Ieri Falcone un magistrato isolato, delegittimato, tradito dai colleghi e dal Csm. Oggi giustizia nel caos con “caso Palamara”. E Bonafede guarda i sigilli

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Nell’anniversario della strage a Capaci, al Consiglio Superiore della Magistratura il 21 maggio 2020 c’è stato il ricordo dei torti subiti da parte delle altre toghe dal giudice Giovanni Falcone “prima di essere ucciso con il tritolo mafioso”, ha detto ex pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo: “Venne più volte delegittimato, umiliato e così di fatto isolato anche da una parte rilevante della magistratura”. L’ex procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita: “Basta ipocrisie, venne isolato, calunniato pure dai colleghi, accusato di costruire teoremi, mentre svelava i rapporti tra Cosa nostra ed il potere. Gli venne contestato protagonismo, presenza sui media, di collaborare col governo” [Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2020; Palermotoday.it, 25 novembre 2017; Rossana Lo Castro – ADNKRONOS, 22 maggio 2020].

Mentre la giustizia è nel caos, l’unico a tacere è rimasto il Ministro della giustizia grillino Alfonso Bonafede, a cui spetta l’azione disciplinare, ma zero accenni sulle interferenze della magistratura nella politica. Nella bufera per il “caso Palamara” anche l’ANM-Associazione Nazionale Magistrati a cui aderisce circa il 90% dei magistrati italiani: si sono dimessi il presidente, Luca Poniz (Area) e il segretario, Giuliano Caputo (Unicost) [Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2020; Davide Di Stefano – Il Primato Nazionale, 24 maggio 2020].

Inoltre, trasferito d’ufficio il pubblico ministero della Procura nazionale antimafia Cesare Sirignano, anche lui intercettato dal trojan iniettato nel cellulare di Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm e potente ‘ras’ di Unicost – la corrente moderata della magistratura – finito sotto inchiesta a Perugia e sospeso da stipendio e funzioni per aver tentato di condizionare le nomine nelle procure [Il Mattino, 21 maggio 2020].

Il bordello della magistratura, ma non cambierà mai. A febbraio Gratteri lo denunciò: ci sono 400-450 toghe corrotte – 23 maggio 2020
Il Riformista di Piero Sansonetti: dopo “magistratopoli” ora scoppia “giornalistopoli” – 22 maggio 2020

I resti della Quarto Savona 15.

In pochi negli anni hanno parlato della Fiat croma blindata da 2 tonnellate che precedeva la Fiat croma blindata dove al suo interno vi erano Giovanni Falcone, la sua moglie Morvillo e l’autista Giuseppe Costanza, miracolosamente sopravvissuto all’attentato del 1992 a Capaci e ancora in vita, poiché era al posto di Falcone sul sedile posteriore perché Falcone aveva chiesto di guidare come spesso faceva.
È un mistero perché Costanza negli anni è stato lasciato in disparte e mai chiamato a deporre. Costanza è sempre stato l’autista di Falcone, con il quale aveva un rapporto di confidenza. Ma l’essere scampato all’attentato per Costanza è risultato essere una condanna a vita, relegato in un sottoscala di un garage di un autoparco a fare fotocopie per dieci anni. Come se qualcuno lo volesse nascondere al mondo. Come se a qualcuno facesse paura la sua testimonianza. Come se qualcuno fosse dispiaciuto che nella stessa auto di Falcone vi fosse un superstite.
Ricordiamo che i componenti della seconda auto di scorta che seguiva quella di Falcone non ha subito danni. Infatti gli stessi agenti raccontano che dopo l’esplosione dell’autostrada si sono posizionati intorno all’auto di Falcone proteggendola armi alla mano. In quel momento Falcone era ancora in vita e cercava di parlare, ma una volta soccorso ha raggiunto l’ospedale in condizioni disperate e i medici intervenuti non hanno potuto salvargli la vita.
L’attentato di Capaci è stato un’operazione chirurgica e non è stata compiuta da picciotti quasi analfabeti, killer ed esecutori di Cosa Nostra ma bensì è stato opera di professionisti come gli atti del processo della trattativa stato-mafia, che vede protagonista il magistrato Nino Di Matteo, hanno evidenziato a margine della sentenza di primo grado, dove si evince che la trattativa stato-mafia è realmente avvenuta aldilà di ogni ragionevole dubbio. Come si fa a far fare ad un’auto blindata che pesa 2 tonnelate un volo di oltre cento metri? Non basta la cattiveria e l’astuzia di un killer senza scrupoli di Cosa Nostra… no proprio non basta.

Strage di Capaci, testimone rivela: “La Quarto Savona 15 era integra dopo l’esplosione”
di Giulio Giallombardo
Il fotografo Antonio Vassallo abita a due passi dal luogo dell’attentato. Si catapultò tra le macerie pochi minuti dopo le fatidiche 17,58, fotografando forse qualcosa che non avrebbe dovuto. È convinto che sulla Croma blindata che precedeva l’auto di Falcone non tutto sia stato detto
Palermotoday.it, 25 novembre 2017

È ancora forte l’odore di sangue e gomma bruciata di quel 23 maggio 1992. La morte di Totò Riina ha evocato i fantasmi della strage di Capaci, che costò la vita a Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ricordi, testimonianze, confessioni di chi quel giorno era presente sul posto, pochi attimi dopo che mille chili di tritolo disintegrarono un pezzo di autostrada.
Il fotografo Antonio Vassallo abita ancora a due passi dal luogo dell’esplosione. Si catapultò tra le macerie pochi minuti dopo le fatidiche 17,58, fotografando – forse – qualcosa che non avrebbe dovuto. Ha raccontato più volte la storia del rullino che gli fu sottratto da quelli che si presentarono come due poliziotti in borghese, negativi spariti nel nulla, nonostante i suoi tentativi di recuperarli. Ma quello di cui non si è mai parlato, è del ricordo nitido che Vassalo ha della Quarto Savona 15, la Croma blindata su cui viaggiavano gli agenti della scorta di Falcone, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, che morirono nell’esplosione.
Il giallo della Quarto Savona 15
Ciò che resta dell’auto, adesso, è custodito in una teca e, dopo aver fatto il giro d’Italia, è esposto nella caserma “Lungaro” di Palermo. Si tratta ormai solo di un cumulo di lamiere, ma, secondo quanto ricorda Vassallo, la Croma blindata, catapultata tra gli ulivi dopo la deflagrazione, sarebbe rimasta pressoché integra. “La macchina era finita dall’altra parte dell’autostrada – rivela il fotografo a PalermoToday – era capovolta, ma ricordo di averla vista integra, non sicuramente come viene presentata oggi”.
Vassallo, candidato al Consiglio comunale di Palermo alle scorse amministrative e attivista che ogni giorno accompagna studenti da tutta Italia sui luoghi della strage, sembra ricordare bene i dettagli di quel pomeriggio infernale ed è convinto che sulla Quarto Savona 15 non tutto sia stato detto. “Sappiamo che Falcone viaggiava sempre con la sua valigetta ventiquattrore, che conteneva due agende ed un’agendina elettronica – dice il fotografo – dunque il magistrato doveva averla con sé anche in quell’occasione. Di quella valigetta non se ne è saputo più nulla, come mai? E ancora, perché quell’auto prima era integra e adesso è ridotta un cumulo di lamiere?”.
Una delle ipotesi che traspare dal racconto di Vassallo è che l’auto sia stata “accartocciata” in un secondo momento, dopo averla “ripulita” di ciò che, verosimilmente, non si sarebbe dovuto trovare. “Nulla esclude – ipotizza il fotografo – che qualcuno abbia volutamente fatto sparire la ventiquattrore di Falcone, un po’ come è successo con la famosa agenda rossa di Borsellino, in via D’Amelio. Sono convinto che quell’auto non fosse ridotta così come ce la mostrano adesso. Perché nessuno ha spiegato cosa sia successo a quell’auto?”. Un particolare che salta fuori adesso perché – spiega il fotografo – è solo recentemente che i brandelli della Croma vengono mostrati in pubblico.
Quei rullini spariti nel nulla
Al giallo della Quarto Savona 15, si somma, poi, quello del rullino sparito. Una storia già raccontata in passato da Vassallo, ma sulla quale non è ancora stata fatta chiarezza. Dopo essere arrivato sul luogo della strage, a pochi minuti dall’esplosione, Vassallo racconta di essere fuggito via perché un uomo, che poi scoprirà essere Angelo Corbo, agente della scorta che viaggiava nell’altra auto, gli si avventa contro con un mitra. In quegli attimi deliranti, Corbo avrebbe scambiato l’obiettivo al collo di Vassallo per un’arma. Tornato qualche minuto dopo, il fotografo si aggira tra le macerie scattando a raffica, quando due uomini che si sarebbero presentati come poliziotti in borghese, avrebbero preso in consegna il rullino.
Isola, si inaugura il giardino della memoria
“Io ero in possesso di una regolare licenza rilasciata dalla questura – spiega Vassallo stavo scattando fotografie, ma vengo fermato da questi due uomini. Mi sventolano un tesserino in faccia e, strattonandomi per un braccio, mi obbligano a consegnargli il rullino. Cosa che faccio nella speranza che, in qualche modo, le mie foto sarebbero servite alle indagini. Invece, passano i mesi e di queste foto non si sa più nulla. Quindi decido di andare da Ilda Boccassini, che indagava sulla strage alla procura di Caltanissetta, e lei cade dalle nuvole, dicendomi che quelle foto non erano mai arrivate. Guarda caso – racconta ancora il fotografo – il giorno dopo vengo convocato dal questore Arnaldo La Barbera che sostanzialmente si scusa, dicendomi che gli agenti avevano dimenticato di consegnare le foto e che sarebbero state inviate subito a Caltanissetta. Bene, quelle foto non sono state messe agli atti del processo, né tanto meno sono più saltate fuori”.
Il sospetto di Vassallo è che, senza volerlo, quel giorno abbia immortalato qualcosa che non avrebbe dovuto. Ipotesi questa che s’intreccia con i misteri ancora irrisolti di quel 23 maggio. Parallela al corso della giustizia, che ha inflitto dure condanne agli autori materiali della strage, corre – infatti – un’altra strada: quella delle presunte verità taciute, delle possibili complicità di apparati dello Stato e dell’ombra dei mandanti occulti. Segreti che, ancor più dopo la morte di Riina, sembrano perdersi tra le macerie di quel maledetto pomeriggio di maggio.

L’autista di Falcone: “Io dimenticato per 23 anni, stufo delle solite passerelle”
di Rossana Lo Castro
ADNKRONOS, 22 maggio 2020

“In Italia per essere presi in considerazione occorre morire. Io disgraziatamente sono rimasto in vita e oggi do fastidio perché dico ciò che penso e non quello che vogliono che io dica”. La strage di Capaci per Giuseppe Costanza, l’autista del giudice Giovanni Falcone scampato al tritolo di Cosa nostra, ha segnato l’inizio di un oblio lungo 23 anni. “Dopo 18 mesi tornai a lavoro, mi aspettavo un’accoglienza diversa e, invece, non sapevano cosa farsene di me. Mi misero in uno sgabuzzino, un piccolo ufficio con le pareti in cartongesso ricavato in un corridoio”, racconta all’Adnkronos. Gli diedero la medaglia d’oro al valor civile e lo assegnarono all’ufficio autoparco. “Entravo, timbravo il cartellino e aspettavo l’orario di uscita. Nessun ordine di servizio. Un incubo. Mi incatenai davanti al tribunale, fu a quel punto che si accorsero che Giuseppe Costanza era vivo. E stato il periodo più brutto della mia vita, altro che bomba… Dopo 10 anni non ce l’ho fatta più e me ne sono andato”.
Oggi Costanza gira l’Italia, va nelle scuole per raccontare ai ragazzi gli anni bui delle stragi e parlare di quel giudice “isolato e delegittimato dalle stesse istituzioni che oggi lo esaltano”. “In vita Falcone ebbe più nemici che amici, fu abbandonato e tradito. Fu accusato persino di essersi messo da solo la bomba del fallito attentato all’Addaura per fare carriera. Il Csm bocciò la sua candidatura alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo preferendogli Antonino Meli, che di mafia non sapeva nulla e che smantellò il pool antimafia. Questa è la verità – scandisce lentamente -. Invece, ogni anno assistiamo alle solite passerelle, vengono qui, salgono sul palco e tutto finisce lì. Non si alza il tiro sui mandanti, siamo ancora alla manovalanza”. Da 28 anni Giuseppe Costanza aspetta la verità. “La avremo forse tra 50 anni – dice -, quando non ci sarò più io e neppure i responsabili di quell’attentato”.
“Sono stufo di sentire dire che la mafia è solo Riina, Provenzano e Messina Denaro, che furono loro ad avere l’idea di imbottire l’autostrada di esplosivo. Falcone a Roma camminava senza scorta, avrebbero potuto eliminarlo là. Invece, lo hanno fatto a Palermo con una manifestazione eclatante. Una sceneggiata, un depistaggio, un’intimidazione per far piegare qualcuno ai voleri di chi quella strage l’aveva ideata. Ci vogliono professionisti per far saltare in aria un’autostrada, altro che Totò Riina e Bernardo Provenzano… Pezzi dello Stato e delle istituzioni che agirono nell’ombra e che sfruttarono quella manovalanza”. La settimana prima dell’attentato di Capaci il giudice Falcone confidò a Costanza una notizia non ancora ufficiale e che doveva rimanere riservata. “Mi disse che sarebbe diventato il procuratore nazionale antimafia e che avrebbe istituito un ufficio a Palermo – ricorda -. Aggiunse che ci saremmo spostati con l’elicottero ed era necessario che prendessi il brevetto per pilotarlo. Si fidava di me… Per me dietro la strage c’è proprio quella nomina”.
Lo scorso anno Costanza è stato sentito per la prima volta dalla commissione nazionale Antimafia. Ha ricostruito gli otto anni passati con il giudice. “Avevo chiesto di essere ascoltato nel 1998 ma quella istanza è rimasta per 27 anni lettera morta…”. Per molto tempo l’autista di Falcone, l’uomo con cui il giudice aveva un rapporto strettissimo di stima e di fiducia (“Comunicava a me e non alle istituzioni i suoi spostamenti”) è stato dimenticato. “Sono stati 23 anni di silenzio istituzionale, non mi hanno né invitato né cercato – dice -. Un giorno mentre in tv guardavo le manifestazioni in occasione dell’anniversario della strage mio nipote mi ha detto: ‘Nonno, ma non c’eri pure tu a Capaci? Perché non sei insieme a loro? È stato un pugno nello stomaco. E stato allora che ho deciso di far sentire la mia voce”.
A lungo ha dovuto convivere con il senso di colpa per essere scampato all’attentato. “Mi è stato detto che se fossi stato al mio posto, Falcone si sarebbe salvato e sarei morto io. Una bugia. Se alla guida ci fossi stato io sulla linea di fuoco sarebbero arrivate tutte e tre le auto e oggi piangeremmo nove vittime, invece che cinque”. Negli anni passati accanto al giudice ha imparato a convivere con la paura. “Ogni volta che uscivo di casa non sapevo se avrei riabbracciato i miei cari – ammette -, ma non avrei mai mollato Falcone. Ho rischiato la mia vita e non per soldi certamente, ma perché vedevo il suo impegno e la sua necessità di avere accanto persone di cui fidarsi e io ero uno di questi. Tornando indietro lo rifarei”.
Del giudice ricorda “la sua voglia di vivere”. “Mi diceva che gli sarebbe piaciuto poter passeggiare nella sua città senza la scorta, come un cittadino normale. Invece, era un ergastolano”. Le notizie delle scarcerazioni dei boss nelle ultime settimane lo hanno turbato. “Una cosa assurda, abominevole – dice -. È stato uno sbaglio compiuto da incompetenti o una scelta precisa? Io a questo punto ho i miei dubbi. Fortunatamente c’è stata un’indignazione nazionale, un moto di ribellione da un capo all’altro dell’Italia”. La fiducia nello Stato, nonostante gli anni di depistaggi e verità mancate, però, Costanza non l’ha mai persa, anche se, ammette con amarezza, “dentro le Istituzioni ci sono anche tanti che sono arrivati per altri scopi. I mafiosi una volta erano quelli con la coppola, oggi invece sono i tanti colletti bianchi che affollano i palazzi del potere. E lì che bisogna scavare, perché Cosa nostra senza l’appoggio di questi personaggi non esisterebbe”.
Ecco perché, secondo l’uomo che per otto anni ha accompagnato Falcone, occorre tenere bene a mente che “l’antimafia non si fa solo il 23 maggio”. “Oggi più che mai è necessario valutare con attenzione chi fa antimafia e chi, invece, vive di antimafia. Il mio auspicio? Che chi ha sbagliato possa pagare e oggi a chiederlo non è solo Giuseppe Costanza, figlio di un ferroviere, onesto cittadino italiano, ma l’Italia intera. Non possono più prenderci in giro”.

A Palazzo dei Marescialli il ricordo dei torti subiti dal giudice ucciso a Capaci da parte delle altre toghe. L’ex pm di Palermo: “Prima di essere ucciso dal tritolo mafioso, venne più volte delegittimato, umiliato e così di fatto isolato anche da una parte rilevante della magistratura”. L’ex aggiunto di Catania: “Venne isolato, calunniato, accusato di costruire teoremi, mentre svelava i rapporti tra Cosa nostra ed il potere. Gli venne contestato protagonismo, presenza sui media, di collaborare col governo”. Dalla bocciatura a consigliere istruttore agli esposti: quando ad accusare il magistrato erano i colleghi
di Giuseppe Pipitone
Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2020

Un magistrato isolato, delegittimato, tradito dai suoi stessi colleghi. Almeno mentre era in vita. Per la prima volta la verità sul trattamento riservato da buona parte della magistratura a Giovanni Falcone entra nelle stanze di Palazzo dei Marescialli. A 28 anni dalla strage di Capaci il plenum del Csm ha ricordato la figura del giudice palermitano. Il vicepresidente David Ermini ha definito la strage di Capaci come “uno dei momenti di massima violenza eversiva dell’attacco della mafia allo Stato”, insieme alla strage di via d’Amelio. “Giovanni Falcone è presente nella vita di ognuno di noi”, ha detto Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione.
I ricordi di Di Matteo e Ardita – Ma è con gli interventi di due consiglieri togati con alle spalle una lunga esperienza in prima linea nella lotta alla mafia che sono stati riportati i vari torti subiti da Falcone da parte dei suoi stessi colleghi. “A coloro che hanno perduto la loro vita per gli ideali di libertà e giustizia ai quali avevano improntato tutta la loro esistenza, dobbiamo il rispetto della memoria e della verità. Non sterili, e spesso finte, celebrazioni di facile retorica ma memoria e verità“, ha detto Nino Di Matteo. Per anni pm in prima linea nella lotta a Cosa nostra, Di Matteo è più volte finito sotto il fuoco incrociato di polemiche politiche legate alle inchieste che ha condotto: una su tutte quella sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra con lo scontro frontale scoppiato tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo. “Dobbiamo essere coerenti e non ipocriti ricordando Falcone”, ha commentato poco dopo Sebastiano Ardita, consigliere togato di Autonomia e Indipendenza (la stessa corrente che ha eletto Di Matteo, candidato indipendente), già procuratore aggiunto a Catania e Messina e investigatore esperto dei legami tra criminalità organizzata e alta finanza.
Un momento delicato per le toghe – Il ricordo di Falcone al Csm arriva in un momento particolare per il mondo della magistratura, travolto dall’inchiesta di Perugia su Luca Palamara che ha portato alle dimissioni di cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Un sistema che decideva nomine e incarichi e arrivava fin dentro il ministero della giustizia: il capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, intercettato con lo stesso Palamara, è stato costretto alle dimissioni solo pochi giorni fa. È in questo contesto di veleni e ombre sul mondo delle toghe che Di Matteo e Ardita hanno deciso di ricordare Falcone. Costringento il Csm a guardare il passato per come correttamente si è svolto. E quindi ricordando la continua delegittimazione tentata da un sistema di potere e legami trasversali. Una ragnatela che in tanti paragonano a quella di oggi.
“Fu delegittimano prima del tritolo mafioso” – “Memoria significa anche conoscenza e consapevolezza di un dato di fatto incontestabile: Giovanni Falcone, prima di essere ucciso dal tritolo mafioso, venne più volte delegittimato, umiliato e così di fatto isolato anche da una parte rilevante della Magistratura e del Consiglio Superiore”, ha ricordato ai suoi colleghi Di Matteo. “Quella di Giovanni Falcone fu una storia di solitudine, di sconfitte, di tradimenti subiti dentro e fuori la magistratura. Dovette difendersi dal Csm. Venne isolato, calunniato, accusato di costruire teoremi, mentre svelava i rapporti tra Cosa nostra ed il potere. Gli venne contestato protagonismo, presenza sui media, di collaborare col governo, non fu eletto al Csm”, ha detto invece Ardita.
La bocciatura del Csm – I riferimenti storici citati dai due togati oggi sono stati in gran parte rimossi. Per questo è utile ricordare come Falcone non fu certamente amato tra i suoi colleghi quando era in vita. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Il fatto principale che testimonia la vera natura dei rapporti tra il giudice palermitano e l’organo di autogoverno delle toghe risale al gennaio del 1988. Poco dopo il Maxiprocesso, Antonino Caponnetto decise di tornare a Firenze. Falcone era il suo naturale successore alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo, cioè quello che è passato alla storia come il pool antimafia. Il 19 gennaio del 1988, però, alla fine di una lunga discussione, il Csm bocciò clamorosamente la sua candidatura, preferendogli Antonino Meli, magistrato più anziano ma completamente estraneo alle indagini antimafia. “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo”, è il modo con cui Paolo Borsellino ricostruirà quella vicenda, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992.
“Vittima di patologiche trame di potere” – “Questo – ha ricordato oggi Di Matteo – avvenne in ragione non solo di meschini sentimenti di invidia ma, ancor di più, di patologiche trame di potere connesse a fenomeni ancora attuali di collateralismo politico e di evidente degenerazione del sistema correntizio”. L’ex pm di Palermo ha poi fatto riferimento all’attuale momento che sta attraversando la magistratura italiana: “Anche per questo oggi questa istituzione Consiliare deve finalmente reagire, dimostrarsi in grado di sapersi mettere per sempre alle spalle pagine oscure, anche recenti, della sua storia”. Di Matteo ha anche trovato modo di ricordare a Palazzo dei Marescialli come sulla strage di Capaci ci siano ancora indagini in corso. Lo ha fatto ripetendo le due parole chiave del suo intervento: memoria e verità. “La verità – ha detto – è quella che è faticosamente emersa dalla storia dei processi celebratisi a Caltanissetta e a Palermo; quella che ha consentito di individuare i profili di molti dei responsabili mafiosi dell’attentato di Capaci. Ma è proprio da quegli atti processuali, dal lavoro di valorosi colleghi e coraggiosi investigatori, che emerge la necessità di proseguire in quel percorso di verità. Senza cedere alla tentazione dell’oblio, della rimozione, del timore delle conseguenze di quella ricerca”.
“Oggi col nuovo ordinamento Falcone non sarebbe quello che è stato” – Ardita, invece, ha ricordato ai colleghi che Falcone “subì le stesse critiche che oggi si contestano ai magistrati più esposti“. E quindi “se vogliamo indicarlo come esempio ai giovani, dobbiamo ricordare la sua vita come realmente si è svolta e prenderlo ad esempio essenzialmente per il suo coraggio. E poi ancora oggi dobbiamo difendere coloro che agiscono con coraggio, anche andando incontro a rischi, per affermare la verità“. Secondo l’ex procuratore aggiunto di Catania “dovremmo fare in modo che, se rinascesse, Falcone non si ritrovasse in quelle stesse condizioni. Ma ho motivo di temere che oggi, con la gerarchia del nuovo ordinamento, Falcone non potrebbe neppure essere quello che è stato. Questo dobbiamo dire e fare, se vogliamo rimanere distanti dall’ipocrisia di certe commemorazioni ufficiali, alle quali oramai alcuni di noi preferiscono non andare più”.
Gli attacchi dei colleghi – Insomma, per la prima volta nelle stanze dell’organo di autogoverno della magistratura è stato riportato un ricordo fedele delle difficoltà affrontate da Falcone in vita. Difficoltà spesso dovute alla contrapposizione della sua stessa categoria. A cominciare proprio dalla bocciatura a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo nel 1988. Negli anni successivi andò anche peggio. Nel 1990 Falcone si candidò al Csm e dovette subire l’umiliazione di non essere eletto come rappresentante dei suoi stessi colleghi. Nel 1991 entrò effettivamente a Palazzo dei Marescialli, ma da accusato: venne convocato dopo che il Csm aver ricevuto l’esposto in cui Leoluca Orlando lo accusava, praticamente, di aver insabbiato le indagini sui delitti politici degli anni ’80. “Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo. Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo“, disse in quell’occasione il giudice. Una frase diventata famosa. E che recentemente viene ripescata dai politici per attaccare il mondo della magistratura. Solo una delle tante distorsioni della memoria del giudice compiute dopo la sua morte.
Vittima delle correnti – L’apice degli attacchi pubblici a Falcone si registrò invece quando il giudice palermitano andò a lavorare al ministero della giustizia come direttore degli Affari Penali. “A Palermo ho edificato una stanza, una bella stanza. Ma è a Roma che devo andare se voglio costruire un palazzo”, spiegò ai giornalisti Francesco La Licata e Saverio Lodato che nel 1991 gli chiesero i motivi di quella partenza. Il palazzo era la Superprocura, cioè la procura nazionale Antimafia, l’ufficio centrale di coordinamento di tutte le indagini sulla criminalità organizzata ideato da Falcone nel periodo in via Arenula. Il magistrato palermitano era ovviamente il candidato naturale per guidare il nuovo organo inquirente. Ma anche lì le correnti del Csm si attivarono subito per sbarrargli la strada. Non fecero in tempo: prima dell’ennesimo tradimento dei colleghi arrivo il tritolo nascosto sotto l’asfalto di Capaci.

Intercettato col trojan, il pm Sirignano trasferito d’ufficio. Di Matteo: «Avallava Palamara»
Il Mattino, 21 maggio 2020

Scatta il trasferimento d’ufficio, per incompatibilità ambientale, nei confronti del pm della Procura nazionale antimafia Cesare Sirignano, anche lui intercettato dal trojan iniettato nel cellulare di Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm e potente ‘ras’ di Unicost – la corrente moderata della magistratura – finito sotto inchiesta a Perugia e sospeso da stipendio e funzioni per aver tentato di condizionare le nomine nelle procure. A deciderlo è stato il Csm con un voto a larghissima maggioranza, 21 voti favorevoli a fronte dei tre espressi dai togati di Unicost che chiedevano di archiviare il procedimento a carico di Sirignano, che negli scambi con Palamara si informava sul risiko delle procure, in particolare quella di Perugia, per conto di un altro collega, e commentava con l’interlocutore l’estromissione di Nino Di Matteo dalla Procura nazionale retta da Federico Cafiero de Raho.
È l’ennesima ‘vittima’ dello strascico di contatti e conversazioni che Palamara era solito non cancellare dal suo telefonino e che ha trascinato nel gorgo non solo molti consiglieri del Csm, ma anche toghe di prestigio come l’ex Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. Adesso, Sirignano dovrà indicare alla Terza commissione di Palazzo dei Marescialli una rosa di sedi dove vuole andare, come magistrato ‘semplicè, bisognerà vedere quali sono i posti liberi. Per lui, comunque, i guai potrebbero non finire qui perché è pendente un pre-procedimento disciplinare, diverso da quello di tipo ‘amministrativò culminato nel trasferimento. «Sarei un ipocrita se non dicessi che fin dall’inizio ho seguito queste vicende – ha esordito Di Matteo nel suo intervento al plenum di Palazzo dei Marescialli -. Le attività professionali mie e del dott. Sirignano si sono incrociate in Antimafia per quasi due anni, per questo avevo pensato di astenermi e non partecipare al voto». Ma l’ex pm della trattativa Stato-mafia, che in tv ha rivelato che Bonafede lo voleva al Dap ma poi fece marcia indietro dopo le reazioni dei boss, ha detto che su «una questione così importante» non vuole ‘lavarsi le mani’.
Per Di Matteo, «è molto grave» che nella sua autodifesa davanti al Csm, Sirignano abbia ribadito che per le nomine e gli assetti della Dna «se non hai l’appoggio della tua corrente, non hai dove andare» ricordando che «avevamo come dominus Palamara». Dagli atti, ha rilevato Di Matteo, emerge inoltre che «Sirignano non si limitava a subire le scelte di Palamara, ma lo rassicurava affermando in più occasioni che delle sue richieste ne avrebbe parlato con il Procuratore nazionale o con il politico Ferri». Sulla stessa linea anche il togato di Area Giuseppe Cascini che ritiene che le parole «non smentite ed anzi confermate dall’interessato», nell’audizione di ieri, sono «sufficienti a disporne il trasferimento d’ufficio». «Distinguere i colleghi sulla base della appartenenza di corrente è una bestemmia – ha aggiunto Cascini – e non può svolgere attività di coordinamento del lavoro di altri magistrati un soggetto che esprime in questa maniera così esplicita un pregiudizio di appartenenza». Senza successo i togati di Unicost si sono battuti per chiudere, archiviandolo, il procedimento amministrativo facendo anche presente che Cafiero de Raho «ha escluso che il buon funzionamento della Dna sia mai venuto meno e che la sua affidabilità esterna sia mai stata intaccata» dalla vicenda. Molto scoraggiato di fronte al continuo imperversare del correntismo si è detto il consigliere laico leghista Stefano Cavanna: anche lui ha votato per il trasferimento.
All’Associazione Nazionale Magistrati si sono dimessi il presidente, Luca Poniz (Area) e il segretario, Giuliano Caputo (Unicost)

All’ordine del giorno del comitato durato quasi dieci ore c’era la mozione di Magistratura indipendente sull’anticipazione delle elezioni per il rinnovo dei vertici da ottobre a luglio e le modalità del voto telematico. Ma l’assemblea delle toghe che è stata teatro di una polemica tra i gruppi sulla questione delle nuove intercettazioni, apparse nei giorni scorsi sulla stampa, emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia
Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2020

Un comitato direttivo durato dieci ore dopo una giornata tesissima apre la crisi all’interno della Giunta dell’Associazione nazionale magistrati. Al termine della riunione fiume si sono dimessi il presidente, Luca Poniz (Area), e il segretario, Giuliano Caputo (Unicost). All’ordine del giorno c’era la mozione di Magistratura indipendente sull’anticipazione delle elezioni per il rinnovo dei vertici da ottobre a luglio e le modalità del voto telematico. Ma l’assemblea delle toghe è stata teatro di una polemica tra i gruppi sulla questione delle nuove intercettazioni, apparse nei giorni scorsi sulla stampa, emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia, quella che vede come principale protagonista Luca Palamara, ex presidente Anm.
Dalle carte degli inquirenti umbri continuano a emergere manovre di palazzo per piazzare candidati benvoluti, alleanze tra correnti, carriere indirizzate. Uno scandalo – con le correnti che si dividevano le nomine – che l’anno scorso aveva provocato un doppio terremoto all’interno del Consiglio superiore della magistratura e nella Anm stessa. E che aveva portato alla poltrona di presidente Luca Poniz, esponente di Area, la corrente di sinistra delle toghe che appariva la meno esposta. Oggi Area e Unicost, hanno lasciato la giunta e poi è arrivato il passo indietro dei due vertici. Per ora resta in giunta – che rischia quondi lo scioglimento – il gruppo di Autonomia e Indipendenza, che ha un solo rappresentante, Cesare Bonamartini, vicesegretario. La riunione, che ha bocciato la mozione di Mi sull’anticipo delle elezioni, e ha quindi confermato il voto a ottobre, si è riconvocata per lunedì, per individuare una nuova composizione che gestisca il governo dell’Associazione fino alle elezioni.
Oggi Poniz, che era stato eletto presidente proprio dopo il caos generato dall’inchiesta di Perugia con il coinvolgimento di magistrati, aveva tentato di rintuzzare gli strali dicendo: “Non si può pensare che noi siamo rimasti o vogliamo rimanere in sella ed esporci ad attacchi ingiustificati. Tutti sanno che l’emergenza ci ha costretti un lavoro difficilissimo. Se qualcuno pensa che la proroga nella quale ci siamo trovati nostro malgrado serva a una gestione per proteggere una posizione o mantenere l’assetto di rapporti politici, è una cosa che non si può tollerare”. Poniz, in apertura del comitato direttivo centrale, aveva così replicato alle accuse rivolte ai vertici dell’Anm, che sono in regime di prorogatio dato che le elezioni, previste a marzo scorso, sono slittate a causa dell’emergenza sanitaria. A chiedere che il voto si tenga al più presto, a luglio, è stata Magistratura Indipendente, ritenendo l’attuale giunta delegittimata, anche in relazione a quanto emerso dalle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia. “Non vogliamo stare un minuto di più – aveva assicurato Poniz – la richiesta di anticipare il voto l’avrei fatta subito. Io e il gruppo di Area siamo a disposizione riteniamo che questa esperienza non possa proseguire ci mettiamo a disposizione ma evitando che questa situazione sia usata strumentalmente per attaccare l’Anm. Il nostro è solo un gesto di responsabilità per consentire alla giunta di funzionare e andare al voto quanto prima nell’interesse di tutti e consentire all’Associazione di sottrarsi a questi attacchi che nuocciono a chi li fa e naturalmente a tutti noi che lavoriamo con massima serietà e rigore”.
Tra l’altro l’Anm non ha ancora avuto dalla Procura di Perugia gli atti completi dell’inchiesta, chiusa il 20 aprile sul caso di Luca Palamara: “Abbiamo chiesto gli atti il 4 maggio scorso prima che su alcuni giornali venissero pubblicati stralci di conversazioni – ha ricordato Poniz -. Non abbiamo ricevuto risposta per cui giovedì scorso abbiamo nominato un difensore che ha già interloquito con la procura. È l’ennesima richiesta, già rivolta lo scorso anno. All’epoca ci fu risposto che erano atti non ostensibili per ragioni di segretezza. Non è vero che gli atti sono pubblici e consultabili – ha chiarito – noi non siamo un giornale, ma riteniamo di essere un soggetto qualificato per la richiesta. Per questo abbiamo agito con fermezza e convinzione per trarre da quegli atti una conoscenza diretta, non filtrata, non selezionata con lo stesso scrupolo e rigore con cui abbiamo agito in questi anni e che ha caratterizzato il nostro approccio a questo tema”.
Sabato mattina contro l’Associazione nazionale magistrati si era scagliato un ex Guardasigilli in una intervista a Italia Oggi: “È del tutto evidente che l’Associazione nazionale magistrati è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del parlamento, del governo o del ministro della Giustizia ogni due minuti. E un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare. Attenta quotidianamente all’autonomia e all’indipendenza del singolo magistrato, fa mercimonio di nomine, promozione, carriere, elezioni Csm e perfino sentenze. Dove siamo? L’Anm andrebbe sciolta. E una libera associazione, non un organo costituzionale. Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”.

Quando Cossiga umiliò Palamara: “Hai la faccia da tonno. L’Anm è un’associazione mafiosa”
di Davide Di Stefano
Il Primato Nazionale, 24 maggio 2020

Col senno del poi le intuizioni fisiognomiche di Francesco Cossiga assumono un significato probabilmente più profondo. I posteri stanno dando ragione all’ex presidente della Repubblica, soprattutto alla luce dell’abisso senza fine in cui si sta ficcando Luca Palamara. Già al centro dello scandalo relativo al “mercato delle toghe“, in questi giorni la sua figura sembra definitivamente affossata, dopo la pubblicazione delle chat in cui dichiarava: “Salvini ha ragione ma dobbiamo attaccarlo lo stesso”. E così non può che tornare alla mente il “simpatico siparietto” risalente al 2008, in cui il picconatore Cossiga si divertì a prendere letteralmente a pesci in faccia l’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara.
Gli ultimi giorni del governo Prodi
Era il 16 gennaio 2008 e nello studio di Sky Tg 24 era ospite Palamara per commentare le dimissioni rassegnate nella mattina dall’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, in seguito gli arresti domiciliari a cui era stata sottoposta la moglie. Di fatto la fine del governo guidato da Romano Prodi, che una settimana più tardi di dimetterà da presidente del Consiglio. Le parole di Palamara sul ruolo della magistratura e le dimissioni di Mastella non piacciono a Cossiga, tanto che l’ex presidente decide di intervenire a sorpresa in diretta, con un intervento che resterà memorabile (superato solo dal “Mario Draghi un vile affarista” che causò un mezzo infarto al povero Luca Giurato).
Palamara “faccia da tonno”
“A questo tuo dibattito partecipa un magistrato che o non capisce nulla di diritto o è molto spiritoso, la faccia da intelligente non ce l’ha assolutamente”, esordisce così in surplace Cossiga. Palamara si limita ad un “grazie, la ringrazio”, per poi rimanere nei successivi minuti in silenzio ad incassare le bordate del picconatore. “Io vengo da una famiglia di magistrati che si vergognerebbero di ascoltare quello che ha detto questo, che si chiama… Palamara. Come il tonno“. L’imbarazzata conduttrice prova allora a riportare la discussione dall’insulto solo apparentemente “gratuito” e chiede a Cossiga: “Qual è la motivazione del suo giudizio così severo?”. Ma l’ex presidente non si scompone e continua a menare fendenti puntando soprattutto sulla fisiognomica: “Dalla faccia, io ho fatto politica cinquant’anni e vuole che non riconosca uno dalla faccia?”.
L’Anm un’associazione mafiosa
L’x capo dell’Anm è colto di sorpresa e prova ad abbozzare un “mi sembra offensivo”. Ma Cossiga rilancia: “Sì sì è offensivo e mi quereli, mi diverte se mi querela e perché non mi querela? I nomi esprimono la realtà, lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l’ottimo tonno. La battaglia contro la magistratura è stata perduta quando abbiamo abrogato le immunità parlamentari che esistono in tutto il mondo e quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato i pantaloni sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione nazionale magistrati”. Palamara strabuzza gli occhi e cerca un sostegno nella conduttrice: “No ma intervenga lei perché mi sembra un po’ troppo”. Ma niente, Cossiga prosegue dritto: “Io con uno che ha quella faccia non parlo, con uno che ha detto quella serie di cazzate non parlo, mi spiego? Tu sei una donna di gran gusto, non invitare magistrati con questa espressione alle tue trasmissioni per carità”.

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