Ex malo bonum, scrisse sant’Agostino e sui cedri vigila San Charbel Makhluf

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In presenza dell’immane dramma che per l’ennesima volta ha colpito la capitale del Libano, riporto due articoli, che vanno letti con molta attenzione, per riflettere. Anche se del Libano so qualcosa [*], non ritengo necessario aggiungere del mio, superfluo alla presenza di due esperti come Renato Farina e Danilo Coppe (ognuno per la materia sua). Ripeto solo la mia supplica di ieri sera al santo taumaturgo libanese San Charbel Makhluf (che miei lettori conoscono bene, per i miei pezzi sull’apostolato di Padre Jarek Cielecki di San Charbel), con la sua foto in copertina: San Charbel prega per il Libano e per i libanesi [**].

Devastazione a Beirut dopo le due esplosioni di martedì 4 agosto 2020, che hanno raso al suolo la zona del porto della città.

Beirut devastata. Le certezze, le domande e un augurio
La capitale del Libano è ridotta a una Hiroshima. Tra molti dubbi e interrogativi inquietanti, la sola possibilità di ripresa resta la proposta del patriarca maronita Béchara Raï
di Renato Farina
Tempi.it, 5 agosto 2020

L’articolo pubblicato qui sotto è stato consegnato a Tempi il 27 luglio per la rubrica “Il Molokano”, e nel mensile cartaceo uscirà così. L’ho riletto dopo l’immensa esplosione che ha squassato Beirut ieri sera, 4 agosto. La via d’uscita al disastro proposta dal patriarca maronita cardinale Béchara Boutros Raï è di evidente saggezza e di intelligenza politica specialmente in queste ore.
Quello che nel momento in cui il patriarca ha pronunciato quelle parole pareva essere un sogno provocatorio, un’utopia senza basi realistiche, oggi è davanti al capezzale di Beirut ridotta a una Hiroshima la sola possibilità di ripresa.
In queste ore si registra la saggezza di tutti i leader delle fazioni: nessuno sta accusando l’altro per questo spaventoso evento. Il mondo promette aiuti e sostegni.
Quanto alla dinamica della deflagrazione esistono certezze che si mescolano a domande. Le certezze:
1) A trasformare un incendio in una esplosione immane è stata la presenza di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio;
2) Era lì da sei anni, sequestrato e stoccato accanto a una fabbrica di fuochi d’artificio (sic!).
3) La zona è quella controllata da Hezbollah.
Fin qui queste constatazioni spingerebbero a considerare il tutto un “incidente”. Altre certezze però insinuano il dubbio:
1) Il Libano è il santuario delle intelligence di tutte le potenze e superpotenze: Israele e Cina, Francia e Russia, Turchia e Stati, Egitto e Al Fatah;
2) Hezbollah ha un’organizzazione e un apparato di servizi segreti meticoloso e così le altre fazioni in campo;
3) Il 7 agosto il Tribunale dell’Onu sentenzierà sulla colpevolezza o meno di quattro ufficiali di Hezbollah accusati dell’attentato che il 14 febbraio 2005 assassinò 22 persone tra cui il leader sunnita Rafiq Hariri.
Da qui le domande: possibile che nessuno sapesse di questa Santa Barbara tra le potenze e le fazioni che qui non si sono mai manifestate per delicatezze pacifiste? Una simile assurda trascurataggine, con un’autorità portuale assistita da un apparato di sicurezza proporzionato allo stato permanente di guerra interna ed esterna, somiglia sì o no a una dimenticanza voluta “ad ogni buon conto”?
Tutto può essere, chi tira i fili della storia sta sopra gli uomini, i quali però sono liberi e tendenzialmente cattivi e capaci di tutto. Il nostro augurio al Libano è un po’ paradossale: e cioè che in questo caso la stupidità abbia superato la crudeltà e il cinismo, e dunque si tratti di una fatalità luttuosa. Da cui possa scaturire una volontà di pace e di unione interna assistita da istanze internazionali, con aiuti e garanzie di disarmo delle fazioni.
Ex malo bonum, scrisse sant’Agostino e sui cedri vigila, come ha scritto il Molokano, san Charbel Makhluf.

* * *

Sento in lontananza i rimbombi. L’Armenia è sotto attacco dall’Azerbaigian che ha al fianco la Turchia. Ma non oseranno affondare il colpo. Erevan è sostenuta da Mosca. Da sempre gli armeni sono abituati a questi assalti. Eppure reggono il colpo, persino nella diaspora hanno un cuore solo. Credo che sia dovuto alla protezione di san Gregorio l’Illuminatore che dopo anni e anni di carcere in una fossa guarì e convertì il re e il suo popolo. E la sua intercessione si è manifestata, anche nel genocidio, conservando la certezza ai suoi figli che ogni lacrima di madre sarà raccolta e butterà fiori e germogli dal legno della croce. Il resto di Israele-Armeno perdura ed è una speranza indomita anche per noi molokani che armeni non siamo ma siamo stati accolti – russi eretici ed erranti – da questo magnifico popolo tribolato.
Gli armeni a difenderli dal peggio hanno un santo antico e i russi. Ma sono più preoccupato per il Libano che per noi. I libanesi hanno un santo grandissimo, ma intorno non esiste oggi una potenza occidentale od orientale che voglia preservarne l’identità unica e meravigliosa. Nessuno o quasi, neppure da voi, in Italia, se ne cura. Per questo oso lanciare l’allarme, e Tempi è il luogo perfetto. Il resto della stampa occidentale, persino quella francese, tace.
Il santo è Charbel (Giuseppe in italiano) Makhluf. Un santo maronita che dalla sua morte (1898) non ha riposato neppure un istante. Ha aiutato i suoi compatrioti con intensità particolare durante la guerra che ha devastato il paese negli anni Settanta e Ottanta, al punto da essere soprannominato “il santo ospedale”, in ragione delle centinaia di guarigioni a lui attribuite (papa Francesco ha detto che non esiste niente di paragonabile nella storia della Chiesa). San Charbel oggi è solo, chi lo ascolta?
Il Libano è travolto da un Armageddon economico e sociale spaventoso. Ha dichiarato fallimento. È il risultato della degenerazione del patto ideale tra le diverse identità religiose che hanno consentito una miracolosa e prospera convivenza (cattolici maroniti, musulmani sunniti, sciiti, drusi eccetera). La guerra civile (1974-1989) è stata in realtà una guerra esterna che si è riversata all’interno, una continua belligeranza tra Siria, Israele e le superpotenze dietro di loro. L’accordo di Taif (1989) tra le fazioni ha consentito la ricostruzione con sorprendente rapidità e riconquista di un livello di benessere altrove sconosciuto in Medio Oriente (i libanesi sono dotati di genialità imprenditoriale e di centri di eccellenza culturale e scientifica ovunque riconosciuti). L’appartenenza religiosa però si è trasformata in una sorta di mafia del sangue. Un confessionalismo funzionale all’arricchimento lottizzato. Tutto pareva quietamente accettato. Ma clientelismo e corruzione esasperati, il dominio ottuso delle grandi famiglie, hanno portato il paese al fallimento e una povertà mortale.
C’è stata il 17 ottobre scorso una rivoluzione popolare, che ha attraversato tutte le identità. La risposta è stata la prevalenza assoluta e (quasi) totalitaria di Hezbollah, il partito-esercito sciita, usato come legione straniera dall’Iran. Gli 8 milioni di libanesi sono ridotti nella maggioranza alla fame. Abbandonati dalle potenze in mano a famiglie asservite ai loro meschini interessi. Né i ricchi paesi sunniti né quelli occidentali hanno oggi interesse a salvare una nazione satellite dell’Iran. Interverrà la Cina? Intanto si aspetta l’esplodere di una rivolta che Hezbollah è pronta ad annegare nel sangue.
Eppure qualcosa si muove in positivo, un baluginìo di miracolo. Sarebbe utopia se dietro (e sopra) non ci fosse Charbel, il grande taumaturgo nell’avvenimento che da quindici giorni ha scosso i Cedri e che qui trasmettiamo all’opinione pubblica e al governo italiano, perché agisca nelle sedi internazionali. Parlo dell’entrata in scena, netta e decisa come si addice a una grande autorità morale, del patriarca maronita Béchara Boutros Raï, cardinale della Chiesa cattolica. Cosa ha detto Raï, e cosa va ripetendo giorno dopo giorno dai pulpiti, dai microfoni di radio e tv come pure negli incontri con autorità politiche locali e internazionali? Una cosa semplice, difficile da fraintendere: il Libano deve tornare a essere neutrale. Non è una bella parola, è un concetto carico di significato politico. «Non c’è soluzione alla crisi se il Libano non esce dagli assi politici e militari». Neutralità: ma questo esige accordo interno di salvezza e sguardo lungimirante all’esterno.
Hezbollah ha risposto malamente, ed era prevedibile. Lega araba e Francia hanno risposto positivamente. Mentre scrivo temo per la vita del Patriarca. Parole di un sognatore? Un giorno papa Leone Magno fermò Attila…

Le esplosioni a Beirut di martedì 4 agosto che hanno raso al suolo la zona del porto della città (Foto Corriere della Sera).

L’INTERVISTA
Beirut, l’esperto di esplosivi: «La nuvola arancione e gli scoppi: ecco perché credo ci fossero anche armi»
Danilo Coppe è tra gli esplosivisti più famosi d’Italia: nel 2019 ha fatto da consulente all’abbattimento dei resti del Morandi. «Non credo al nitrato di ammonio, mi sembra più plausibile un deposito di munizioni ed esplosivi»
di Francesco Giambertone
Corriere.it, 5 agosto 2020

«Non credo che al porto di Beirut ci fosse quella quantità di nitrato di ammonio, né che ci fosse un deposito di fuochi d’artificio. A giudicare dai video mi sembra di più un’esplosione di un deposito di armamenti». Danilo Coppe, 56 anni, parmigiano, è uno dei massimi esperti di esplosivi in Italia: geominerario esplosivista, nell’estate del 2019 ha dato l’ordine di premere il pulsante per l’abbattimento di quel che restava del ponte Morandi a Genova. A «mister dinamite», come è stato più volte soprannominato, le immagini dell’esplosione di martedì 4 agosto hanno lasciato diversi dubbi (confermati anche da altri esperti Usa) sulla prima ricostruzione ufficiale.
Cosa non la convince?
«Premettiamo una cosa: tutte queste considerazioni derivano dai video che ho visto, non ho altre informazioni, non sono stato lì. Ma non credo al nitrato di ammonio per diverse ragioni. Intanto la quantità: 2.700 tonnellate vorrebbe dire che qualcuno ha costruito una piscina olimpionica e l’ha riempita di quella sostanza».
Il magazzino in cui sarebbe stato stoccato però era lungo oltre cento metri. Non è impossibile che contenesse quei quantitativi, e alcuni documenti sembrano provare che quel materiale fosse lì da anni.
«Ma avrebbe dovuto esserci un catalizzatore, perché altrimenti non sarebbe esploso tutto insieme. E poi il nitrato di ammonio, quando detona, genera una inequivocabile nuvola gialla. Invece dai video dell’esplosione, oltre alla sfera bianca che si vede allargarsi, che è condensa dell’aria in riva al mare, si vede chiaramente una colonna arancione mattone tendente al rosso vivo, tipica della partecipazione di litio. Che sotto forma di litio-metallo è il propellente per i missili militari. Penso che lì ci fossero degli armamenti».
Tra la prima esplosione e la seconda però si vedono «scoppiettare» quelli che sembrano fuochi d’artificio.
«Anche quelli non si comportano così. I fuochi d’artifico hanno una parte di esplosivo deflagrante, ma il resto è cartone, plastica, e quando scoppiano sono preceduti quasi sempre da fischi, assenti nei video. E poi nessuno avrebbe potuto pensare di mettere una fabbrica o un deposito di fuochi d’artificio vicino al silos granario, le cui polveri possono diventare a loro volta esplosive».
E quindi?
«Mi sembra più probabile un accantonamento temporaneo di armamenti. Le munizioni infatti fanno botti tutti uguali, come quelli che si vedono prima della grande deflagrazione. Io penso ci sia stata una prima esplosione di buona entità, che può aver dato il via a un incendio dove erano stoccate delle munizioni, che poi si sarebbe allargato fino a dove c’era un qualche esplosivo ad alto potenziale, contenuto dentro razzi o missili».
Alcuni hanno fatto un paragone con la bomba di Hiroshima: c’è chi parla di un’esplosione con una potenza pari a un sesto di «Little Boy». Le torna?
«Io non penso ci fossero 2700 tonnellate di nitrato di ammonio. La bomba sganciata su Hiroshima sviluppò un’energia tra i 15 e i 18 kiloton (tra 15mila e 18mila tonnellate di esplosivo), questa potrebbe essere arrivata a 3. Ma se lei prende un filmato amatoriale, calcola il tempo che passa dall’esplosione a quando esplodono le finestre di chi filma, divide per tre, ottiene i chilometri di distanza. Ecco: ci sono finestre distrutte a 4 chilometri di distanza. Mi sembra plausibile che ci fossero 8-10 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale. Conti che per abbattere il ponte Morandi abbiamo usato 500 chili di dinamite. Quindi parliamo di una potenza venti volte superiore».

Il saluto dopo l’incontro con il Segretario di Nunziatura Monsignor (futuro Cardinale) Jean-Louis Tauran – assente il Nunzio Apostolico – presso la Nunziatura Apostolica vicino al Santuario di Nostra Signora di Harissa sulla collina, a 650 metri di altezza, sopra la cittadina di Jounieh, distesa sulla costa sottostante il santuario.

[*] In Libano sono stato per la prima volta nel 1980, come Capo delegazione di una missione di Aiuto alla Chiesa che Soffre per verificare le possibilità di inviare aiuti dopo la guerra del 1979 (la prima fase della guerra civile dal 1974 al 1989). Concludevo il mio rapporto con l’osservazione che in quel momento non era consigliato pensare alla ricostruzione, perché le ostilità e le devastazioni sarebbero riprese dopo quella “pausa”.

A Beirut con Papa Benedetto XVI nel 2012 (Foto di Luca van Brantegem).

Terminata la guerra civile, sono tornato in Libano in occasione di due viaggi apostolici, al seguito di Papa Giovanni Paolo II (10-11 maggio 1997) e di Papa Benedetto XVI (14-16 settembre 2012).

Il Libano, diceva San Giovanni Paolo II – “è un messaggio”. Messaggio di possibile coabitazione tra religioni, culture e popoli diversi. È un messaggio ancora più significativo in questo momento in cui, a causa della pandemia, si è capito meglio che non ci si salva da soli, ma “bisogna remare insieme per vincere il male”, secondo la significativa espressione di Papa Francesco. Il Libano dev’essere preservato con ogni sforzo come spazio di democrazia, pace e dialogo nel turbolento e lacerato Medio Oriente.

[**] San Charbel Makhluf, sacerdote dell’Ordine Libanese Maronita. Youssef Antoun (Giuseppe Antonio) Makhluf nasce a Beqaa Kafra probabilmente l’8 maggio 1828. Nel 1851 lasciò la propria casa per entrare nell’Ordine Libanese Maronita, presso il monastero di Nostra Signora di Mayfouq, nella regione di Byblos. Nel novembre dello stesso anno vestì l’abito religioso e cambiò nome in Fratel Charbel. L’anno successivo si trasferì al monastero di san Marone ad Annaya, sulla montagna di Byblos, dove emise i voti solenni il 1̊ novembre 1853. In seguito, Fratel Charbel fu mandato al monastero di Kfifan dove completò gli studi teologici. Dopo la sua ordinazione sacerdotale, Padre Charbel tornò ad Annaya e, sei anni dopo, alla ricerca di una vita di austera solitudine e di una più alta perfezione, ottenne di poter diventare eremita nell’eremo dei Santi Pietro e Paolo, non lontano dal monastero. Visse in quel luogo altri ventitré anni, dove servì Dio giorno e notte in somma sobrietà di vita, digiunando, pregando e lavorando nei campi intorno all’eremo. Il 16 dicembre 1898, mentre celebrava la Santa Messa, fu colpito da apoplessia: morì dopo otto giorni di agonia, il 24 dicembre. È stato beatificato il 5 dicembre 1965 e canonizzato il 9 ottobre 1977 da San Paolo VI. I suoi resti mortali sono venerati nel monastero di San Marone ad Annaya, in un’urna di legno di cedro.

Le mani di San Charbel in testa, per guarire o più semplicemente per trovare il benessere interiore che solo la fede sa dare. E così che a Gragnano in provincia di Napoli hanno accolto la statua con le reliquie del santo. E non è un caso che la statua realizzata da un’artista calabrese devota, Dina Giancotti, riproduce proprio il gesto dell’imposizione delle mani, che libera, che indica guarigione. Un gesto desiderato da quanti hanno avuto modo di avvicinare San Charbel. Un santo senza frontiere. Sulla sua strada la guarigione di Milan, una bimba musulmana di tre anni a cui l’eremita libanese ridiede la vita. E la sua apertura al mondo, ed anche a religioni diverse, non poteva non avere una sponda dove l’ecumenismo è particolarmente radicato, Pompei. La sua devozione alla Regina del Santo Rosario è stata letta sempre come il suo viatico verso la santità.

L’instancabile apostolo e promotore del culto di San Charbel è l’amico Padre Jarek Cielecki, che dal 2012 (in occasione del Viaggio Apostolico di Papa Benedetto XVI in Libano) porta avanti il meraviglioso messaggio del grande santo taumaturgo libanese. Un santo di cui da allora siamo molto devoti e la cui immagine ci accompagna sempre, in casa e nei viaggi, insieme al sacramentale della Croce di San Benedetto.

Ricordo che Padre Jarek è fondatore e guida dell’Associazione Cattolica “Famiglia Casa di Preghiera di San Charbel”, riconosciuta per decreto dal Vescovo Adam Rosiek, Primo vescovo della Chiesa Cattolica Nazionale di Polonia – KKNP, di cui Padre Jarek è sacerdote dalla Domenica del Corpus Domini, 14 giugno 2020 [Padre Jarek Cielecki di San Charbel è accolto nella Chiesa Cattolica Nazionale in Polonia – Un nuovo inizio nel segno del Corpus Domini – 15 giugno 2020].

Postscriptum

Non c’è parere unanime sulle esplosioni a Beirut tra esperti, che ovviamente si basano su analisi dei video. C’è chi ipotizza presenza di altri ordigni, ma anche l’opposto.

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