La consapevolezza è un sapere non-neutrale. Il valore della domanda nel processo di apprendimento

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Lungo lo scorrere degli anni della mia vita professionale da comunicatore, mi è stato insegnato un principio fondamentale: formulare una domanda suppone la preconoscenza della risposta… Una regola giornalistica per di più dimenticata, mi sembra.
Il testo che segue – che fornisce in un certo senso la base ontologica di questo principio – è tratto dalla traccia di una conferenza tenuta presso il II Convegno Nazionale promosso dalla C.N.Y. – Confederazione Nazionale Yoga, dal tema “Il gusto dell’apprendimento”. Le riflessioni esposte – di cui non sono riuscito ad individuare l’autore – si fondano sull’insegnamento del Maestro Franco Bertossa, che ha fornito gli strumenti per fare le osservazioni fenomenologiche (cioè in prima persona), oltre che riconoscerne il valore. Il lavoro sul quale si è basato l’intervento è frutto dell’attività di ricerca fenomenologica in atto presso il Centro Studi A.S.I.A. – Associazione Spazio Interiore Ambiente, sotto la guida del Maestro Franco Bertossa. In particolare, fa riferimento al confronto costante con le persone che fanno parte del gruppo di studio e ai spunti di riflessione offerti dai documenti (alcuni pubblicati sulle riviste di A.S.I.A. o della C.N.Y., altri inediti) di Franco Bertossa, Beatrice Benfenati, Laura Podda, Alessandra Ielli, Roberto Ferrari, Giulio Di Furia, Letizia Magenti, Paola Basile, Paolo Pendenza, Marco Besa.

Si tratta di un testo che raccoglie molti elementi del metodo della metacognizione, termine che significa letteralmente “oltre la cognizione”, introdotto nel 1976 dallo psicologo dell’età evolutiva John H. Flavell, usato per indicare la cognizione sulla cognizione, ovvero il pensiero sul pensiero. Quindi, è un apparato teorico utilizzato in ambito psicologico ed educativo, di autoriflessività sul fenomeno cognitivo, attuabile grazie alla possibilità di distanziarsi, auto-osservare e riflettere sui propri stati mentali. L’attività metacognitiva ci permette, tra l’altro, di controllare i nostri pensieri, e quindi anche di conoscere e dirigere i nostri processi di apprendimento.

Domandare per rispondere

La domanda segue sempre un’osservazione, presuppone qualcosa che abbiamo notato, e su cui poi ci chiediamo. Quindi, prima della domanda c’è sempre un accorgersi. Questo accorgersi è una rottura di indifferenza di uno stato precedente, che è solo apertura indifferenziata su un campo percettivo:
1) c’è un’apertura sul mondo;
2) ci accorgiamo di qualcosa;
3) ci chiediamo su questo;
4) ci rispondiamo.

Questi sono i quattro tempi della coscienza, i nostri mattoni fondamentali che in genere non vediamo perché li stiamo usando. I cicli di apertura-accorgersi-domandarsi-rispondersi si susseguono rapidamente, ma a volte è possibile sostare più a lungo nel primo atto, il permanere nell’apertura cosciente senza particolari percezioni, e nel terzo, la sospensione della domanda propria. L’accorgersi e la risposta invece sono i momenti veloci del processo.

La domanda è uno stato di sospensione, che è possibile assaporare: ciò di cui ci siamo accorti non è ancora stato qualificato; è lo stadio in cui, pur investiti dallo stimolo sensoriale, non l’abbiamo ancora riconosciuto e aspettiamo di trovargli un posto all’interno dei nostri schemi cognitivi. A questo segue il momento veloce in cui lo collochiamo, lo riconosciamo, ed ecco la risposta. Già si possono intuire le potenzialità risvegliate dallo stato di dubbio, di domanda, di apertura, di contro alla risposta, che è conclusione e chiusura. La risposta è un punto, un sollievo, una strada che è finita, uno slancio che ha trovato riposo. In ogni esperienza dunque, se guardiamo bene, possiamo distinguere questi quattro atti semplici, non ulteriormente scomponibili.

Passando dalla “fisiologia sottile” all’ambito dei significati, osserviamo che la struttura coscienziale è sempre accompagnata da un coinvolgimento: ne va di me. Il solo supporre di coglierci coincidenti con il “meccanismo” coscienziale non ci lascia indifferenti, e per questo anzi mostra la nostra natura di non-meccanismo. Sarebbe se non altro uno strano meccanismo, un meccanismo che sa di sé e che si stupisce di sé. Ciò che distingue la coscienza umana da un processore elettronico è la consapevolezza, che è un sapere non-neutrale, cioè un sapere con un sapore. La nostra esperienza è sempre accompagnata – anzi costituita – dalle tonalità emotive: non si può parlare di esperienza senza rottura di indifferenza, e la rottura di indifferenza è rilevata tramite una sensazione significante per noi, per la quale l’esperienza diventa la mia esperienza, l’esperienza che mi riguarda. Questo particolare sapore del “mi riguarda” accompagna ogni ciclo dei quattro tempi della coscienza: non è un meccanismo là davanti, sono io! E se sono questo meccanismo, in questo meccanismo ne va di me. Noi non sentiamo e basta, ma ci domandiamo su cosa abbiamo sentito, perché sentire è cogliere le implicazioni del sentire.

Se prendiamo una forma di vita elementare, vediamo che tutto è regolato dalla biologia, e l’organismo non ha altro da perseguire che un ottimale funzionamento fisiologico. Ma l’uomo non è appagato solo dalla soddisfazione delle richieste biologiche; ha fame di significati, e la biologia non ci sazia di significati.

L’uomo si fa domande, ha dei dubbi, si annoia: neanche nel massimo relax si sente compiuto! Talvolta, proprio durante il rilassamento emergano inquietudini, insofferenze e dubbi. Questo è in pratica il “non bastarsi” che caratterizza l’essere umano – tutti l’avremmo provato, per esempio in un momento di noia profonda –; è un sentire che è già una forma di domanda, alla quale dobbiamo prestare attenzione e “tradurre” da un linguaggio solo viscerale alla consapevolezza.

Da che cosa possiamo partire per ascoltare e decifrare la domanda?

La domanda si sente nel silenzio e nel tempo protratto dell’ascolto, e la sua prima voce è il nostro sentire. Ma non basta sentire: dobbiamo anche capire il significato delle sensazioni. Nessuno resta indifferente a se stesso: essere coscienti è innanzitutto sapere di esserci, e questo sapere di sé non avviene in una fredda constatazione, ma in un sussulto di stupore che è innanzitutto domanda, domanda non verbalizzata ma viscerale, una domanda sentita che è aspettativa di un senso, di una ragione, di spiegabilità e comprensione. Io, proprio io, ci sono. E questo fatto giustifica e alimenta la meraviglia.

Secondo gli antichi lo stupore è l’anima della conoscenza, perché è l’atteggiamento alla radice del dubbio, della domanda, della ricerca; è essere consapevoli di non comprendere ciò che si ha davanti quando, da familiare e ordinario, a un certo punto ci si rivela inspiegabile e meraviglioso: non mi meraviglio perché il cielo è azzurro invece che in di un altro colore, ma comunque esso sia, mi stupisco per il fatto che c’è. Perché c’è qualcosa invece che nulla? Non c’è risposta. E questo “non c’è risposta” non può mai diventare una risposta, non è la fine del nostro cercare, ma anzi ne costituisce la scaturigine stessa. L’abisso della non-risposta alla più scandalosa delle domande ci chiama costantemente al tentativo di riempire quel vuoto incolmabile, intrinsecamente incolmabile, e questo diventa spinta di comprensione, diventa ricerca, domanda.

Nessuno resta indifferente a se stesso, al proprio esserci: il fatto che mi trovo ad esistere mi riguarda, nel fatto che esisto ne va di me. Questo “andarne di me” spinge fino a concretizzarsi nella domanda che i bambini ripetono più spesso: “perché?”

Il “perché?” dei bambini ci denuda, perché il bambino, insieme al filosofo, non sta chiedendo un elenco di descrizioni o di sinonimi, o una concatenazione di spiegazioni, ma va dritto al cuore della nostra condizione originaria di “gettatezza” nell’esistenza: perché c’è tutto questo? Cos’è?

Dall’atteggiamento di genitori ed educatori il bambino capisce in fretta se sia opportuno o meno continuare a fare domande. Così la domanda originaria prende la via dell’oblio: imparerà dagli adulti a far finta che tutto sia normale, giustificato, ovvio; imparerà a destreggiarsi all’interno di quelle “parentesi di usabilità” del mondo, che sembra spesso l’unico requisito richiesto dalla società per vivere.

Ma vivere non è solo fare delle esperienze, riempirsi di sensazioni: vivere da essere umano significa innanzitutto trovare un riscontro alle nostre domande. Insieme alle domande fondamentali della nostra esistenza, espresse con grande candore e altrettanta lucidità dai bambini, si “archiviano” anche la meraviglia, la stranezza, lo stupore, la curiosità, il gusto della scoperta, che motivano e accompagnano le domande.

Domanda, stupore, coinvolgimento sono intimamente connessi e formano il substrato stesso del processo d’apprendimento. Perdendo il contatto con il nucleo originario del nostro domandare, piano piano diminuisce il coinvolgimento, diminuiscono l’interesse e la motivazione ad apprendere, perché si perde il nucleo “sapiente” dell’apprendimento, “sapiente” nel senso che sa e che ha sapore. Così accade che ciò che mi viene insegnato mi riguarda sempre meno, non ha più il potere di coinvolgermi perché non parla di me, in sostanza non mi riguarda. Non mi coinvolge perché non suscita in me lo stupore che, solo, ci tiene vivi.
Nell’ambito dell’insegnamento, si tratta di valorizzare la domanda evitando di considerarla un negativo, imbarazzante stato di indecisione dal quale uscire al più presto. Questo è il senso del “domandare per rispondere” – rispondere con una domanda – invece che spegnere il processo con una risposta: su ogni risposta è possibile applicare una nuova domanda.

Jostein Gaarder, l’autore de Il mondo di Sophia, ha scritto un bel racconto, C’è nessuno?, in cui gli abitanti del pianeta Elio si inchinano ad ogni domanda profonda e non si piegano mai davanti a una risposta, perché – scrive – «una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle: solo una domanda può puntare oltre».

L’educazione così può essere intesa come una continua scoperta che cresce sul terreno della domanda, perché non c’è nulla che ci riguarda e ci fa crescere di più delle nostre domande: qualsiasi apprendimento passa attraverso la domanda e attraverso le emozioni ad essa collegate.

Per questo è necessario prima di tutto essere in grado di reggere la sospensione che lo stato di domanda porta con sé, e saper nutrire quel domandarsi con osservazioni e nuove domande, in modo tale che possa avere uno sviluppo e che si possano creare percorsi di pensiero autentico.

Il pensiero oggi sembra avere rare occasioni per essere stimolato, e valorizzato, nell’ambito delle sue funzioni più vive, più originarie, che sono quelle del dubbio, della perplessità, del domandare e domandarsi, dell’indagine in prima persona, della scoperta e della meraviglia.

Credo che solo ritornando alla domanda più autentica possa essere recuperato, insieme al gusto dell’apprendimento, il senso profondo dell’educare. Le sue tracce ci portano là dove il domandare stesso sorge – in noi stessi –, dove abita la domanda che riguarda il nostro stesso esserci, e dove nasce la meraviglia.

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