Il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, per il costituzionalista Azzariti “è una truffa”

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Il 20 e 21 settembre 2020 si voterà per un referendum costituzionale sulla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari di Camera e Senato. È quindi il caso di sapere come ci si è arrivati, cosa dicono i partiti e quali sono gli argomenti a favore del Sì e del No.

“Riforma improvvisata per motivi strumentali” e addirittura “un referendum truffa”, lo definische il costituzionalista Gaetano Azzariti. In un’intervista a “La Stampa” motiva il suo severo giudizio, dicendo che “essenzialmente ci fanno parlare di numeri e non del vero problema, che è la fuga del potere dal Parlamento”, perciò definisce la riforma voluta dai pentastellati come una “riforma costituzionale improvvisata, insomma, figlia dello strumentalismo politico”. E aggiunge anche: “Penso che l’autorevolezza dei componenti di un organo dipende dall’autorevolezza dell’organo stesso. Se non riusciremo a riportare il Parlamento al centro, come la nostra Costituzione vuole, non sarà la riduzione degli eletti a cambiare le cose. Ne sono consapevoli anche molti fautori del Sì, infatti affermano che il taglio sarà il primo passo di successive modifiche”.
Pertanto il costituzionalista ritiene che “sarebbe meglio iniziare dalle successive modifiche” e “chi sostiene che meno significa più autorevoli, dice una mezza verità. Qualcuno – sottolinea Azzariti – dovrebbe allora ricordare chi in passato voleva far votare solo i capigruppo, perché erano più autorevoli. Per paradosso, continuando su questa via, un dittatore unico sarebbe il più autorevole di tutti. Una iperbole, sia chiaro”, tiene a precisare. Poi chiosa: “È indispensabile una riforma del Parlamento per ridargli la sua centralità. Sbaglia infatti chi si limita a difendere l’esistente. Così com’è, è un Parlamento indifendibile”.
La riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari era stata approvata in ottobre 2019 con il voto favorevole praticamente di tutti i partiti. La legge doveva entrare in vigore a gennaio, ma una richiesta dei senatori, di fatto, l’aveva sospesa rendendo necessario il referendum. Nonostante l’iniziale apparente unanimità nel sostenere la riforma, 71 senatori di vari partiti avevano infatti firmato per indire un referendum costituzionale.
I senatori avevano potuto avanzare la loro richiesta perché le riforme costituzionali hanno un iter parlamentare speciale: se una riforma non ottiene una maggioranza di due terzi da ciascuna delle due camere nel voto finale si hanno tre mesi di tempo per chiedere che sia sottoposta a referendum. In questo caso servono le firme di un quinto dei membri di una delle due camere – per i senatori la soglia è di 64 – 500.000 elettori o 5 consigli regionali. La proposta sul taglio dei parlamentari era stata firmata da 71 senatori, 7 in più del numero minimo richiesto.
Il referendum avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 29 marzo, ma era stato rimandato a causa dell’epidemia da Sars-CoV-2. A metà luglio il Consiglio dei ministri aveva stabilito le date del 20 e 21 settembre, accorpando il voto per il referendum confermativo alle regionali e alle elezioni supplettive nei collegi uninominali 3 della Regione Sardegna e 9 della Regione Veneto del Senato e con il voto amministrativo in alcuni comuni.
Il referendum sul taglio dei parlamentari sarà il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana (gli altri tre sono stati il referendum sul Titolo V del 2001, quello sulla riforma costituzionale del centrodestra nel 2006 e quello sulla riforma costituzionale voluta dal PD nel 2016).
La riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200: una riduzione di circa un terzo: si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila. Oggi l’Italia ha un numero di parlamentari per numero di abitanti simile a quello dei grandi paesi europei. Dopo la riforma diventerebbe invece uno dei paesi con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea.
Il referendum sarà confermativo, servirà cioè a confermare l’approvazione di una riforma costituzionale che non ha ottenuto almeno due terzi dei voti in ciascuna camera. Chi vota Sì sostiene il taglio, chiede che la riforma sia confermata e che entri in vigore. Chi vota No ne chiede invece l’abrogazione. Nei referendum costituzionali non si tiene conto del quorum, come nei normali referendum abrogativi. Quindi, indipendentemente dal numero di votanti, il risultato quindi viene sempre preso in considerazione.
Per ora i sondaggi dicono che il Sì è in maggioranza. A fine giugno, l’istituto IPSOS aveva realizzato un’indagine per il Corriere della Sera: il Sì era al 46%, il No al 10%. Il 20% aveva dichiarato che non sarebbe andato a votare o avrebbe lasciato la scheda bianca e gli indecisi erano al 24%. A fine luglio la stessa ricerca diceva che il Sì era cresciuto al 49% (+3% rispetto a giugno) contro l’8% dei No.
Qualche giorno fa Affaritaliani ha pubblicato un sondaggio realizzato da Roberto Baldassari, Direttore generale di Lab21 e Docente di Strategie delle ricerche di opinione e di mercato all’Università degli studi RomaTre: per il No si è espresso il 27,6% del campione, per il Sì invece il 72,4%
Dalle ricerche emerge comunque una scarsa attenzione verso questo referendum confermativo. A giugno (sondaggio IPSOS) soltanto il 28% degli intervistati ne era a conoscenza. A fine luglio la percentuale era arrivata al 35%.
Il Movimento 5 Stelle è il partito che ha portato avanti e sostenuto la riforma come parte della sua lunga campagna cosiddetta “anti-casta”, ma quasi tutti i grandi partiti hanno mostrato interesse o simpatia per gli stessi temi (le ultime due riforme costituzionali proposte, e bocciate dagli elettori, prevedevano tra le altre cose anche il taglio del numero dei parlamentari).
Sono per il No alcuni piccoli partiti, come i Radicali e Sinistra Italiana, e numerosi singoli parlamentari sparsi tra vari gruppi. Di fatto nessun grande partito si è schierato apertamente per il No, ma con il tempo le cose si sono complicate.
Per quanto inizialmente contrario al taglio, il PD ha cambiato idea lo scorso ottobre, dopo essere andato al governo con il Movimento 5 Stelle e aver sottoscritto un’alleanza che prevedeva l’appoggio alla riforma, ma a certe condizioni. Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico, aveva condizionato il Sì ad alcune misure di «riequilibrio» e a una modifica condivisa della legge elettorale in senso proporzionale, con sbarramento al 5 per cento. A fine luglio Italia Viva aveva però votato con il centrodestra impedendo alla bozza di riforma della legge elettorale di arrivare in aula a luglio ed essere discussa in commissione (lo sbarramento al 5 per cento, allo stato attuale dei sondaggi, penalizzerebbe il partito di Renzi).
Continua anche il travaglio nella coalizione di centrodestra. Sono per il Sì, come il Movimento 5 Stelle, anche la Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia: l’opposizione sosterrà dunque una riforma del governo. Però, dentro Forza Italia, nei giorni scorsi, si erano espressi in modo opposto i due capogruppo in Parlamento: per il Sì Mariastella Gelmini, per il No Anna Maria Bernini. Il fronte dei contrari, nel partito di Berlusconi, è in rapida espansione e Berlusconi sembrava tenerne conto, pur attendendo i sondaggi che aveva commissionato per avere un quadro completo e dare una indicazione di voto ufficiale. Poi, in un’intervista a “La Nazione”, il leader di Forza Italia è intervenuto sul referendum, affermando: “Sto ancora riflettendo ma questo provvedimento è diverso da quello che proponemmo noi, rischia solo di limitare la rappresentanza e ridurre la democrazia”. “Fatto così, come lo vogliono i grillini, il taglio dei parlamentari rischia di essere solo un atto di demagogico che limita la rappresentanza, riduce la libertà e la nostra democrazia”. Con queste parole, Silvio Berlusconi boccia la legge oggetto del referendum costituzionale del 20 e 21 settembre. Il leader di Forza Italia dice che sta “riflettendo molto su questo tema: la riduzione dei parlamentari – afferma – lo avevamo già realizzato noi con la riforma costituzionale del 2006, cancellata dalla sinistra con un referendum. Ma quello – dice ancora l’ex Presidente del Consiglio dei ministri – era un taglio che si inseriva in una riforma organica della democrazia parlamentare”. Quindi, Berlusconi non dice un No netto, ma il suo giudizio critico è ben diverso dalle opinioni espresse dagli altri capi del centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che si sono pronunciati apertamente per il Sì, seppure con sfumature diverse. Più convinto il sostegno di FdI, che ha poche voci dissonanti al proprio interno, con maggiore apertura verso la libertà di coscienza il Segretario della Lega.

FAQ sul referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari

Con i FAQ che seguono, il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale risponde agli interrogativi che possono sorgere nei cittadini che sono chiamati votare nel referendum che gli pone il seguente quesito: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n.240 del 12 ottobre 2019?».
Al quesito il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale risponde No sulla base di molteplici motivazioni e argomentazioni che nei FAQ riassume per linee essenziali (B) immaginando di controbattere alle affermazioni (A) di coloro che sono favorevoli alla promulgazione della legge.

A: È perfettamente inutile andare a votare, tanto il quorum non verrà raggiunto e quindi la legge entrerà in vigore.
B: È falso perché nei referendum su modifiche della costituzione non è previsto alcun quorum, a differenza che nei referendum abrogativi di leggi ordinarie. Pertanto qualunque sia il numero dei votanti ciò che conta sarà il confronto tra il numero dei No e quello dei Sì. Se i No saranno in numero maggiore la legge non verrà promulgata quindi non entrerà in vigore.

A: La vittoria del Sì è sicura perché l’orientamento prevalente è ostile ai parlamentari e così ci dicono i sondaggi.
B: Nessuno può predire con sicurezza chi vincerà. Se bastassero i sondaggi (Fatti da chi? Come? Con quali metodi? Con quanti intervistati?) allora sarebbe persino inutile fare le elezioni politiche, perché il risultato si saprebbe già prima. Ma soprattutto, per quanto potente sia stata la propaganda qualunquista e populista gestita dalle forze dominanti, il corpo elettorale italiano si è già espresso in due occasioni contro proposte di revisione costituzionale che prevedevano tra le altre cose la riduzione del numero dei parlamentari. E le ha bocciate entrambe con una partecipazione al voto superiore alla metà degli aventi diritto, cioè il quorum, per quanto questo non fosse necessario in quelle consultazioni, dimostrando così una convinta volontà di difendere il testo costituzionale. Ci riferiamo al referendum che si svolse il 25 e 26 giugno 2006 in merito ad una proposta di legge avanzata dal centro-destra in cui era prevista una Camera composta da 518 deputati (in luogo dei 630 attuali) e un Senato di 252 senatori (in luogo degli attuali 315, considerando solo quelli elettivi, cioè al netto dei senatori a vita che sono cinque, cui va aggiunto il/i senatore/i di diritto e a vita ex Presidente/i della Repubblica). Il secondo caso è costituito dal referendum sulla proposta di legge Renzi-Boschi tenutosi il 4 dicembre del 2016. Anche in questa occasione si recò alle urne la maggioranza degli aventi diritto e la proposta venne bocciata. Questa, tra le altre cose, prevedeva di lasciare la Camera inalterata ma di modificare profondamente la composizione e il ruolo del Senato, prevedendo un organo composto da 95 membri elettivi di secondo grado, cioè eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi, tra i consiglieri regionali e i sindaci del territorio.

A: Sì ma questa volta non sono state neppure raccolte le firme per fare indire il referendum.
B: Non c’è nulla di strano. Anche per il referendum del 2016 fu così. L’articolo 138 della Costituzione prevede tre possibilità per promuovere il referendum: un quinto dei membri di una Camera (in questo caso la richiesta è stata fatta da 71 senatori) o cinque Consigli regionali o cinquecentomila elettori. Ognuno dei tre è sufficiente e valido per indire il referendum costituzionale.

A: Bisogna votare Sì perché i parlamentari in Italia sono troppi.
B: È falso. L’unico serio criterio per giudicare sul numero dei parlamentari è guardare al rapporto fra membri del parlamento e abitanti. Se facciamo un raffronto fra i paesi dell’Unione europea, considerando i componenti della Camera cosiddetta bassa – non potendo confrontare i dati del Senato perché troppo differenti da paese a paese sono le regole per la formazione e funzionamento della camera cosiddetta alta, laddove esiste – constatiamo che attualmente quel rapporto in Italia è pari, con leggera approssimazione statistica, a 1,0 deputato per centomila abitanti. Un valore che ci colloca a fianco dei paesi maggiori, ma sotto la maggioranza degli Stati membri della Ue che hanno un numero di parlamentari nettamente superiore. Se andasse in vigore la legge su cui verte il referendum tale rapporto scenderebbe allo 0,7 e collocherebbe l’Italia all’ultimo posto dei paesi della Ue. Espresso in numeri tale rapporto scenderebbe da un deputato ogni 96.006 abitanti a un deputato per 151.210 abitanti.

A: La riduzione del numero dei parlamentari non incide sulla rappresentanza, anzi la rende più autorevole.
B: Completamente falso. Se si riduce il rapporto fra cittadini e parlamentari si incide profondamente sulla rappresentanza politica, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Perché si realizzi una vera rappresentanza politica, bisogna che i singoli parlamentari abbiano una relazione reale e continua con i problemi del territorio in cui è avvenuta la loro elezione e dei cittadini che ci vivono, nonché un rapporto costante, non limitato al momento del voto, con i propri elettori. Meno sono gli eletti e più difficile è realizzare quel rapporto. Questo inevitabilmente nuoce all’azione dei parlamentari sul piano qualitativo perché riduce la possibilità di una conoscenza dei problemi concreti.Quindi la rappresentanza politica ne risulta peggiorata.

A: La qualità del lavoro parlamentare non dipende dal numero di chi lo svolge ma dalle capacità dei parlamentari.
B: Se si riducono del 37% il numero dei parlamentari la situazione si aggrava anziché risolversi. La scarsa qualità politica dei membri di un parlamento deriva dalle modalità della loro selezione. Se si svuotano di funzione i partiti, se si smantellano i luoghi di iniziativa sociale nel paese, cioè se si abbattono i corpi intermedi tra i cittadini e le istituzioni, come si è fatto in questi anni in Italia, vengono meno le possibilità di una vera selezione, maturata sul territorio, nelle lotte sociali, nel dibattito politico. Se i candidati vengono scelti con un “mi piace” cliccando un tasto del computer è ovvio che si ottiene un insieme di eletti di scarsa qualità. A questo vanno aggiunte le pessime leggi elettorali, tutte viziate da incostituzionalità che si sono succedute nel nostro paese. Infatti i cittadini non hanno avuto voce in capitolo né nella composizione delle liste, né nella scelta dei candidati. Le liste sono fatte dalle segreterie dei partiti, ridotti a un guscio vuoto, e i cittadini non possono esprimere preferenze. Così abbiamo un parlamento di nominati, non di eletti. La nuova proposta di legge elettorale che è stata recentemente presentata alla Camera non modifica queste condizioni. Anzi le peggiora, alzando persino la soglia di sbarramento al di sotto della quale non si può accedere alle camere, il famoso quorum (per la Camera si passerebbe dal 3% al 5%, per il Senato vi sarebbe un’ulteriore possibilità di accedervi, se si ottiene il 15% in almeno una regione). In questo modo si impedirebbe l’ingresso in Parlamento a intere forze politiche che esistono nella società, tagliando drasticamente la rappresentanza politica e la vita democratica del paese. Oltre a questo ogni parlamentare per risultare eletto, a causa della diminuzione complessiva dei membri del Parlamento, dovrebbe ricevere ben più voti che nella situazione attuale. Noi invece siamo per una legge elettorale proporzionale pura, cioè senza distorsioni maggioritarie.

A: Ma con una legge proporzionale i cittadini non saprebbero il giorno dopo le elezioni chi governa il paese e non lo potrebbero determinare.
B: Questa logica è già stata respinta nei due referendum di cui abbiamo già parlato, del 2006 e del 2016. È la logica dei sistemi elettorali maggioritari o di quelli misti con forti distorsioni maggioritarie. Si vorrebbe fare prevalere il principio della governabilità su quello della rappresentanza. E’ una logica pericolosa, che porta inevitabilmente a concentrare il potere in poche mani, a sistemi oligarchici, a democrature, come si suole dire nel linguaggio degli studiosi delle istituzioni, a soluzioni post e anti-democratiche. Ed è una soluzione fallimentare, come dimostrano le vicende dei governi italiani e di altri paesi negli ultimi anni, nonché la “transumanza” di eletti da un gruppo all’altro e la creazione di nuovi gruppi politici e parlamentari senza passare dal vaglio elettorale. Infatti un governo solido può nascere solo se la rappresentanza politica, ovvero l’insieme del Parlamento, è composta in modo corretto ed è espressione non fittizia (come avvenuto con le ultime leggi elettorali) della volontà popolare. Solo se la divisione dei poteri è ben chiara, quello legislativo del Parlamento, quello giudiziario della Magistratura, quello esecutivo del Governo. Già ora quest’ultimo prevarica gli altri, in particolare il Parlamento con la pratica costante dei decreti legge. Nello stesso tempo, proprio perché il nostro paese fa parte dell’Unione europea – nella quale il ruolo del Parlamento europeo, che viene eletto su base proporzionale, viene poi ridimensionato dallo strapotere delle istituzioni non elettive – bisogna difendere la centralità del Parlamento nel nostro modello democratico perché possa anche essere di riferimento ad una democratizzazione delle istituzioni europee.

A: In ogni caso bisogna che il Parlamento operi in modo efficiente e produttivo e tutti sanno che in meno si lavora meglio.
B: Del tutto falso. Non solo perché un parlamento che non rispecchi la corretta rappresentanza politica dei cittadini, farebbe solo gli interessi di quelle forze politiche che sono riuscite a entrarci. Ma anche perché il nostro Parlamento lavora molto attraverso le Commissioni permanenti, che sono 14 in entrambe le Camere, cui vanno sommate le importantissime Giunte, le Commissioni speciali, quelle bicamerali. Ogni parlamentare deve partecipare a una delle commissioni permanenti, le quali possono lavorare in tre modi: in sede referente, votando emendamenti e testi e portando il testo finale alla discussione dell’Aula; in sede redigente, votando gli emendamenti e lasciando all’Aula solo il voto dei singoli articoli e quello finale; in sede legislativa, potendo licenziare la legge senza passare dall’Aula. Se si riducono i parlamentari è evidente che si consegna nelle mani di pochi, prevalentemente dei maggiori partiti, poteri enormi, compreso quello della legiferazione diretta. Qualcuno dice: diminuiremo il numero delle commissioni. Ma in questo modo viene meno il principio della competenza nella materia delle singole commissioni. Quindi si peggiora la qualità e gli esiti del lavoro parlamentare.

A: Poche chiacchiere, riducendo il numero dei parlamentari si risparmia soldi pubblici.
B: Ridicolo. Secondo calcoli di organismi qualificati la riduzione dei parlamentari porterebbe a un risparmio di appena lo 0,007 del bilancio dello stato. Non sono diversi i calcoli degli stessi uffici studi del Parlamento. Il che si tradurrebbe in un risparmio annuo per famiglia pari a 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino. Qualche centesimo in più di un buon caffè bevuto in piedi al banco. La democrazia ha i suoi costi e quando funziona sono sacrosanti. Vale ben di più di un caffè una volta all’anno. Se si vogliono ottenere risparmi di spesa veramente consistenti basterebbe, per esempio, abolire gli acquisti degli aerei di guerra F35, il che favorirebbe la causa della pace. Del resto non può funzionare se le si tolgono le risorse anche economiche necessarie. Il nostro compito non è restringerla ma ampliarla, rendendo più viva e attiva la partecipazione dei cittadini, difendendo, rendendo più trasparenti e accoglienti quei corpi intermedi, cioè le varie forme di associazione politica, sindacale, culturale con cui intrecciare democrazia diretta e delegata. Come si vede il nostro No è carico di significati che vanno nel senso della difesa e dell’estensione della democrazia, unendosi anche al No al progetto di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord che minerebbe l’unità del paese e produrrebbe quella che è stata giustamente chiamata “la secessione dei ricchi”.

Postscriptum

Per non lasciare uno spiraglio al dubbio: io voterò No. Con questo ho detto quello che volevo dire. Quindi, ho finito anche a parlare.

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