È un ex manager il nuovo arcivescovo di Canterbury. Si chiama Justin Welby. E si è formato nella Dottrina Sociale.

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Sarà tra soli dieci giorni il primo banco di prova di Justin Welby,  nuovo arcivescovo di  Canterbury. La Chiesa di Inghilterra è chiamata ad approvare l’ordinazione delle donne vescovo, un tema divisivo all’intero del mondo anglicano. Al sinodo, Welby non sarà ancora stato intronizzato a Canterbury: la celebrazione è prevista per il 21 marzo 2013. Ma i riflettori saranno ovviamente puntati su di lui, chiamato a mettere in luce le sue doti di pragmatismo e umanità che lo hanno distinto tra tutti i vescovi anglicani. E che lo hanno catapultato, dopo un solo anno come vescovo di Durham, a capo della Comunione anglicana.

 

D’altronde, quando gli hanno chiesto, in una intervista, come avrebbe fatto a tenere unita la comunità anglicana sulla questione dell’ordinazione delle donne vescovo, Welby ha risposto che “il trucco è di guardare il cerchio e dire che è un cerchio con delle parti appuntite”. Un trucco che forse ha messo a punto nel suo passato da manager, dove compromessi e divisioni sono all’ordine del giorno. Più che a un “covenant”, un patto che tenga unita la Chiesa d’Inghilterra, Welby penserebbe piuttosto di mantenere tutte le differenze, cercando di evitare i conflitti. È contrario alle unioni omosessuali – e su queste ha criticato anche il primo ministro Cameron – ma non alle donne vescovo, sulle quali ha già dichiarato che voterà a favore al prossimo sinodo della Chiesa d’Inghilterra. È di una spiritualità rigorosa, e allo stesso tempo appare essere l’esatto opposto di Rowan Williams. Tanto il precedente primate della Chiesa d’Inghilterra appariva liberal e aperto al dialogo con la Chiesa cattolica (e lo mostra l’accordo per l’ordinariato anglicano nella Chiesa cattolica, fatto digerire senza particolari contraccolpi), tanto Welby incarna l’anima più protestante della Chiesa anglicana.  Certo, il dialogo con la Chiesa cattolica non si ferma, l’obiettivo dell’unità resta. Ma magari può spostarsi su temi meno spirituali. Come la critica alla finanza internazionale. Un cavallo di battaglia di Justin Welby, un ex manager diventato vescovo che ha saputo essere molto caustico nel criticare l’avidità dei banchieri.

Cinquantasei anni, cinque figli, studi ad Eton e a Cambridge, Welby è stato ordinato a 37 anni, dopo una carriera di 11 anni nell’industria del petrolio. Decisivo per la sua vocazione, un evento drammatico: la morte di una figlia di appena 7 mesi in un incidente stradale in Francia. Alla prima conferenza stampa da arcivescovo di Canterbury si è detto “sopraffatto e sorpreso”. Si ritrova leader di una comunione di 77 milioni di anglicani nel mondo. Ma la sua forza è stato il consenso ampio che ha avuto tra i membri della Crown Nominations Commission, la commissione che viene chiamata a decidere il successore dell’arcivescovo di Canterbury. La commissione deve sottoporre la nomina alla regina, il capo della Chiesa anglicana, che ha l’ultima parola sulla decisione. A comunicare la scelta al nuovo arcivescovo di Canterbury (il 105esimo) è stato il premier inglese David Cameron.

Nella sua prima conferenza stampa da capo della Chiesa d’Inghilterra, Welby ha illustrato le sfide del futuro. Ha parlato “di un momento chiave nella storia della Chiesa che ha grandi opportunità, forse nascoste, ma presenti”, e ha sottolineato “la fame spirituale” che c’è nel mondo. Una fame spirituale sottolineata spesso anche da Benedetto XVI e dal patriarca della Chiesa ortodossa Kirill, in questi giorni in visita a Gerusalemme. È su questo tema che le Chiese sorelle e separate possono trovare una unità?

Ma Welby ha fatto di più. Ha esaltato gli “eroi dimenticati” della Chiesa anglicana, “lo zoccolo duro dei parrocchiani che, in 16 mila chiese, contribuiscono con 22 milioni di ore di volontariato”. Parole che vengono da un primate che comunque molti punti di contatto con la Chiesa cattolica. Lui stesso ha reso omaggio alla spiritualità benedettina e ignaziana in conferenza stampa, e ha sottolineato di essere formato dalla Dottrina Sociale della Chiesa cattolica.

E forse gli viene da questa formazione la posizione estremamente critica  nei confronti della finanza. Critica, e senza peli sulla lingua. Così quando sir David Walker, presidente della Barclays, si presenta nella Camera dei Lord lo scorso anno, dove Welby era rappresentante della Chiesa d’Inghilterra, l’allora vescovo di Durnham gli chiede a bruciapelo: “Ma voi banchieri perché vi arricchite speculando con i soldi degli altri?”

E lui, di meccanismi manageriali se ne intende. Dopo laurea e dottorato, ha cominciato a lavorare nelle aziende del petrolio: prima la Elf francese, poi la Enterprise Oil Plc. Fa la scalata, diventa un manager, viaggia tra Londra, Parigi e l’Africa (specialmente in Niger, nelle aree di estrazione). È un mondo difficile, quello della finanza. Welby si specializza, diventa un “trader” dei titoli derivati.

Ma nel 1987 muore una figlia, e il mondo gli si capovolge. La Chiesa Anglicana lo accoglie, consolidando una prassi degli ultimi anni: molta apertura e ordinazioni veloci nei confronti di quanti decidono di diventare sacerdoti dopo una esperienza “nel mondo”. Esperienza che Welby porta nell’attività pastorale. C’è molto della Dottrina Sociale della Chiesa in un suo testo del 1997, “L’etica dei derivati”, in cui anticipava in qualche modo quella che sarebbe stata la crisi finanziaria, la bolla speculativa che scoppierà a più riprese, fino alla crisi attuale.

Un tema che Welby ha ripreso lo scorso 26 ottobre, in un intervento su Etica e Finanza in una conferenza a Zurigo, pubblicato sul sito della diocesi di Durnham. Il titolo della conferenza è: “Riparare o sostituire. Da dove iniziamo tra le rovine?” Le rovine evocate nel titolo sono quelle della Cattedrale di Coventry nella Seconda Guerra Mondiale. E sono paragonate alla finanza di oggi. Un paragone forte, se pensiamo che la cattedrale di Coventry è per gli inglesi il simbolo della devastazioni della Seconda Guerra Mondiale.

E la risposta alla domanda del titolo per Welby è chiara: non basta riparare, perché la finanza – che in Inghilterra è nell’occhio del ciclone per via di recenti scandali – è del tutto distrutta. Occorre ricostruire. “Una delle colpe maggiori della situazione dei mercati pre-2008 è che funzionavano in modo sostanzialmente anarchico – sostiene Welby – comportavano un’attività frenetica, spesso svolta da persone intelligentissime e che lavoravano molto, ma tutto ciò senza alcuno scopo sociale. Si parlava di questa industria come dei servizi finanziari, ma di fatto non serviva proprio nessuno”.

Ma l’impresa – sostiene Welby, citando Giovanni Paolo II – è “una comunità di persone che servono”. Da qui, dice, si deve ripartire per ripensare la finanza, rimettendo alla base di tutto la capacità di sostenere chi ha più bisogno. Una filosofia che è propria dell’Economia di Comunione – se vogliamo guardare in ambito cattolico – e che è stata “istituzionalizzata” nell’enciclica Caritas in Veritate.

E in conclusione, Welby propone tre consigli per premiare l’attività bancaria con finalità sociali: limitare il supporto governativo solo a quelle banche e istituzioni finanziarie che hanno un chiaro ed esplicito valore sociale; istituire titoli bancari formali nell’investment banking che implica una quantità più che minima di denaro; premiare con un regime fiscale facilitato le banche che dimostrano uno scopo sociale, e punire quelle che non lo praticano.

Così, il vescovo manager potrebbe essere un pungolo per i brokers della City. Ma dovrà essere allo stesso tempo guida sicura per una comunione anglicana che si è divisa in questi ultimi anni su diversi temi. Riuscirà Welby a riportare la sua Chiesa ad unità?

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