Contrordine carissimi fratelli tutti: il “decentramento” è rottamato. Sostituito il Canone 579: non saranno più i vescovi diocesani ma la Santa Sede ad approvare nuovi istituti religiosi

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Con il Motu proprio “Authenticum charismatis” del 4 novembre 2020 Bergoglio modifica la norma del Diritto Canonico che rende vincolante – che in passato era soltanto consultivo – il parere della Sede Apostolica nel riconoscimento di nuove comunità di vita consacrata in ambito diocesano. Questo viene a significare una chiara inversione di rotta di fronte a quanto annunciato nel primo anno di pontificato: “Il decentramento di Francesco: più poteri alle conferenze episcopali”. Questo era il titolo dell’articolo su Vatican Insider del 27 novembre 2013, a firma dell’allora Coordinatore redazionale della testata proprietà de La Stampa, oggi Direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, Dott. Andrea Tornielli, che riportiamo per intero di seguito [1]. Sempre risulta opportuno di avere qualche memoria storica.

La sostituzione del Canono 579 disposta da Francesco potrebbe sembrare una sfumatura, ma non lo è. Quale potrebbe essere il reale significato di parole come “collegialità”, “sinodalità”, “sussidiarietà”, “comunione”, “amicizia”, “fratellanza”, ecc. in confronto con questo nuovo cambiamento del Diritto Canonico?

Oggi Vatican News, la testate attualmente diretta da Tornielli, nel giro di boa che le è toccato di fare, fa riferimento – ovviamente non a novembre 2013 – alla Lettera ai consacrati del 2014, in cui Bergoglio afferma in riferimenti ai carismi, anche se fioriti in un determinato contesto territoriale, hanno per loro natura un carattere di universalità e dunque, ogni esperienza di vita consacrata “in quanto dono alla Chiesa, non è una realtà isolata o marginale, ma appartiene intimamente ad essa, sta al cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo della sua missione”. È questo l’orizzonte nel quale la narrazione di corte va a collocare forzatamente la decisione di Francesco di cambiare il Codice di Diritto canonico al Canone 579, sancita dalla Lettera apostolica in forma di Motu proprio “Authenticum charismatis”.

In sostanza, pur lasciando al singolo vescovo diocesano la facoltà di “erigere con formale decreto istituti di vita consacrata” nel proprio territorio di giurisdizione, la nuova norma richiede che ora la scelta del vescovo avvenga “previa autorizzazione scritta della Sede Apostolica”, mentre in precedenza nello stesso punto il canone 579 recitava “purché sia stata consultata la Sede Apostolica”, come è giusto che sia.

Canone 579 del Codice di Diritto Canonico promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983
Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto erigere possunt, dummodo Sedes Apostolica consulta fuerit.
I Vescovi diocesani possono, ciascuno nel proprio territorio, erigere con formale decreto istituti di vita consacrata, purché sia stata consultata la Sede Apostolica.

Nuovo Canone 579 stabilito da Francesco il 4 novembre 2020
Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto valide erigere possunt, praevia licentia Sedis Apostolicae scripto data.
I Vescovi diocesani possono, ciascuno nel proprio territorio, erigere validamente con formale decreto istituti di vita consacrata, previa licenza scritta della Sede Apostolica.

“Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma – afferma Francesco nel suo recente Motu proprio – è la sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti” e il “discernimento sulla ecclesialità e affidabilità dei carismi è una responsabilità ecclesiale dei Pastori delle Chiese particolari”. Allo stesso tempo – sottolinea Bergoglio, citando il Decreto conciliare “Perfectae caritatis” – si deve evitare che “sorgano imprudentemente istituti inutili o sprovvisti di sufficiente vigore”. Dunque, prosegue Francesco, “alla Sede Apostolica compete accompagnare i Pastori nel processo di discernimento che conduce al riconoscimento ecclesiale di un nuovo Istituto o di una nuova Società di diritto diocesano e ricorda che l’Esortazione apostolica Vita consacrata [2] afferma che la vitalità di nuovi Istituti e Società “deve essere vagliata dall’autorità della Chiesa, alla quale compete l’opportuno esame sia per saggiare l’autenticità della finalità ispiratrice sia per evitare l’eccessiva moltiplicazione di istituzioni tra loro analoghe, col conseguente rischio di una nociva frammentazione in gruppi troppo piccoli”. I nuovi Istituti di vita consacrata e le nuove Società di vita apostolica, conclude, “devono essere ufficialmente riconosciuti dalla Sede Apostolica, alla quale sola compete l’ultimo giudizio”.

Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede N. 571 del 4 novembre 2020 Lettera Apostolica in forma di “Motu proprio” del Sommo Pontefice Francesco “Authenticum charismatis” con la quale si modifica il can. 579 del Codice di Diritto Canonico

«Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti» (Esort. Ap. Evangelii gaudium, 130). I fedeli hanno il diritto di essere avvertiti dai Pastori sull’autenticità dei carismi e sull’affidabilità di coloro che si presentano come fondatori.
Il discernimento sulla ecclesialità e affidabilità dei carismi è una responsabilità ecclesiale dei Pastori delle Chiese particolari. Essa si esprime nella cura premurosa verso tutte le forme di vita consacrata e, in particolare, nel decisivo compito di valutazione sull’opportunità dell’erezione di nuovi Istituti di vita consacrata e nuove Società di vita apostolica.
È doveroso corrispondere ai doni che lo Spirito suscita nella Chiesa particolare, accogliendoli generosamente con rendimento di grazie; al contempo, si deve evitare che «sorgano imprudentemente istituti inutili o sprovvisti di sufficiente vigore» (Conc. Ecum. Vat. II, Decreto Perfectae caritatis, 19).
Alla Sede Apostolica compete accompagnare i Pastori nel processo di discernimento che conduce al riconoscimento ecclesiale di un nuovo Istituto o di una nuova Società di diritto diocesano. L’Esortazione apostolica Vita consecrata afferma che la vitalità di nuovi Istituti e Società «deve essere vagliata dall’autorità della Chiesa, alla quale compete l’opportuno esame sia per saggiare l’autenticità della finalità ispiratrice sia per evitare l’eccessiva moltiplicazione di istituzioni tra loro analoghe, col conseguente rischio di una nociva frammentazione in gruppi troppo piccoli» (n. 12). I nuovi Istituti di vita consacrata e le nuove Società di vita apostolica, pertanto, devono essere ufficialmente riconosciuti dalla Sede Apostolica, alla quale sola compete l’ultimo giudizio.
L’atto di erezione canonica da parte del Vescovo trascende il solo ambito diocesano e lo rende rilevante nel più vasto orizzonte della Chiesa universale. Infatti, natura sua, ogni Istituto di vita consacrata o Società di vita apostolica, ancorché sorto nel contesto di una Chiesa particolare, «in quanto dono alla Chiesa, non è una realtà isolata o marginale, ma appartiene intimamente ad essa, sta al cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo della sua missione» (Lettera ai Consacrati, III, 5).
In questa prospettiva dispongo la modifica del can. 579 che è sostituito dal seguente testo:
Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto valide erigere possunt, praevia licentia Sedis Apostolicae scripto data.
Quanto deliberato con questa Lettera Apostolica in forma di Motu proprio, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore il 10 novembre 2020 e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.
Dato dal Laterano, il giorno 1 novembre dell’anno 2020, Solennità di Tutti i Santi, ottavo del mio pontificato.
FRANCESCO

L’amico e collega Marco Tosatti ha osservato sul suo blog Stilum Curiae come questa notizia – “Papa autocrate toglie libertà ai vescovi” – “è passata sotto silenzio da parte della grande stampa, ma che è stata colta da chi ha una sensibilità ecclesiale pronunciata”. Alcuni spunti – che ha tratto da una lunga conversazione con un suo vecchio amico addentro al mondo curiale – “confermano come questo Pontificato, nato sotto il segno dell’autocrazia e dell’arbitrarietà, continui imperterrito su quella strada. Una vera pena, per chi crede nella Chiesa cattolica uno spazio di libertà e giustizia”.

Il Papa cambia ancora il Codice – Letture alternative
di Marco Tosatti
Stilum Curiae, 6 novembre 2020

Ormai siamo abituati ad una flessibilità normativa imbarazzante… Non solo DPCM ma anche Motupropri. E nel mondo vaticano ce lo insegnano i giustizialisti “Come una madre amorevole” o “Vos estis lux mundi” che mandano per aria secoli e secoli di garanzie del diritto e frantumano quei sacrosanti principi di giustizia che nel passato la Chiesa ha insegnato al mondo. Basta un tratto di penna e il diritto viene modellato in base alle esigenze del Principe, con buona pace di principio di legalità, come ricordava nel luglio dello scorso anno lo storico Roberto de Mattei nel suo articolo “Il principio di legalità si estingue nella Chiesa?”.
Oggi, 4 novembre, il Pontefice Misericordioso – perché gli altri sono stati tutti brutti e cattivi – ci regala un’altra perla della sua personalissima visione del diritto della Chiesa, che sembra quasi modellarsi su quelle tendenze antigiuridiste che hanno infettato gli anni dell’immediato post-concilio, poi messe a freno in parte da Paolo VI ma soprattutto da Giovanni Paolo II che nel 1983 promulgò il nuovo Codice di Diritto Canonico. Diciamo “sembra” perché dubitiamo che il Sommo de cujus abbia piena contezza di quelle teorie, visto che la sua è una visione prettamente strumentale fondata sulla classica supponente miopia sudamericana.
È di oggi, infatti, la pubblicazione del Motu Proprio Authenticum charismatis con la quale si riforma il testo del can. 579 del Codice di Diritto Canonico, che finora recitava così: «I Vescovi diocesani possono, ciascuno nel proprio territorio, erigere con formale decreto istituti di vita consacrata, purché sia stata consultata la Sede Apostolica» (Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto erigere possunt, dummodo Sedes Apostolica consulta fuerit); mentre ora suonerà così: «I Vescovi diocesani possono, ciascuno nel proprio territorio, erigere validamente con formale decreto istituti di vita consacrata, previa licenza scritta della Sede Apostolica» (Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto valide erigere possunt, praevia licentia Sedis Apostolicae scripto data).
La motivazione sarebbe un presunto principio di “maggiore ecclesialità”, in linea con un Rescritto ex audientiaal Cardinale Segretario di Stato che lo stesso Bergoglio aveva firmato nel giugno 2016, disponendo che quella “consultazione” prevista dal can. 579 dovesse “intendersi come necessaria ‘ad validitatem’, pena la nullità del decreto di erezione”.
In altre parole i Vescovi, che fino ieri avevano l’obbligo (“dummodo” introduce di solito una condizione necessaria) di consultare la Santa Sede prima di erigere definitivamente nella loro diocesi un istituto di vita consacrata, oggi per farlo hanno non solo l’obbligo di chiedere ma dovranno anche necessariamente ottenere per iscritto la licenza della Santa Sede, altrimenti il loro atto è nullo.
Sembra una sfumatura, e anzi potrebbe apparire quasi un atto dovuto avere l’approvazione della Santa Sede prima di erigere un istituto religioso… eppure tecnicamente per il diritto canonico non è così. E non è così nemmeno per la teologia (che è l’anima del diritto canonico), che vuole che il Vescovo, successore degli Apostoli, sia libero di stimare il carisma del singolo istituto e informare la Santa Sede della sua erezione, ma senza la necessità di avere un placet formale o, peggio ancora, una “licenza” scritta.
Curioso che una disposizione simile venga da un Papa che non fa altro che sbandierare a destra e a manca parole come “collegialità”, “sinodalità”, “sussidiarietà”, “comunione”, “amicizia”, “fratellanza”. Lo stesso Papa che ha rimesso ai vescovi il giudizio “aumma aumma” sul sacramento del matrimonio. Eppure, effettivamente, è lo stesso papa che ritiene i vescovi “suoi funzionari” (cosa che nemmeno Papa Bonifazio) tanto da considerarli passibili di “perdita dell’ufficio” (come se essere Vescovo equivalesse a fare il vicario per la pastorale giovanile) se accusati (e non dichiarati colpevoli, s’intende) di presunte culpae in vigilando. Da cui naturalmente il Misericordioso è esente, caso Becciu docet.
Ma, al di là di questo dato prettamente ecclesiologico – che conferma ancora una volta la visione accentratrice, dispotica, autocratica, autoreferenziale dell’enigmatico papa argentino – riteniamo vi sia un altro aspetto da non sottovalutare. La nuova disposizione viene da lontano come ricordavamo, e risale a quel Rescritto ex audientia del 1° giugno 2016 col quale Parolin si affrettava a comunicare che “Il Santo Padre Francesco … ha stabilito che la previa consultazione della Santa Sede sia da intendersi come necessaria ad validitatem per l’erezione di un Istituto diocesano di vita consacrata, pena la nullità del decreto di erezione dell’Istituto stesso” perché “ogni nuovo Istituto di vita consacrata, anche se viene alla luce e si sviluppa all’interno di una Chiesa particolare, è un dono fatto a tutta la Chiesa, vedendo la necessità di evitare che vengano eretti a livello diocesano dei nuovi Istituti senza il sufficiente discernimento che ne accerti l’originalità del carisma, che definisca i tratti specifici che in essi avrà la consacrazione mediante la professione dei consigli evangelici e che ne individui le reali possibilità di sviluppo, ha segnalato l’opportunità di meglio determinare la necessità, stabilita dal Diritto Canonico, di richiedere il suo parere prima di procedere alla erezione di un nuovo Istituto diocesano”.
Dunque il Papa mette in discussione le qualità di giudizio dei Vescovi che non saranno più realmente autonomi nella loro facoltà “nativa” di erigere un istituto di vita consacrata di diritto diocesano ma per farlo dovranno aspettare che la Santa Sede gli risponda per iscritto che possono procedere. Una forma di controllo quasi poliziesco che irretisce i carismi ma soprattutto, crediamo,  aziona un altro meccanismo, ancora più subdolo, in pieno stile sudamericano: evitare che i Vescovi che magari non sono del tutto in linea (non in comunione, attenzione!) col pensiero di Francesco possano erigere degli istituti religiosi che abbiano magari carismi “differenti” rispetto allo stile di questo celeste direttorio… ops, pontificato.
Se guardiamo, infatti, alla cronaca, il Rescritto del 2016 fu una risposta all’ingenuo tentativo di mons. Raymond Argüelles, vescovo di Lipa nelle Filippine, che si era reso protagonista dell’erezione di un’associazione pubblica di fedeli denominata “Fratelli di San Francesco e dell’Immacolata” attraverso la quale era convinto della bontà di dare ad alcuni membri dei soppressi Francescani dell’Immacolata, su cui si era già abbattuta la lama della Misericordia. Lo stesso documento avrebbe così bloccato l’erezione di un monastero femminile fondato in Gran Bretagna da suore esclaustrate dalle Francescane dell’Immacolata.
A nostro avviso è evidente che l’azione di oggi sia un ulteriore tentativo per tenere sotto scacco tutto ciò che sfugge al controllo e che potrebbe costituire un pericolo per la chiesa 2.0, anche perché non si comprende bene per quale motivo, mentre tutto è in rovina e la questione che quotidianamente i superiori religiosi del mondo si pongono è cosa fare dei propri beni visto il numero sempre più esiguo di vocazioni e di presenze, il Papa decide di stringere sulle modalità di costituzione di nuove ipotetiche realtà… In più è anche oggettivo che solo quei “pazzi” dei tradizionalisti potrebbero fondare oggi, in questa Chiesa e in questo mondo, degli istituti religiosi, e non certo i progressisti che, si sa, sono per lo smantellamento assoluto di tutta la piramide gerarchica.
E mentre si teme che a breve possa arrivare un’altra lama con la limitazione del diritto di dire la Messa antica così come riconosciuto ampiamente da Benedetto XVI col Summorum Pontificum, nulla ci toglie dalla testa che il vero senso dell’Authenticum charismatis sia stato scritto col succo di limone, e che in realtà contenga un veleno mortale che si inietta nel rapporto, ormai di fatto compromesso, tra autorità papale ed episcopale e aggiunge un’altra pietra al sepolcro della Chiesa del silenzio, quella Chiesa che resiste nella fede di sempre, quella Chiesa ridotta a una vita catacombale che per salvarsi dai pretoriani del bergoglismo pratico fa come un opossum, in attesa di una umanamente improbabile, ma spiritualmente sempre possibile, risurrezione.

[1] Il decentramento di Francesco: più poteri alle conferenze episcopali
Un paragrafo dell’esortazione «Evangelii gaudium» preannuncia cambiamenti e la «conversione del papato»: la centralizzazione «complica» e non aiuta la missione
di Andrea Tornielli
Vatican Insider, 27 novembre 2013 (ultima modifica: 16 luglio 2019

È un paragrafo breve, ma preannuncia cambiamenti significativi, che riguardano lo stesso papato e prevedono decentramento e maggiori competenze per le conferenze episcopali. Al numero 32 del documento reso noto oggi, Bergoglio, riferendosi alla «conversione pastorale» da lui chiesta a tutta la Chiesa, scrive: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato».
«A me spetta, come vescovo di Roma – aggiunge Francesco – rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione». Bergoglio ricorda che Papa Wojtyla, nell’enciclica «Ut unum sint» (1995) chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Ma, osserva Francesco, «siamo avanzati poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente»”.
Ma anche questo auspicio conciliare, osserva il Papa, «non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria».
Ci si può dunque aspettare che tra le riforme che verranno studiate da parte del consiglio dei otto cardinali si preveda anche un ruolo accresciuto delle conferenze episcopali. Già il Sinodo dei vescovi del 1985 aveva avanzato la raccomandazione che fosse più ampiamente e profondamente esplicitato lo studio dello status teologico e giuridico delle conferenze dei vescovi e soprattutto il problema della loro autorità dottrinale. Attualmente il Codice di diritto canonico stabilisce alcune competenze dottrinali delle conferenze episcopali, come il «curare che vengano pubblicati catechismi per il proprio territorio, previa approvazione della Sede Apostolica», e l’approvazione delle edizioni dei libri delle sacre Scritture e delle loro versioni.
Nel 1998, con il Motu proprio «Apostolos suos», Giovanni Paolo II aveva ricordato che le conferenze episcopali vanno considerate nel quadro dell’intero collegio dei vescovi, e che esse non sono soggetto collegiale del governo delle Chiese particolari né istanza intermedia tra i singoli vescovi e l’intero collegio episcopale.
Ora Francesco afferma di voler compiere un passo in più nella direzione del decentramento. A questo il Papa aveva accennato anche nell’intervista con «La Civiltà Cattolica». «I dicasteri romani – aveva detto – sono al servizio del Papa e dei vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle conferenze episcopali locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori».
S’intravvede qui il disegno di riformare la Curia romana, rendendola meno burocratica e più snella, ma soprattutto configurandola come strumento al servizio del Papa e delle Chiese, non come organismo centrale di controllo e di governo. Per realizzare questo, oltre ad accorpare i dicasteri esistenti, si trasferiranno competenze dal centro agli episcopati locali.

[2] del 25 marzo 1996 di San Giovanni Paolo II.

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