Un cattolico deve accettare tutte le dottrine conciliari, mentre i documenti pastorali possono essere oggetto di discussione

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Continuiamo a dare spazio al dibattito sul Concilio Vaticano II, con una riflessione di Padre Giovanni Cavalcoli, O.P., pubblicato dall’amico e collega Aldo Maria Valli sul suo blog Duc in altum, con cui il teologo contribuisce alla discussione aperta in questi giorni sulla liceità o meno di discutere il Concilio Vaticano II: «Per quanto poi riguarda l’interpretazione dei documenti del Concilio e il giudizio da dare su di essi, già san Paolo VI distingueva le dottrine del Concilio dalle direttive pastorali, distinzione fatta con maggior forza e chiarezza da Benedetto XVI, il quale in un discorso rivolto alla Fraternità San Pio X disse che se essa voleva essere in piena comunione con la Chiesa, doveva accettare tutte le dottrine del Concilio, mentre i documenti pastorali potevano essere oggetto di discussione».

Gli esiti pastorali del concilio possono essere discussi, ma le dottrine vanno accettate
di Padre Giovanni Cavalcoli, O.P.
Duc in altum, 22 luglio 2020

Vedo che sta prendendo sempre più corpo nella Chiesa una convergenza di personaggi autorevoli, i quali ritengono che alcune dottrine del Concilio Vaticano II, come per esempio quelle contenute nella Lumen Gentium, nella Nostra aetate, nella Dignitatis humanae e nell’Unitatis redintegratio siano in contrasto col precedente magistero della Chiesa, per cui esse sarebbero bisognose di essere corrette o semplicemente soppresse.
Questo progetto suppone evidentemente la convinzione che la Chiesa, nel proclamare in un Concilio una data dottrina, possa sbagliare. Ma ciò non corrisponde a verità. Testimonianza autorevole di ciò è la condanna di Papa Leone X della tesi luterana, secondo la quale le dottrine dei Concili possono essere sbagliate (Denz. 1479).
Come esempio di questo supposta fallibilità della dottrina di un Concilio i suddetti personaggi portano il decreto Haec santa Ecclesia del Concilio di Costanza del 1415, il quale decreto afferma la superiorità del Concilio sul Papa. Esso venne elaborato dietro proposta e sotto la presidenza del Card. Pietro d’Ailly, il quale, nell’intento di rimediare allo scisma, assunse, col consenso dei Padri, la direzione dei lavori conciliari e fece approvare il decreto, indipendentemente dalla volontà dei tre Papi allora in conflitto fra di loro per la supremazia sulla Chiesa.
Il decreto, redatto con tono solenne, può dar l’impressione di voler essere dogmatico. Ma in realtà il suo fine era eminentemente pratico per risolvere quella difficilissima ed eccezionalissima circostanza, altrimenti insolubile e d’altra parte era urgente ed improcrastinabile che la Chiesa fosse unita sotto un solo pastore, come era nella volontà di Cristo.
È vero che quel decreto non è del tutto estraneo al conciliarismo di Giovanni Gersone, di Guglielmo di Ockham, di Giovanni di Jandun e di Marsilio di Padova. Ed effettivamente si prestava ad essere interpretato come conciliarista. Poteva essere addirittura messo in rapporto col conciliarismo di Jan Hus e John Wycliff, condannati dallo stesso Concilio. E lo stesso d’Ailly aveva qualche simpatia per Ockham.
Ma occorre tuttavia separare nettamente l’eventuale interpretazione conciliarista del decreto dallo scopo per il quale esso fu redatto ed approvato nell’intenzione dei Padri, che fu, come ho detto, unicamente quello di trovare una via di uscita a quella situazione drammatica ed insostenibile.
Ed effettivamente il rischioso espediente del d’Ailly, diplomatico consumatissimo, e sinceramente desideroso dell’unità della Chiesa, ebbe successo: i tre Pontefici furono deposti e nel 1417 fu eletto Martino V, nel tripudio universale della Chiesa, finalmente liberata dall’incubo e che ora si ritrovava riunita e felice attorno ad un solo pastore nella concordia e nella pace.
Certo, com’era da prevedere, Martino si affrettò ad annullare la Haec sancta Ecclesia, sia perché ormai aveva adempiuto alla sua funzione contingente, e sia ancor più per l’evidente aggancio che essa poteva offrire ai conciliaristi. Tuttavia doveva saper benissimo che, se era stato eletto Papa in una Chiesa riappacificata, che aveva ritrovato la sua unità attorno al Papa, lo doveva proprio a quello spericolato decreto dell’audace ma leale ed avveduto cardinale d’Ailly.
Spendiamo adesso una parola a mostrare che il conciliarismo, ancor prima che essere contrario alla volontà di Cristo, che vuole che la Chiesa sia governata da un solo pastore, cosa evidente per tutti i cattolici, suppone una concezione assurda del rapporto capo-comunità anche da un punto di vista meramente razionale. Infatti, il molteplice come tale non produce l’uno: occorre un uno che lo unisca. Questo è evidente da un punto di vista teologico: Dio Uno precede ed unifica il molteplice delle creature che costituiscono il mondo. Ma è evidente anche dal punto di vista sociale. La moltitudine come tale non può riunirsi da sé, se non è convocata da uno, se non ha un capo che la unisca. E per questo il capo è superiore alla moltitudine e così il Papa è superiore al Concilio.
Non deve trarre in inganno il fatto della democrazia. Gli elettori si limitano ad eleggere il capo: ma non lo producono; deve esistere già come capo possibile fautore e garante dell’unità del popolo. Senza capo il popolo non può unirsi da sé, perché l’unità del popolo nasce dal fatto che è guidato dal capo. Per questo il Concilio non può comandare al Papa, ma è il Papa che comanda, unisce e guida il Concilio.
La moltitudine come tale non può dirigere l’azione. Siccome l’azione è una, il comando deve venire da uno solo. Il Concilio come tale non può essere principio di azione al di sopra del Papa, il quale solo è il principio dell’unità del Concilio. Come l’uno è superiore al molteplice, così occorre dunque uno che presieda al Concilio. E questo non può essere che il Papa.
Mancando o avendo perso autorità il Papa a Costanza, è stato giocoforza che uno assumesse le redini del Concilio. E questo è stato il cardinale Pietro d’Ailly. Ma egli ha usato quel documento ovviamente non intento dogmatico, ma solo come espediente giuridico per preparare Martino V, anche se purtroppo gli estensori del documento non brillano per chiarezza, per cui il documento può sembrare dogmatico, mentre non lo è.
Per quanto poi riguarda l’interpretazione dei documenti del Concilio e il giudizio da dare su di essi, già san Paolo VI distingueva le dottrine del Concilio dalle direttive pastorali, distinzione fatta con maggior forza e chiarezza da Benedetto XVI, il quale in un discorso rivolto alla Fraternità San Pio X disse che se essa voleva essere in piena comunione con la Chiesa, doveva accettare tutte le dottrine del Concilio, mentre i documenti pastorali potevano essere oggetto di discussione.
La tesi che il Concilio sia solo pastorale fa comodo a coloro i quali, sapendo che la dottrina non può essere discussa, ma può esserlo quella pastorale, col pretesto che il Concilio è solo pastorale, ne respingono le dottrine come fossero solo pastorali. Ma ciò non è leale e non è onesto. È vero che san Giovanni XXIII pensò ad un Concilio solo pastorale, ma quando subentrò san Paolo VI, egli volle di proposito ed esplicitamente dargli anche un carattere dottrinale, in particolare per quanto riguarda l’ecclesiologia e l’antropologia.
Così a nessuno è proibito criticare certe posizioni pastorali del Concilio, come per esempio la sua visione troppo ottimistica nei confronti del mondo e la sua tendenza buonista e misericordista, che favorisce il lassismo e l’indifferentismo e pare dimenticare le conseguenze del peccato originale. Nell’esame delle varie religioni sembra dare troppo spazio alla diversità a scapito del problema della verità.
Per quanto riguarda il problema dell’interpretazione delle dottrine del Vaticano II, non è il caso di vedervi tracce di modernismo, perché il modernismo è un’eresia e non è ammissibile che un Concilio ecumenico cada nell’eresia. È vero che certi passi sono ambigui, ma vanno interpretati in bonam partem. Occorre invece confutare l’interpretazione dei rahneriani, come ho fatto in due miei libri: uno dedicato agli errori di Rahner (Il Concilio tradito, Edizioni Fede & Cultura,Verona 2009) e uno al vero significato del Concilio (Progresso nella continuità, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2011).

Padre Giovanni Cavalcoli, OP

In Duc in altum il dibattito sul Concilio Vaticano II si è articolato finora attraverso i seguenti interventi [i link QUI]:
Carlo Maria Viganò, Excursus sul Vaticano II e le sue conseguenze, 10 giugno 2020
Aldo Maria Valli, Il Concilio Vaticano II e le origini del deragliamento, 14 giugno 2020
Carlo Maria Viganò, Compito del prossimo papa? Riconoscere l’infiltrazione del Nemico nella Chiesa, 27 giugno 2020
Enrico Maria Radaelli, Il Dogma e l’Anticristo. Il Concilio Vaticano II e la maxi-spallata di monsignor Viganò, 4 luglio 2020
Carlo Maria Viganò, “Non penso che il Vaticano II sia invalido, ma è stato gravemente manipolato“, 4 luglio 2020
Aldo Maria Valli, Il Vaticano II e quell’errore fatale, luglio 2020
Serafino Maria Lanzetta, Il Vaticano II e il Calvario della Chiesa, 13 luglio 2020
Alfredo Maria Morselli, “Non è il Concilio la causa di tutti i mali”, 14 luglio 2020
AA.VV, Consenso internazionale al dibattito sul Vaticano II aperto dai vescovi Viganò e Schneider, 15 luglio 2020
Enrico Maria Radaelli, Per il ritorno del dogma. Ovvero per far tornare la Chiesa a Cristo, 16 luglio 2020

Articoli precedenti

Nella situazione senza precedenti in cui si trova la Chiesa, è lecito per un cattolico discutere sul Concilio Vaticano II? – 19 luglio 2020
– Cinquanta studiosi, giornalisti e opinion-leaders di tutto il mondo sul “fatto ineluttabile della revisione critica del Concilio Vaticano II” – 15 luglio 2020
– Il Concilio Vaticano II e le difficoltà dell’interpretazione. Conciliare lo zelo per la verità con la correttezza e l’amore del prossimo – 24 giugno 2020
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