L’anima vivida, abborracciona e sudicia del pattume che si nasconde dietro la maschera da quaraquaquà

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La parola del giorno è il sostantivo maschile “pattume” (belletta, brago, fanghiglia, fango, limo, loto, melletta, melma, mota, paciugo, palta, piaccichiccio), derivato di “patto” (col suffisso “-ume”), che è dal latino “pactus” (unito, congiunto, compatto), propriamente participio passato di “pangere” (conficcare, congiungere).

Il lemma pattume indica:
1. Immondizia, immondezza, immondizia, mondezza (romanesco), rifiuti, spazzatura (roba sudicia e inutile che si raccoglie spazzando, o che si ammassa per terra).
“Le comari filavano al sole e le galline razzolavano nel pattume, dinanzi agli usci” (Verga).
“Per terra è un pattume di calce dispersa, di gusci di fagiuoli, di penne di gallina” (De Marchi).
2. Per estensione: melma, fango o fanghiglia (terra ridotta dall’acqua a una poltiglia più o meno densa).
“Quando piove, c’è un pattume per queste strade che ci s’affonda!; un monte Di ghiaia immenso e di pattume intorno Gli verserò” (V. Monti).
3. In senso figurativo e spregiativo:
a. abbrutimento, abiezione, immoralità, infamia, turpitudine, corruzione (stato di degradazione o di bassezza morale);
“L’odio ha fornicato con la cupidigia nel pattume della licenza” (Carducci).
b. gentaglia, insieme di persone spregevoli;
“Mi deve promettere che (…) mi sgombra la casa di questa marmaglia e butta fuori tutto questo pattume” (Bacchelli).
c. opera volgare e mediocre.

Questa simpatica parola ci parla naturalmente di rifiuti, ma per afferrare bene il carattere che ha si deve collocare nella sua famiglia. Infatti, anche se sembra più composto e sordo rispetto all’immondizia e alla spazzatura, il pattume ha un’anima molto più vivida, abborraccina [*] e sudicia.

Se in un documento in italiano antico leggiamo la parola “patto”, forse non ci sta parlando di accordi e patteggiamenti. Infatti il patto era anche il lettime, la lettiera di strame degli animali da stalla. Dopotutto il “pactus” latino significava “unito, congiunto, compatto” e questo concetto si può impiegare in molti versi, dall’intesa che si stringe alla lettiera che si ammucchia e compatta a terra.

Non serve un ingegno poetico alato per capire come questo particolare patto di stalla sia diventato il materiale di rifiuto, specie infradiciato, nel pattume trecentesco.

L’immondizia ha qualcosa di schifiltoso: se non fosse un termine così comune da avercene fatto perdere il senso proprio, accostare il termine “immondo” al pattume sarebbe almeno lezioso. La spazzatura dissimula reticente, e copre ben altra consistenza dichiarando solo il dignitoso e secco risultato di una spazzata. A loro cospetto, il pattume ci dà invece il senso della pesantezza corposa. Di quei rifiuti che abbiamo pigiato o che si sono accumulati nel suo luogo, la pattumiera.

Poi di significati estesi ne ha avuti, alcuni dei quali ancora usatissimi: se non diciamo più pattume per indicare fanghi e melme, lo usiamo figuratamente per indicare chi o ciò che è corrotto, immorale: pattume la gentaglia che lucra su una disgrazia, pattume la decisione pubblica occultamente ricompensata.

E non solo: anche ciò che è mediocre e fa schifo lo volgiamo in pattume: ci liberiamo con regali strategici del pattume di romanzacci che ci si era accumulato in libreria, e si fruga nel pattume di film, di serie televisive e di articoli sui giornali in cerca di qualche perla abborracciona [*].

Fonti: Unaparolaalgiorno.it, Treccani.it

I capi scelgono sempre i servi e non i più bravi, perché i più bravi sono spesso anche rompicoglioni, perché usano il cervello
di Nicola Costanzo

C’è un motivo perché in natura non esistono uomini eguali.
Durante la nostra crescita, vi è una evoluzione che determina in quale fascia andremo a posizionarci. C’è chi sceglie il comando e chi preferisce assoggettarsi ad esso ed infine c’è chi, lo contrasta con tutte le proprie forze.
“Sissignore”, ecco questa rappresenta la risposta affermativa più comune, che viene rivolta durante la giornata ai propri superiori. Si usa in particolare nell’ambito militare, ma trova un’uso quotidiano anche come rafforzativo di un’affermazione, sostituendo quel “signore” con “dottore”, “professore”, “ingegnere”, ecc. L’importante è che si mostri quel rapporto di giusta subalternità, quella condizione gerarchica che metta sin da subito in evidenza chi comanda e chi non possiede quell’autorità, data dal proprio grado e/o dalla propria posizione.
Alcuni soggetti sono più di altri portati a comandare, come d’altronde altri, sono ben predisposti a comportamenti servili, il più delle volte per ottenere per se qualche vantaggio, come ad esempio in questi ultimi anni, per riuscire a fare carriera.
Sono più uomini che donne (si, quest’ultime difatti, utilizzano quando necessario, tecniche più seduttrici per ottenere i propri scopi) e sono soggetti talmente meschini moralmente, che predispongono se stessi all’adulazione ed alle lusinghe nei confronti dei propri superiori.
Mi sono abituato negli anni a riconoscerli, anche se a volte si camuffano bene, ma riesco lo stesso a comprendere quello spettacolo di “piaggeria”. Ormai non mi sorprendo più, riconosco in essi, quella vigliaccheria, quel biasimo, che fanno con i gesti, la loro essenza di vita. Osservare quanto avviene dovrebbe farmi male, ma ormai ho da tempo superato la disonestà ed i comportamenti sleali degli altri.
È passato il tempo dei compagni di scuola o di quella scorretta impostura di certi colleghi, l’inganno di cui hanno fatto uso cosi a lungo (aggiungerei simulato piuttosto bene), quella posizione intransigente per meglio dissimulare la propria slealtà, una vita “finta” espressa con la menzogna.
Come definirli questi uomini. Sciascia ne il “Giorno della civetta” fa pronunciare a Don Mariano la frase contenente quell’espressione idiomatica di “quaquaraquà“ [**]. Sì, perché vi è in loro tutta la fragilità di questo tipo di uomini, i quali, sottoposti a varie prove, dimostrano d’esser principalmente degli sciocchi o ancor più dei veri e propri “devoti”. In ognuno di loro non esiste alcun desiderio di volersi distinguere, di dimostrare di poterci essere, ma ciò che manifestano con quelle loro azioni è un diffuso disprezzo generale per l’essere considerati mediocri.
Ciò che infatti traspare di ridicolo in questi soggetti è che essi, sono veri e propri esseri insignificanti, nel senso etimologico della parola, vale a dire incapaci di dare significato a quella loro esistenza. Non fanno altro che imbrogliare continuamente se stessi agli occhi degli altri e dimostrano con i fatti, d’essere inadatti ad organizzare, non solo la propria vita, ma anche quella di chi sta loro vicino. Sono sempre in continua ricerca di competizione con quanti più bravi o certamente più meritevoli e consumati da quella ricercata carriera, costruiscono sul lavoro, una immagine di se, pienamente rappresentante di un “bluff”. Con quei loro modi falsi di lusingare tutti, astenendosi quantunque in ogni circostanza, da ogni sorta di diatriba e/o opinione personale, allontanano da se, ogni possibile critica.
Una vita intessuta di egoismo, dove si da l’impressione di dedicarsi agli altri, ma che da egoisti, dimostrano di pensare soltanto a se stessi. Un autentico egocentrismo, che trova le proprie radici in quell’assiduo desiderio di potere e di denaro, da destinare non a se stessi, ma alla propria famiglia; quanto sopra, serve a ricercare attraverso i propri cari, quella considerazione personale, che si sa di non possedere al di fuori di quell’ambiente o nei giudizi dati da altri. Essi vivono infatti per quell’unico interesse, dopo di che è come se non ci fossero.
Se alcuni tra noi difatti, potessero sostituirsi fisicamente ad essi, a quelle loro inutili esistenze, sono certo che, sin dalla prima azione manifestata attraverso quei corpi, si comprenderebbe come non valga affatto la pena di viverla quella loro vita, anzi, avremmo la preferibile sensazione di non volerla vivere. Perché evitare è come non vivere ed una vita senza alcun rischio, che vita è?
Già, ci si dimentica il più delle volte che ogni falsità è come una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po’ di attenzione, a distinguerla dal volto.

[*] Dal cialtronaggine di una scagnozza abborracciona ciabattona strafalciona “c’è da aspettarsi di vedere sciupato anco il bene ch’altri incominciava di fare” – 3 maggio 2020

[**] Da «‘a schifezza ra schifezza ra schiefezza ra schifezza ‘e l’uommene» a «o’pernacchio»

Sono arrivato alla conclusione che alla magistrale divisione dell’umanità in cinque categorie, fatta da Leonardo Sciascia in “Il giorno della civetta”, ne va aggiunta una sesta. E mi spiego.
1. Gli uomini (che sono pochissimi)
2. I mezz’uomini (che sono pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… e invece no, scende ancora più in giù)
3. Gli ominicchi (che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi, e ancora di più quello che seguono più in giù ancora)
4. I (con rispetto parlando) pigliainculo (che vanno diventando un esercito), per parlare chiaro, uomini sprecati
5. I quaquaraquà (che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre)
A questa lista di Leonardo Sciascia va aggiunta la categoria dei “pezzo di mezza cacca”, nella definizione di Edoardo De Filippo:
6. ‘A schifezza ra schifezza ra schiefezza ra schifezza ‘e l’uommene (per cui non perdere tempo con delle parola ma colo con il classico suono fragoroso napoletanissimo del pernacchio, nobile strumento di offesa, derisorio e di dileggio, quindi non una pernacchia che è volgare, per non scendere al loro stesso livello di infime bassezza; qui le regole della #disputagentile non valgono perché non c’è disputa che tenga #sapevatelo)

O’ pernacchio non è una pernacchia

“Figlio mio, c’è pernacchio e pernacchio… Anzi, vi posso dire che il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale, corrente… quello si chiama pernacchia. Sì, ma è una cosa volgare… brutta! Il pernacchio classico è un’arte. […] Il pernacchio può essere di due specie: di testa e di petto. Nel caso nostro, li dobbiamo fondere: deve essere di testa e di petto, cioè di cervello e passione. Insomma, ‘o pernacchio che facciamo a questo signore deve significare: tu sì ‘a schifezza ra schifezza ra schiefezza ra schifezza ‘e l’uommene! Mi spiego?” (Eduardo De Filippo nei panni di Don Ersilio Miccio nel film “L’oro di Napoli”, il film del 1954 diretto da Vittorio De Sica, in cinque episodi (originalmente sei) che rievocano il pittoresco mondo dei “bassi” napoletani.
Don Ersilio Miccio vende saggezza. Per pochi spiccioli dà consigli risolutivi a fidanzati gelosi, militari innamorati e parrocchiani in cerca di una frase a effetto. Tra i tanti casi che gli vengono posti, uno è particolarmente rilevante, in quanto riguarda una problematica comune a tutti gli abitanti dei bassi della zona: un ricco e spocchioso nobile del luogo, il Duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari, pretende di passare con la sua automobile di rappresentanza (forse non ha tutti i torti…) per i vicoli del quartiere occupati dalle masserizie, dalle sedie, dalle poltrone, dai fornelli degli abitanti dei bassi. Lo fa in malo modo, non tenendo in alcun conto che per gli abitanti dei bassi l’utilizzo del suolo pubblico è una necessità. Urge intervenire e Don Miccio propone la soluzione: bisogna colpirlo con qualcosa che è peggiore della morte: il pernacchio. Fa qui un distinguo tra pernacchia e pernacchio: il vero strumento di offesa è il secondo, il pernacchio; la prima, la pernacchia, è una forma decadente e di scarsa qualità, un parente povero del grande pernacchio.
Un suono fragoroso napoletanissimo, derisorio e di dileggio, ironico e volgare, che si esegue emettendo un forte soffio d’aria tra le labbra serrate, talvolta con la lingua protratta all’infuori tra le labbra serrate, più spesso premendo con il dorso della mano sulla bocca. Il suono che ne viene fuori è simile a quello di una flatulenza., chiamato “pernacchia” (derisorio volgare) e “pernacchio” (derisorio ironico), termini che vengono spesso confusi. “La pernacchia involgarisce chi la fa, e non chi la riceve” (Alberto Sordi nel ruolo di Otello Celletti, nel film “Il vigile” del 1960 con regia di Luigi Zampa), mentre ‘o pernacchio classico è un’arte.
Il suono – un trillo linguolabiale – non è dotato di significato proprio al fine della comunicazione verbale, ma è molto diffuso tra le culture umane così come tra gli altri primati. Ha origini molto antiche. Sembra risalire alle Guerre Sannitiche, quando i sanniti sconfissero i romani presso le Forche Caudine, costringendoli poi a passare sotto il giogo delle lance. La leggenda narra che in questa occasione i sanniti inventarono il pernacchio, coprendo la bocca con le due mani posizionate a forma d’imbuto e usando il suono contro gli sconsolati vinti. Altri invece lo fanno risalire al periodo del dominio spagnolo, quando i popolani lo usavano per “salutare” l’arrivo degli esattori delle tasse.

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