Pontificia Accademia per la Vita: l’Humana Communitas nell’era della pandemia

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Si intitola ‘L’Humana Communitas nell’era della Pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita’ ed è il secondo documento (il primo è del 30 marzo scorso) che la Pontificia Accademia per la Vita dedica alle conseguenze della crisi sanitaria mondiale e alla sua interpretazione:

“Il Covid-19 ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione. Lo stiamo vivendo già da tanto tempo; è un’esperienza che non si è conclusa e potrà durare ancora a lungo. Ma quale interpretazione possiamo darne? Certo, siamo chiamati ad affrontarlo con coraggio. La ricerca di un vaccino e di una spiegazione scientifica accurata su cosa ha scatenato questa catastrofe ne sono la prova.

Ma siamo anche chiamati a una consapevolezza più profonda? Se così fosse, in che modo questa presa di distanza ci impedirà di cadere preda dell’inerzia della noncuranza, o peggio, della complicità con la rassegnazione? E’ possibile fare ‘un passo indietro’ ponderato, che non significhi inazione, un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita?”

Il documento si sofferma ad esaminare il significato della fragilità: “Abbiamo toccato con mano il volto più tragico della morte: alcuni hanno conosciuto la solitudine della separazione, sia fisica che spirituale, hanno lasciato le proprie famiglie impotenti, impossibilitate ad accomiatarsi dai loro cari, senza neanche la possibilità della più elementare pietà di una sepoltura adeguata. Abbiamo visto vite finire senza alcuna distinzione di età, status sociale o condizioni di salute.

‘Fragili’. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani.

Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo”.

Il documento ha rilevato che questa pandemia non è soltanto un fenomeno naturale: “Il fenomeno del Covid-19 non è solo il risultato di avvenimenti naturali. Ciò che avviene in natura è già il risultato di una complessa interazione con il mondo umano delle scelte economiche e dei modelli di sviluppo, essi stessi ‘infettati’ con un diverso ‘virus’ di nostra creazione: questo virus è il risultato, più che la causa, dell’avidità finanziaria, dell’accondiscendenza verso stili di vita definiti dal consumo e dall’eccesso.

Ci siamo costruiti un ethos di prevaricazione e disprezzo nei confronti di ciò che ci è dato nella promessa primordiale della creazione. Per questo motivo, siamo chiamati a riconsiderare il nostro rapporto con l’habitat naturale. A riconoscere che viviamo su questa terra come amministratori, non come padroni e signori.

Ci è stato donato tutto, ma la nostra è una sovranità solo concessa, non assoluta. Consapevole della sua origine, questa porta con sé il peso della finitezza e il segno della vulnerabilità. La nostra condizione è una libertà ferita. Possiamo rifiutarla come una maledizione, una situazione provvisoria da superare nel minor tempo possibile. Oppure, possiamo apprendere una pazienza diversa: capace di consentire alla finitudine, di rinnovare l’interazione con il prossimo vicino e con l’altro distante”.

Però questo particolare momento può servire ad avere una nuova visione: “Le lezioni di fragilità, finitezza e vulnerabilità ci conducono alla soglia di una nuova visione: promuovono un ethos di vita che richiede un impegno dell’intelligenza e il coraggio di una conversione morale.

Imparare una lezione significa farsi umili, significa cambiare, cercando risorse di senso fino ad allora non sfruttate, forse sconfessate. Imparare una lezione significa diventare consapevoli, ancora una volta, della bontà della vita che si offre a noi, liberando un’energia che corre anche più in profondità dell’esperienza inevitabile della perdita, che deve essere elaborata e integrata nel significato della nostra esistenza”.

Quindi è necessaria la cooperazione internazionale: “Nessuno può essere visto semplicemente ‘in attesa’ di ricevere il riconoscimento pieno dello status, come se fosse alle porte dell’humana communitas. L’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e ai farmaci essenziali deve essere effettivamente riconosciuto quale diritto umano universale”.

Il documento propone due ‘conclusioni’: “La prima riguarda l’accesso universale alle migliori opportunità di prevenzione, diagnosi e trattamento, che non devono essere riservate solo a pochi. La distribuzione di un vaccino, non appena disponibile in futuro, è un caso emblematico. L’unico obiettivo accettabile, coerente con un’equa fornitura del vaccino, è l’accesso a tutti, senza eccezione alcuna.

La seconda conclusione concerne la definizione di ricerca scientifica responsabile. La posta in gioco qui è molto alta e le questioni molto complesse. Sono tre quelle che meritano di essere sottolineate. In primo luogo, in relazione all’integrità della scienza e alle nozioni che stimolano il suo progresso: l’ideale di un’obiettività controllata, se non completamente ‘distaccata’ e l’ideale di libertà di ricerca e, soprattutto, libertà dai conflitti di interesse.

In secondo luogo, in gioco c’è la natura stessa della conoscenza scientifica in quanto prassi sociale, definita, in un contesto democratico, da regole di uguaglianza, libertà ed equità. In particolare, la libertà scientifica di ricerca non dovrebbe inglobare nella propria sfera di influenza la decisione politica”.

Infine il documento conclude invitando alla responsabilità della solidarietà: “Una comunità è responsabile quando oneri di cautela e sostegno reciproco sono condivisi proattivamente con attenzione al benessere di tutti. Le soluzioni legali ai conflitti nel riconoscimento di responsabilità e colpa per cattiva condotta intenzionale o negligenza sono, a volte, necessari strumenti di giustizia. Tuttavia, non possono sostituire la fiducia come sostanza dell’interazione umana. Unicamente quest’ultima ci guiderà attraverso la crisi, poiché solo sulla base della fiducia, l’humana communitas potrà alla fine fiorire”.

Ed il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mons. Vincenzo Paglia, ha sottolineato il ‘compito’ della comunità cristiana: “La comunità cristiana può aiutare anzitutto a interpretare la crisi non solo come un fatto organizzativo, che si può superare migliorando l’efficienza. Si tratta di comprendere più in profondità che l’incertezza e la fragilità sono dimensioni costitutive della condizione umana.

Occorre rispettare questo limite e tenerlo presente in ogni progetto di sviluppo, prendendosi cura della vulnerabilità degli altri, perché siamo affidati gli uni agli altri. E’ una conversione che chiede di includere ed elaborare esistenzialmente e socialmente l’esperienza della perdita. Solo a partire da questa consapevolezza sarà possibile un coinvolgimento della coscienza e un cambiamento che ci renda responsabilmente solidali in una fraternità globale”.

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