Card. Sepe: Non ci si salva da soli

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Una riflessione sulla precarietà e sulla possibile azione pastorale in un contesto divenuto più vulnerabile a causa del Covid-19 è l’ultima Lettera pastorale dell’arcivescovo di Napoli, card. Crescenzio Sepe, dal titolo ‘Seppellire i morti. Annunciare il Signore della vita’ sulla settima opera di misericordia:

“La settima opera di misericordia è un atto della pietà cristiana, riconosciuto come l’ultimo gesto di rispetto e di amore verso chi è giunto al suo decisivo traguardo. Seppellire esprime una carità che è pietà verso di lui e verso i suoi cari. Un gesto gratuito, forse ‘inutile’ secondo le logiche dell’efficienza, ma prezioso perché carico d’amore”.

Nella lettera il cardinale sottolinea la difficoltà nel parlare della morte: “In Occidente è andata progressivamente affermandosi una concezione estremamente soggettiva della vita con la conseguente accentuazione privatistica della sua fine. Ci si comporta in realtà come se la morte non esistesse. Questa risulta l’unica maniera di affrontare l’angoscia della fine da parte di una società, cui non resta più nessuna attesa di vita eterna”.

Però l’unzione dei malati era un evento comunitario: “Accompagnare chi è in fin di vita è un gesto di grande pregnanza umana. Sentirsi sostenuti aiuta a dare alla morte stessa un significato alto: ad accoglierla più che a subirla. E’ quello il momento di ridare a Dio la propria vita, con sofferta consapevolezza, e non permettere che ci venga strappata.

Accade così che si scorga sulle labbra del credente un ultimo sorriso, rivolto a Colui che, chiamandoci per nome, con un bacio viene a prendersi l’anima per rivestirla di eterna bellezza. Quando al morente vengono meno le parole, resta appena un bisbiglio che Dio sa capire e abitare”.

Ma cosa dice all’uomo questa opera di misericordia, secondo l’arcivescovo: “La Chiesa, nella sua saggezza, ha elaborato nel tempo diverse metodiche per prendersi cura di coloro che si avvicinano alla morte. In questi contesti, essa non dispiega la propria dottrina, non mette in campo norme astratte di comportamento. Usa gesti, parole, relazioni personali. Vero e sentito viatico: l’ultima carezza, l’ultimo abbraccio, l’addio e poi la preparazione della salma, la veglia, la liturgia esequiale. La vita appare così un dono di grazia”.

Quindi assume una grande rilevanza la visita al cimitero: “Rileggere quella storia genera nuove emozioni, perché ci immerge in una vicenda che ci ha toccato da vicino e che sentiamo ancora viva, ancora nostra, con il suo bagaglio di emozioni, insegnamenti, ricordi. Non a caso coloro che si recarono alla tomba di Gesù furono coloro che lo amarono di più: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni, il discepolo amato.

Avevano capito che un amore come quello non poteva annullarsi nella morte. Lo amarono anche da morto di amore ‘impossibile’, che spinse Dio a trovare soluzioni altrettanto impossibili: intervenire sul corpo morto di Gesù, risuscitandolo”.

Ed  ha un elogio particolare per Napoli: “Napoli, si sa, ha sempre avuto un rapporto speciale con i propri defunti. Qui il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita; qui rimane vivo solo ciò che ci sta veramente a cuore. Secondo il sentire popolare, connotato da una spiritualità semplice e intensa, gli uomini dopo la morte conservano solidi rapporti con i loro cari. Continuano a proteggerli, proprio come se fossero ancora vivi. Per questa ragione molti si recano sulla tomba dei propri cari per continuare quella frequentazione umana, quello scambio d’intese che avevano avuto in vita”.

Quindi quest’opera di misericordia mostra una particolare devozione: “Una devozione, quella dei defunti, che non viene praticata solo negli spazi cimiteriali, ma è diffusa su tutto il territorio, avvertita nella quotidianità della vita. Ancora oggi, attraversando i vicoli della città, non è difficile imbattersi in particolari edicole votive, in curiosi tempietti dedicati alle anime del purgatorio. La scena dipinta rappresenta sempre delle figure oranti avvolte in fiamme, a braccia aperte, in attesa di un suffragio, di una preghiera, di un sollievo per le loro pene, nella speranza di accelerare la loro ascesa al Paradiso”.

Inoltre il cardinale offre ai fedeli due strumenti, di cui il primo è la preghiera: “Si prega per i morti per celebrare la vita, perché essi sono vivi nel Signore. La liturgia non ha singhiozzi, perché ciò di cui fa memoria non è la morte, ma la risurrezione: tutti moriamo nello Spirito Santo, primo dono ai credenti, che effonde su di noi la sua rugiada. Essa ci ricorda che la nostra vita si affaccia sull’altrove, sconfina in Dio. Pregare per i morti vuol dire credere che esiste un legame diretto tra la terra e il cielo, che alla fine incontreremo Dio, l’Amato, e saremo accolti nella sua eterna dimora”.

L’altro strumento per esprimere la pietà per i defunti è la carità: “Elemosina è un termine che sembra fuori moda. Talvolta è considerata un gesto paternalistico, che umilia l’altro e lo lascia nella sua condizione di dipendenza. In effetti, essa (se mal intesa) alimenta il parassitismo e inibisce lo sviluppo verso una vita più dignitosa. Ma, in realtà, racchiude in sé un autentico impulso di condivisione, la percezione sofferta di un bisogno altrui. Nei momenti di emergenza è determinante e indifferibile aiutare a rialzarsi chi è nella polvere”.

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