Debre Libanos: la strage dei cristiani

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Ancora nuove foto inedite documentano la strage di Debre Libanos, in Etopia, il più grande massacro di religiosi e fedeli cristiani avvenuto in Africa, tra il 21 e il 29 maggio 1937, quando monaci, preti e pellegrini ortodossi, radunati nel monastero di Debre Libanos per la festa dell’Arcangelo Mikael e di san Tekle Haymanot, sono stari trucidati dalle truppe fasciste, comandate dal generale Pietro Maletti, dietro un preciso ordine del viceré Rodolfo Graziani come ritorsione per l’attentato subìto a febbraio e nel quale il viceré riteneva i monaci collusi.

Le foto, trasmesse dal Tg2000, in un servizio realizzato da Antonello Carvigiani, confermano con chiarezza quello che è successo: sono foto scattate da Virgilio Cozzani, tenente di complemento del 45^ battaglione musulmano incaricato di eseguire le fucilazioni. Foto corredate da precise didascalie sul retro. I primi tre scatti sono del giorno prima della strage: si vedono il monastero, i reparti italiani sul pianoro di Debre Libanos, i monaci in attesa di essere fucilati.

A mostrare questi documenti visivi è un appassionato di fotografia e storia, l’avvocato Luigi Panella: “In una immagine si vede il plotone di esecuzione proprio a Shunkurtì il 21 maggio del 1937. Ci sono gli ascari che sparano verso delle macchie bianche sullo sfondo, i monaci che vengono fucilati. Cozzani annota dietro a questa fotografia del plotone di esecuzione all’opera: Shunkurtì, 21 maggio 1937 ‘261, ciao neh’. Irridendoli il tenente dà anche il numero dei monaci fucilati, 261, un dato poco diverso da quello riportato dal generale Maletti nei rapporti ufficiali: 297”.

Le foto saranno pubblicate in un libro sul 45° battaglione coloniale (1936–1938) di Gabriele Zorzetto: “Costituito durante la campagna etiopica, aveva dato buona prova di sé. Aveva un comandante che era stato scelto un anno e mezzo prima dallo stesso Graziani e fatto non trascurabile era interamente composto da elementi musulmani”.

Ed alcuni mesi fa è stato presentato ‘Debre Libanos 1937. Il più grande crimine di guerra dell’Italia’, saggio dello storico Paolo Borruso, che non si limita a delineare la vicenda del più grande massacro di religiosi e fedeli avvenuto in Africa (449 morti secondo il Viceré Rodolfo Graziani, un numero compreso tra 1800 e 2200 secondo le ricostruzione storiche), ma rende conto anche del contesto generale in cui maturò l’eccidio: l’humus culturale, gli interessi strategici che mossero all’azione o a un silenzio non meno colpevole, le ragioni della lunga rimozione che, dal secondo dopoguerra interessò l’Italia, gli altri paesi europei e persino la stessa Etiopia di Hailé Selassié, il Re dei Re; costui, al suo ritorno in patria, era infatti impegnato a fare della propria nazione un punto di riferimento per l’intero continente e a diventare un attore non irrilevante nei complessi equilibri nel nuovo assetto mondiale.

La Campagna d’Africa Orientale è stata inaugurata dal governo Crispi nel 1889 contro l’imperatore Menelik II d’Etiopia, che, asceso al trono quello stesso anno, aveva avviato un processo di modernizzazione del paese e allargato i confini del suo impero fino ad inglobare i territori a maggioranza musulmana.

A Menelik succedette il Ras Tafari Hailé Selassié, imperatore dal 1930, ma già dal 1923 responsabile dell’ingresso dell’Etiopia nella Società delle Nazioni, e, nel 1931, firmatario della prima carta costituzionale. Il nuovo Negus fece di tutto per coinvolgere tutte le popolazioni dell’impero e dell’Africa in previsione di un attacco annunciato, con proclami nei quali affermava che la patria etiopica includeva tutti i popoli di razza cuscitica.

Mussolini diede avvio alle ostilità il 3 ottobre 1935 e la guerra contò su un’affluenza di mezzi, armi e uomini mai realizzata in precedenza in Italia. Nel maggio 1936 risultavano coinvolti 330.000 militari italiani, 87.000 ascari, 100.000 lavoratori italiani militarizzati, 10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 90.000 quadrupedi da soma e d’attacco, 14.000 automezzi, 350 aerei.

Nella prefazione al saggio di Borruso, Andrea Riccardi riflette sul limite del mito dell’italiano ‘brava gente’ ed invita a chiedersi cosa sia successo agli Italiani in Etiopia, che appartenevano in fondo alla stessa generazione degli uomini che in Russia, tra il 1941 e il 1943, non rimasero insensibili alla condizione della popolazione locale:

“La propaganda di odio può trasformare rapidamente le società, le persone, soprattutto quando si è mobilitati in un conflitto. La realtà è che i soldati italiani erano stati fascistizzati e imbarbariti, perché si conducesse una campagna militare il più possibile radicale contro un nemico disumanizzato da rappresentazioni razziali e confessionali, che legittimavano ogni azione oltre i comuni principi del diritto bellico… Il razzismo e il disprezzo verso l’etiope ne facevano un non uomo. E questo non uomo non era bianco, ma nero”.

Foto: Wikipedia

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