Scusi cos’è un vaticanista?

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Quando oggi un giornalista si presenta come “vaticanista” forse non sa esattamente perché. Si certo, si occupa di fatti vaticani, di informazione religiosa, a volte tratta temi sociali. Ma la professione del “cronista dal Vaticano” ha una storia che negli ultimi 50 anni si è trasformata velocemente e che ha cambiato la percezione che delle “faccende vaticane” ha il lettore medio che oggi corre sul web per avere le notizie più aggiornate e più “curiose”, magari con qualche retroscena gustoso. Ma davvero è tutto qui? Nell’anno in cui si ricordano i 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II è bene ricordare non solo il ruolo che la stampa ebbe nel diffondere le notizie dei lavori, ma anche come il Vaticano trasformò il rapporto con i giornalisti fino a farlo diventare quello che è oggi. Da un rapporto personale ad uno istituzionale.

La Sala stampa della Santa Sede come la conosciamo oggi è ovviamente il frutto di molto più di 50 anni di relazioni tra i giornalisti e il Vaticano. I pontefici hanno sempre avuto un rapporto di “odio amore” con i media. E se già nel 1892 una intervista di Papa Leone XIII a Le Figaro scatenava polemiche, è anche vero che spesso i vertici della gerarchia ecclesiastica così come molti vescovi e sacerdoti non sono propriamente dei comunicatori al passo con i tempi. Eppure il Vaticano ha dato ospitalità ai giornalisti già alla fine degli anni ’30 e alla morte di Papa Pio XI c’era una piccola sala stampa allestita, nel Cortile di San Damaso. Impensabile oggi. Ma cosa è cambiato? I tempi certo. Fare i giornalisti, essere “cronisti del Vaticano” è sempre stata una sfida. Perché ovviamente in Curia c’era chi era contento e chi non voleva assolutamente vedere cronisti in giro. Così il gruppo di quattro, cinque “indirizzati” da monsignor Pucci che aveva un nipote giornalista, venne spostato un po’ più in là. E da dopo la guerra il servizio stampa si svolgeva a fianco all’ Osservatore Romano. I giornalisti erano ancora fisicamente in Vaticano. Cronache, interviste, racconti e confidenze erano il modo di dare spazio al Vaticano. Alla “corte” per così dire.

Tutto cambia invece con il Concilio. Il mondo post bellico del resto aveva già cambiato il ruolo del giornalista. Ne era emerso un profilo di chi trasmette un’ esperienza, di chi vive un fatto, e di chi sa mettere al centro di un articolo una questione. Fu la grandiosa esperienza del Concilio però a cambiare il modo di raccontare la Chiesa che, del resto, non è mai stata facile da raccontare e spesso è stata poco propensa a raccontarsi. I giornalisti escono definitivamente dalle Mura Leonine e viene inaugurata la Sala Stampa del Concilio. Fuori dal Vaticano, lontano dai palazzi della Curia, ma più vicini alla gente, alle Chiese locali che dal Concilio avevano avuto nuovo slancio e dignità. Cambiava tutto. A cominciare dal modo stesso di raccontare quello che succedeva nella grade assise che aveva preso tutti alla sprovvista. E se pure fin dal ‘61 si iniziò a distribuire del materiale alla stampa sui lavori delle commissioni, la vera svolta arrivò nel 1963 per opera di Paolo VI con il Comitato per la Stampa. Ma intanto erano i giornalisti che erano cambiati.

I giornali cattolici non volevano essere un “ghetto” legato solo all’ufficialità e mettevano in pagina la vivacità del dibattito conciliare. Quelli laici non potevano più limitarsi alle curiosità e ai racconti di cronaca. Ma poi anche il Concilio finisce. Certo per molto tempo si parla di quello di cui si era parlato nella assise, ma non del tutto. E così “passa” sulla stampa solo una parte minima di quello che è davvero successo nella Chiesa cattolica. Intanto però il lavoro del vaticanista si svolge sempre più fuori del Vaticano. Anche perché i Papi viaggiano. Non si segue solo la diplomazia vaticana, storicamente una delle migliori al mondo. Si segue il Papa che va incontro alla Chiesa nel mondo. Paolo VI inizia a viaggiare e Giovanni Paolo II ne fa un preciso stile di governo. E così prende a criticare il Papa come tale, quello che fa e che non fa, si giudicano i suoi incontri politici, si discute sui suoi discorsi, si valuta l’impatto di un viaggio sulla vita della nazione visitata. Ancora un cambio di rotta per la stampa, ma anche per l’istituzione.

La Sala Stampa intanto è diventata una struttura appunto istituzionale, il numero dei giornalisti accreditati cresce a dismisura e si arriva a qualche centinaio, decine di giornalisti seguono il Papa in volo sul suo aereo, lo incontrano ci parlano direttamente. Sensazionale, certo, ma sanno davvero mettere al centro dei loro articoli i temi che sono anche al centro della vita della Chiesa? Come sempre nel momento del massimo splendore inizia il declino. Il rapporto tra Chiesa e media, tra Vaticano e stampa vive la sua epoca d’oro con la forza della personalità di Giovanni Paolo II, ma lentamente perde di profondità. Tante cose da raccontare, discorsi, incontri, eventi che si susseguono creano uno stordimento mediatico. La Sala Stampa cambia ancora volto. Dopo aver avuto direttori che in pratica sono ancora degli esecutori arriva “lo stile Navarro”.

Joaquin Navarro-Valls, corrispondente di ABC, laicizza lo stile vaticano. Porta la sala Stampa alla diretta dipendenza della Segreteria di Stato, ma di fatto dell’ “appartamento” dell’entourage del Papa. Un azzardo che in certo momenti gli renderà la vita difficile. Fa lobbing per far passare le notizie in modo informale e “comunicare” con il mondo lontano dal Vaticano e dalla Chiesa Cattolica. Il successo mediatico è assicurato. Ma intanto però non si forma una nuova generazione di vaticanisti. Sono in pochi quelli che continuano a “studiare” il Vaticano, la Santa Sede. I giornalisti si annoiano a leggere i documenti per cercare di trovarci “la notizia”. Ora che i testi ci sono, che la maggior parte dei documenti è pubblica, che i bollettini arrivano con facilità, sembra che non interessino più le questioni che animano la Chiesa. Si preferisce “crearle”. Si torna paradossalmente indietro, alle indiscrezioni di “corte” agli intrighi e ai fatterelli. Le grandi questioni restano fuori. Troppo difficili da affrontare, troppo difficili da raccontare, troppo difficili da far capire ai direttori occupati ad andare ospiti nei salotti televisivi.

Così è più facile raccontare il dramma degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti come un mero problema di sesso piuttosto che come crisi dell’identità e della formazione sacerdotale che la Chiesa affronta da decenni (ci fu un sinodo nel 1990 dedicato proprio a questo). É più facile parlare di “messa in latino” per descrivere il fenomeno del “tradizionalismo” che dimentica l’annuncio missionario fondamentale della Chiesa a favore di una pericolosa deriva formalista. E sono solo esempi.

E allora che ruolo ha oggi la comunicazione istituzionale della Sala Stampa della Santa Sede? Che spazio ha nella vita della Chiesa e che relazione ha con i giornalisti che vivono la crisi dell’ autorità e dell’identità? Della “Nascita e lo sviluppo della Sala Stampa Vaticana dal Concilio ad oggi” hanno parlato ai giovani studenti della Lumsa alcuni testimoni come Gianfranco Svidercoschi, Joaquin Navarro- Valls, Pierfranco Pastore, Raniero La Valle, Gian Maria Vian e Federico Lombardi.
Il direttore della Sala Stampa ha parlato di trasparenza nella informazione istituzionale ricordando alcuni “eventi aperti” su temi mediaticamente rilevanti come le vicende finanziarie e il problema della pedofilia nella Chiesa. Sta di fatto che ognuno ha un suo stile, un modo di aiutare la Chiesa a raccontarsi e i giornalisti a raccontarla.

Ma questo è un capitolo della storia che stiamo ancora scrivendo, e nel quale noi donne che ci occupiamo di informazione vaticana potremmo avere un ruolo importante. Magari ripensando a quella pioniera che intervistò Leone XIII.

 

Nella foto: Il permesso stampa di Benny Lai firmato da Montini nel 1952

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