Purtroppo, ci è capitato spesso di frequentare delle persone – anche tra gli amici – con la maschera, che non si facevano scrupoli ad offendere, confabulare e tradire al fiducia concessa, senza neanche l’intelligenza di farlo con cognizione. E noi, non abbiamo mai indossato una maschera (e ovviamente non si tratta delle mascherine anti coronavirus cinese di Wuhan)?

Il pensiero pirandelliano si focalizza sulla persona che recita continuamente sul “palcoscenico della vita”. Non a caso, la parola “persona” deriva dal greco “pròsopon” che significa “maschera”. Nel teatro greco la maschera veniva indossata dagli attori per nascondere il proprio volto, la propria identità personale e sociale, per poter trasformarsi in un altro diverso del sé.

Allo stesso modo nella vita reale, secondo la frase di Pirandello, le persone indossano delle maschere, che le impediscono di essere sé stessi, costringendoli a recitare continuamente personaggi diversi a seconda del momento contingente, del contesto con cui vengono in contatto e delle persone con le quali si relazionano. E la mascherina come protezione individuale contro la diffusione del coronavirus cinese di Wuhan ce lo fa capire drammaticamente.

Ogni persona è più persone contemporaneamente, in una “frantumazione dell’io”. Ogni persona è “una, nessuna e centomila”. Ogni persona appare “una” a sé stessa, come cioè crede di essere, ma verrà giudicata dagli altri in “centomila” modi diversi, poiché essi colgono solo un aspetto del suo essere. Sarà però “nessuna”, perché nessuna di quelle maschere che si mette – né quella che lui si è data, né quelle imposte dagli altri – potrà mai essere quella vera, definitiva, poiché ogni persona è soggetta a divenire diversa in ogni istante. Togliersi “la maschera”, essere sé stessa, comporta alla persona sofferenza, richiede molta energia psichica, perché comporta essere etichettata “folle”, “pecora nera”, “inadattata”. E queste situazioni generano insicurezza, disorientamento, perdita della dell’auto-stima del sé. Quindi, la persona si auto-convince di ri-mettersi una delle sue maschere, rinunciando alla libertà di essere sé stessa, rifugiandosi nella propria zona di conforto.

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