Il bordello della magistratura, ma non cambierà mai. A febbraio Gratteri lo denunciò: ci sono 400-450 toghe corrotte

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“Magistratopoli si allarga a macchia d’olio e coinvolge i giornalisti al soldo dei servizi segreti”. Ieri, 22 maggio 2020 ho riportato l’editoriale di Piero Sansonetti, in cui il direttore del quotidiano Il Riformista allude a “grandi firme” del giornalismo giudiziario e azzarda che “giornalistopoli” forse è peggio di “magistratopoli”. Insieme, spiega, giornalisti e magistrati “sono la vera casta”. Sono giornalisti di Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica e svariate altri giornali che parlavano con il procuratore aggiunto di Roma Luca Palamara, il magistrato più intercettato e sputtanato d’Italia.

Oggi propongo due articoli su Libero del 21 e 22 maggio 2020 di Renato Farina sulla magistratura corrotta, che ricorda che il 9 febbraio 2020 (nel programma Mezz’Ora in più su Rai Tre condotto da Lucia Annunziata, quando il Procuratore della Repubblica Nicola Gratteri – foto di copertina – ha parlato, ancora una volta, dell’operazione Rinascita Scott, della mancata nomina a Ministro della Giustizia e di alcuni interessanti retroscena che riguardano il suo operato – il video QUI) il procuratore anti ‘ndrangheta parlò di un 7% di mele marce nella magistratura, ciò circa 400-450 magistrati corrotti. Nessuno dei giornalisti a doppia spunta blu commentò la cosa. Solo nei giorni scorsi ci sono stati arresti e inchieste.

La disfida di Gratteri – punto di riferimento della Calabria onesta e silente, che esiste – riuscirà ad essere vinta? – 10 febbraio 2020

Tra corruzione e favoritismi la figuraccia della magistratura
Grazie alle intercettazioni sono emerse le storture del sistema giustizia. Però le toghe non si riformeranno e noi ci terremo processi lenti e basati sul carcere preventivo
di Renato Farina
Libero, 21 maggio 2020

Magistratopoli? Non esageriamo. La parola oltretutto fa schifo, ci ha stufato. Però, senza bisogno di esibire la citazione completa di Emilio Fede, viene proprio naturale constatarlo: che figura di… Nonostante tutto però nessuno incide la corazza della sua onnipotenza. Se mai dovesse verificarsi nell’ordine giudiziario un ribaltamento come quello che ha fatto passare la politica dalla Prima alla Seconda Repubblica, anche lì l’autore sarà lo stesso: le toghe, stavolta però nei panni dei sicari di sé stesse.
Cominciamo dalla cronaca di ieri per constatare che la magistratura – intendiamo quella militante e caporiona – ha lasciato al suo posto il povero fantaccino, il guardasigilli Alfonso Bonafede. Costui aveva due mozioni contro, ma l’arci-mozione, la super-mozione invisibile ma pesante come le tavole del Sinai l’aveva piazzata da giorni l’unico potere vero e sovra politico che ci sia da noi. Cioè quella specie di Gigante di Rodi che nella variante italica indossa la toga. Ecco, qui il discorso si fa interessante. Il complemento di luogo è la novità. Finora è stato insieme banale e inutile denunciare che il piedone del gigante in toga sia uso calpestare campi che la Costituzione gli precluderebbe. Dirlo è ormai un vezzo, che non scalfisce il tran tran. Invece è sempre stato vietato alludere anche con delicatezza alla cancrena inesorabile del potere che corrompe l’umana specie e dunque anche l’etnia tribunalizia. Ancora un paio di mesi fa, se accennavi anche solo a questa possibilità di malattia organica dell’ordine giudiziario, qualcosa di non bello ti capitava, e non solo nel senso di un’opinione avversa. Come dice Travaglio contro chi dissente dal pensiero forcaiolo: paura eh? Paura sì.
Gigante di Rodi
Ma c’è un fatto nuovo, la magistratura infilando il Trojan nelle cavità di uno dei suoi più eminenti capoccia, si è strappata la gonna, e ha mostrato gambe pelose. E qui diventa utile ricordare la storia del Gigante di Rodi: aveva i piedi di argilla. E chi ha in mano il martello che ha già spiaccicato la classe politica, e che si chiama intercettazioni a strascico, è il Gigante che se lo sta dando sui piedi. Per ora l’arto estremo si è solo scheggiato. Ma qualche altro colpo suicida, e magari parte un’altra epoca della giustizia in Italia.
In questi mesi, settimane, giorni con un crescendo in cui più che Rossini c’entrano le osterie, le intercettazioni che le toghe si sono fatte tra loro, hanno svelato un mondo che la plebe assocerebbe alla parola bordello. In chi ci ha messo il naso hanno suscitato lo stesso stupore che le lascivie della Monaca di Monza provocarono tra le orsoline. Nessun crimine, nel nostro caso, a occhio e croce. Ma gli sbudellamenti tipici delle guerre intestine. Del resto sono accadimenti caratteristici di ogni tribù e di qualsiasi clero. Nel caso specifico, si è capito come non sia tanto strano se alcune denunce finiscono nei cassetti e altre in bella vista per il comodo dello sputtanamento a mezzo stampa. Cosa non si fa per la carriera mia e dell’amico.
Rotto l’incantesimo
Queste costumanze da casba algerina sono state discretamente tenute a volume bassissimo. Non sono faccende che ispirano fiducia nel popolo. Il quale beveva come oro colato l’idea della immacolata imparzialità dei magistrati anche nella selezione dei migliori. Ieri noi abbiamo rotto l’incantesimo. Il re ha lo stomaco con un pelo lungo un palmo. E nessuno lo può più negare. Il fatto è che una volta gli scotennamenti e gli smutandamenti di pm del Sud contro quelli del Nord, di giudici della corrente di sinistra contro i compari della fazione di destra, erano coperti da una omertà fenomenale. Chi aveva provato a ribellarsi all’andazzo e a svelare gli intrighi della casta ermellinata per occupare i posti più ambiti, era stato subito liquidato e incriminato con ipotesi di reato fantasiose (ad esempio il pm Francesco Misiani, che provò negli anni 90 ad alzare il velo sulle “toghe rosse” essendo una di loro).
Lo spettacolino imbastito ieri al Senato, con la pantomima dei giorni precedenti, voleva trasferire la biancheria sporca e piuttosto insanguinata della guerra tra toghe nel solito stanzino della politica, riducendola a una zuffa tra partiti. Calcolo sbagliato. Noi non ci caschiamo. Ehi, oggi l’unica vera guerra in corso è nei viluppi intestinali della Gigantessa (correggiamo qui il genere al femminile per rispetto della magistratura). Non è solo questione delle indagini e degli arresti che Filippo Facci ha raccontato ieri riguardanti i vertici di due Procure della Repubblica pugliesi. Quello è il bubbone-reato.
Il nuovo giochino
Ma il vero gran teatro è la vita quotidiana dei magistrati, quelli che contano e dirigono la carriera dei colleghi, offerta come oggetto dello stesso voyeurismo finora indotto nei confronti dei politici. Non è un bel vedere, e ne vedremo ancora. Ma nella magistratura questo scoperchiarsi di vasi infetti non ha prodotto alcun moto di autoriforma. Da quando Bonafede ha dotato i pm del nuovo meraviglioso giocattolo, il Trojan, che registra qualunque sospiro anche del passante che ti chiede l’accendino, non si tengono più. È bastato il Trojan infilato nell’intimità di un solo pm di grosso tonnellaggio per aprire una gigantesca scatola di tonno Palamara.
Un editorialista bravo qui citerebbe la ybris da Eschilo a Euripide, a noi pare più consono alla statura dei personaggi quali risultano dalle intercettazioni citare un rozzo proverbio popolare: chi è causa del suo mal pianga sé stesso.
Il problema è che i magistrati non hanno nessuna intenzione di piangere su sé stessi, ma nonostante tutto di far piangere ancora noi, con una giustizia che in nessun modo intende rinunciare alle sue prerogative di lentezza e di galera preventiva. E così i magistrati, grazie alla manina dei giallo-rossi hanno salvato il loro ministro pupillo, pur avendogli fatto prendere un pedagogico spavento. In fondo va bene a tutti l’Alfonso, somiglia tanto allo Spumarino Pallido dei racconti di Guareschi.

Nicola Gratteri.

Le toghe corrotte non si contano più. Sentirebbe una Mani Pulite dei tribunali
A febbraio il Procuratore della Repubblica Gratteri parlò di un 7% di mele marce
Nessuno commentò la cosa. Solo nei giorni scorsi ci sono stati arresti e inchieste
di Renato Farina
Libero, 22 maggio 2020

Forza, cari fratelli magistrati d’Italia, rivoltate un po’ anche il vostro calzino. Ci sembrate un pochino timidi nel prendere sul serio un sano desiderio di autoriforma. Come avete già lavato e rilavato da circa tre decenni i calzini degli altri, specie dei politici e degli imprenditori, al punto che spesso la calza l’avete bucata causa l’uso dello stivaletto cinese, ora magari dirigetevi con la consueta moderazione e sobrietà a dare una spazzolatina anche ai pedalini vostri. Non è un appello ironico. Abbiamo bisogno di veder documentato da fatti e risultati che l’articolo 3 della Costituzione, che predica uguaglianza, vale anche all’interno dell’ordine giudiziario, il quale non è affatto al di sopra di ogni sospetto. Fate presto, l’allarme sociale ormai riguarda anche la affidabilità non più soltanto dei poteri legislativo ed esecutivo (i quali sono sottoposti comunque al vaglio elettorale) ma anche di quello relativo alla Giustizia, che non è sottoposto ad alcun giudizio tranne quello dei suoi associati.
Il solo modo di rimediare alle brutte figure che i vostri leader – dirigenti sindacali o membri del Csm o distaccati nei ministeri – hanno fatto rivelando grazie ad un Trojan (uno solo, e guarda che casino) di che maneggi grondi il vostro mondo, è fare bene e imparzialmente il vostro dovere di controllo della legalità, controllando i peli sullo stomaco che le toghe rese trasparenti dalle intercettazioni hanno rivelato.
Fonte autorevole
Non è che questa idea l’abbiamo pescata nel vaso della lotteria parrocchiale. Si tratta di trasformare in ipotesi investigativa la denuncia fatta da uno tra i procuratori più eminenti e coraggiosi, Nicola Gratteri, che dirige l’ufficio inquirente di Catanzaro. Non è fresca questa requisitoria pubblica: fu pronunciata il 9 febbraio, su Rai 3, da Lucia Annunziata. Il procuratore anti-‘ndrangheta per eccellenza non fu generico. Diede i numeri: «In magistratura c’è un problema di corruzione. Possiamo parlare del 6-7%, non di più. Grave, terribile, inimmaginabile, impensabile, anche perché guadagniamo bene. Io guadagno 7.200 euro al mese, si vive bene, quindi non c’è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame. Si tratta di ingordigia». Subito dopo, Gratteri e le sue parole sparirono dai mass media, nessun magistrato corse in tivù o organizzò conferenze stampe per annunciare: rivolteremo le toghe come calzini. Allora parve non una notizia generale di reato, ma un’intemerata, una esagerazione, e fu imbalsamata subito. A differenza della gara di emulazione che di solito si scatena tra le varie procure quando si apre un filone ad alto tasso di visibilità mediatica, stavolta zero. Eppure non erano fanfaluche campate in aria. Poche settimane prima, era stato aperto un fascicolo per corruzione in atti giudiziari, con aggravanti mafiose, riguardante un giudice della Corte di appello del medesimo Tribunale calabrese. Era una pratica isolata? Nessun fermento sotto le toghe.
Calabria e Puglia
Restammo delusi, ma anche silenti: non bisogna schiacciare la coda dell’ermellino. Vista però l’autorevolezza della fonte non ci era parsa una illazione, e ce l’annotammo. In questi ultimi giorni, dopo l’arresto e l’apertura di fascicoli per read corruttivi riguardanti i vertici delle Procure in due sedi giudiziarie pugliesi, Taranto e Trani, quell’allarme d sembra addirittura una notizia data in anticipo. Coraggio, signori della Corte e delle Procure, esplorate nelle cantine dei Palazzi di giustizia. Gratteri non è un igienista maniaco, se parla sa, e se invece ritenete stia diffamando una istituzione dello Stato, indagatelo.
Bestia rara
Ci rendiamo conto che il Procuratore calabrese è una bestia rara. Non si era mai vista una toga famosa che individuasse il marcio entro gli orli della propria divisa. Nella storia d’Italia degli ultimi trent’anni è stata la politica il campo privilegiato di rastrellamento delle patate marce (quasi tutte). Non rifacciamo qui la storia di Mani pulite. Ci piace ricordare che l’ordine giudiziario comunicò allora il suo intendimento di farsi avanguardia del popolo per realizzare la “rivoluzione italiana” (definizione del procuratore generale di Milano, Giulio Catelani). Uno tra i più brillanti pm utilizzò proprio l’espressione per cui si trattava di “rivoltare l’Italia come un calzino”. Vorremmo la stessa determinazione nel bonificare la palude della giustizia, senza bisogno di intercettazioni sputtananti e suicidi in carcere.
Non devono farla franca i giudici corrotti
Se Gratteri ha ragione si tratta del 6-7 per cento del totale. Si tratta di 400-450 delinquenti impuniti che fanno mercimonio del bene più delicato e sacro che esiste: la libertà dei cittadini.

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