Cosa accadrà da lunedì 18 maggio con il Protocollo CEI-Governo in riferimento alla Santa Messa “cum populo”?

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Da lunedì 18 maggio sarà nuovamente possibile – con permesso del Governo – celebrare la Santa Messa con la partecipazione del popolo, ovviamente applicando RIGOROSAMENTE le regole del “distanziamento sociale” della Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Per questo le parrocchie si stanno preparando con sedie già a distanza di sicurezza, adesivi sui banchi per indicare dove ci si può sedere, cartelli che ricordano che anche durante le celebrazioni bisognerà usare la mascherina, ecc. ecc.

Segue sull’argomento la riflessione dettagliata dell’Avvocato Francesco Patruno sul Protocollo tra il Governo e la Conferenza Episcopale Italiana in materia di celebrazioni liturgiche alla presenza di fedeli, pubblicata questa mattina da Marco Tosatti su Stilum Curiae. Nella sua nota, Patruno sottolinea che in realtà le Autorità civili non avrebbero nessun potere di controllo o sanzione su ciò che accade in Chiesa.

Brevi riflessioni circa il Protocollo tra CEI e governo italiano e circa la distribuzione della comunione
di Francesco Patruno
Stilum Curiae, 15 maggio 2020

La CEI, all’inizio di questo mese di maggio, sottoponeva al Governo italiano una bozza di misure da essa predisposte allo scopo di riprendere le celebrazioni liturgiche con la partecipazione del popolo.

Il Comitato tecnico-scientifico, nella sua seduta del 6 maggio scorso, esaminava le misure predisposte e le approvava. Il giorno 7 successivo vi era la firma di un Protocollo tra la CEI, nella persona del Presidente, card. Gualtiero Bassetti, ed il Governo, nelle persone del Presidente del Consiglio dei ministri, prof. Avv. Giuseppe Conte, e del Ministro dell’Interno, dott.ssa Luciana Lamorgese.

In primo luogo, ci sia permesso inquadrare questo Protocollo.

In base ad un sommario esame, sembrerebbe che quest’atto rientri nell’ambito delle c.d. intese di secondo livello, previste dall’art. 13, comma 2, dell’Accordo di Villa Madama, a norma di cui: «Ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana». Questa disposizione disegna e delimita il quadro di riferimento del principio di indipendenza degli ordini (dello Stato e della Chiesa) ed al contempo del vincolo di collaborazione nelle relazioni tra queste due entità. Insomma, l’art. 13, comma 2, dell’Accordo madamense, estende l’ambito pattizio ad ogni materia su cui entrambe le autorità possano avere degli interessi potenzialmente confliggenti, prevedendo che queste divergenze siano superate con la collaborazione reciproca e siano regolate con nuovi accordi tra Italia e Santa Sede e/o con intese tra Governo e CEI, a seconda della tematica della contesa.

Senza entrare nell’annoso problema dottrinale se queste intese, c.d. di secondo livello, godano della copertura di cui all’art. 7 Cost. ovvero di quella del successivo art. 8, a mio sommesso avviso, sembra, nondimeno, che il Protocollo non appaia inquadrabile in questa tipologia di atti, giacché non ci risulta che esso sia stato poi trasfuso in un provvedimento statale (solitamente un d.p.r.) affinché potesse assumere valore vincolante in ambito statuale, ma sia stato solo comunicato alla CEI, da parte del Ministero dell’Interno, Dip. per le libertà civili e l’immigrazione, con una semplice nota di accompagnamento.

Sembra, dunque, plausibile pensare che si tratti di una fonte anomala, comunque interna alla Chiesa, a cui lo Stato – con la firma del Governo – ha prestato un mero placet, non esistendo, ad oggi, neppure un fondamento normativo al riguardo, sebbene l’emendamento Ceccanti al d.l. n. 19/2020, approvato dalla Camera lo scorso 6 maggio, potrà fornire – quando sarà approvato da entrambe le Camera il d.d.l. di conversione – un supporto normativo a questa tipologia di atti (l’emendamento concerneva l’inserimento di una lettera h bis all’art. 1, comma 2, del d.l., con la previsione dell’«adozione di protocolli, adottati di intesa con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, per la definizione delle misure necessarie per consentire lo svolgimento delle funzioni religiose»).

Tale anomalia circa la natura dell’atto si ripercuote anche sulle conseguenze giuridiche in ambito statale, poiché – non essendo stato trasfuso in una normativa (anche solo di rango amministrativo) dello Stato – nessun organo statuale (ad es., gli organi di Polizia) potrà essere chiamato a sanzionare (come avvenuto per alcune celebrazioni liturgiche durante il periodo di lock-down) eventuali sue violazioni da parte di fedeli o dei celebranti. D’altronde a differenza del parere reso dal Ministero dell’Interno in occasione della Pasqua (prot. 3617 del 27.3.2020), che fu immediatamente trasmesso dal dicastero statale alle Prefetture, il Protocollo attuale non ci consta sia stato trasmesso alle stesse, sebbene sia reperibile sul sito del Governo.

E quindi chi risponderà per eventuali violazioni del Protocollo? Ed a quali sanzioni andrà incontro?

Si tratta di quesiti di difficile risposta. Senz’altro ci sembra che non possano ascriversi particolari responsabilità – di là di quella generale che ricade su ogni cittadino in questo periodo, che impone il distanziamento sociale e l’uso di dispositivi di sicurezza – sui fedeli. Ed a ben vedere anche per lo stesso legale rappresentante dell’ente sembra escludersi la possibilità di sanzioni – dal punto di vista statale e, direi, pure canonico – per eventuali violazioni, salvo che le condotte non siano sussumibili in violazioni di leggi e prescrizioni statali in questo periodo.

Del resto, dal tenore del Protocollo, emerge come lo stesso non contenga, a ben vedere, vere e proprie norme vincolanti tranne alcune (ad es., i punti 1.1, 1.2, 1.5, 3.2, 3.3, 3.10, 4.2), mentre la maggior parte di queste hanno indubbio carattere esortativo, quasi a livello di raccomandazione, di suggerimento per una celebrazione eucaristica “in sicurezza”.

Alcuni interrogativi sembrano porsi in proposito.

Se cioè il Protocollo sia applicabile solo alle celebrazioni delle messe in rito ordinario e, non, per es., in altri diversi (ad es., a quelle nella forma extraordinaria o in rito greco-cattolico o altro rito). Al riguardo, può affermarsi che il Protocollo non sia limitato alle celebrazioni delle messe solo in rito ordinario, ma si estenda a tutti i riti cattolici – compreso il vetus ordo – in Italia e che appartengono alla Chiesa cattolica. Né il riferimento, nel punto 3.3 allo scambio della pace, che deve continuare ad essere omesso, può indurre – in base ad una lettura superficiale – a ritenere che i riti che non comprendono questo gesto siano da escludersi dal campo di applicazione del Protocollo, e questo perché il Protocollo non contiene alcuna limitazione in ordine ai riti, essendo un atto generale, senza specificazioni di sorta, che concerne «la ripresa delle celebrazioni con il popolo» in qualsiasi rito e, dunque, anche le celebrazioni in rito greco-cattolico o nella forma straordinaria del rito romano o in altro rito ancora.

D’altronde, se si affermasse che il Protocollo non riguardasse pure le celebrazioni in altri riti, si dovrebbe concludere: o che queste celebrazioni non possano riprendere con il popolo a partire dal 18 maggio (e questo perché – se si afferma che le celebrazioni siano solo quelle nel rito romano ordinario – le altre sarebbero da escludersi anche dopo il 18, che, perciò, continuerebbero ad essere sine populo) o che, peggio, queste non debbano svolgersi “in sicurezza” e senza regole sanitarie per i fedeli.

Per cui, la chiave di lettura, come proposta da fedeli sensibili alla tradizione della Chiesa, secondo cui il Protocollo non si applicherebbe anche alle celebrazioni in quei riti, pare francamente poco convincente ed anzi controproducente per quei medesimi fedeli.

Le indicazioni del Protocollo, ovviamente, dovranno poi adattarsi al proprium dei riti celebrati dalle categorie dei fedeli. Su questo ben potranno intervenire i singoli Vescovi o i superiori di comunità. Ad es., l’Eparca cattolico di Lungro, mons. Oliverio, ha dettato il 13 maggio delle disposizioni, richiamando il Protocollo, nelle quali stabiliva nondimeno: «Per quanto riguarda la celebrazione delle varie ufficiature si continueranno a svolgere nel rispetto della nostra consolidata e santa tradizione liturgica, con le dovute attenzioni e precauzioni ma senza cambiamenti non autorizzati dall’Ordinario Diocesano». Supponiamo, quindi, che la distribuzione della Comunione continuerà ad avvenire con il cucchiaino in uso presso le Chiese bizantine chiamato lavida.

Altro interrogativo è se le diocesi o le singole conferenze episcopali regionali possano adottare ulteriori prescrizioni rispetto a quelle indicate dal Protocollo. Ciò è senz’altro possibile, nell’ambito di quanto statuito da quest’atto, prevedendo eventualmente delle cautele maggiori se lo esigono le circostanze territoriali (penso, ad es., alle zone lombarde) ovvero lo richiedano le specificità dei riti praticati (come è stato, ad es., per l’Eparchia di Lungro).

Veniamo al punto controverso che concerne propriamente la distribuzione della Comunione.

Il punto 3.4 stabilisce: «La distribuzione della Comunione avvenga dopo che il celebrante e l’eventuale ministro straordinario avranno curato l’igiene delle loro mani e indossato guanti monouso; gli stessi – indossando la mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza – abbiano cura di offrire l’ostia senza venire a contatto con le mani dei fedeli».

Quel che emerge, in primo luogo, è il carattere esortativo della disposizione de qua. I verbi adoperati “avvenga” e “abbiano cura” esprimono l’idea di una raccomandazione, di un suggerimento, di esortazione paternalistica, ben diversa, dunque, da quella dell’obbligo stringente (non dice, infatti, “deve avvenire” né si adoperano forme verbali similari a questa). Avendo, dunque, valore esortativo, il celebrante potrebbe eventualmente anche decidere di non avvalersi di questo suggerimento, anche perché – come detto – non è prevista ex se alcuna sanzione in caso di sua violazione né potrebbe intervenire alcun’autorità dello Stato ad esigere il rispetto di quella specifica prescrizione, non essendo il Protocollo fatto proprio dallo Stato in un atto normativo o regolamentare/amministrativo.

Taluno (specie sacerdote), in effetti, si è lamentato, che non prenderà mai il Corpo di Cristo con un “preservativo” (vqui), anche perché, per quei guanti monouso, essendo venuti in contatto con le sacre specie e nel timore, che possano conservarne dei frammenti, si porrebbe la questione liturgico-canonica del loro smaltimento. Questo, infatti, non potrebbe avvenire nel fuoco o nella terra in luogo appropriato o nel c.d. sacrario (essendo i guanti solitamente in materiale non biodegradabile ed anzi inquinante) e, d’altro canto, si pone il problema, quantomeno morale, di evitare di incorrere nel delitto di cui al can. 1367 del codice di diritto canonico («chi profana le specie consacrate, […] incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica; il chierico inoltre può essere punito con altra pena, non esclusa la dimissione dallo stato clericale»). La codificazione del 1917 (can. 1306), non a caso, prescriveva che tutto ciò che fosse venuto in contatto con le sacre specie fosse accuratamente lavato da ecclesiastici e versata la relativa acqua nel sacrario o nel fuoco («calici, patene, purificatoi, palle e corporali […] se furono adibiti per la Messa, e questi ultimi tre prima del bucato [fossero] lavati da ecclesiastici, versandone l’acqua nel sacrario o nel fuoco»). Disposizione simile oggi si trova nel § 120 dell’Istruzione Redemptionis sacramentum («I pastori abbiano cura di mantenere costantemente puliti i lini della mensa sacra, e in particolare quelli destinati ad accogliere le sacre specie, e di lavarli piuttosto di frequente secondo la prassi tradizionale. È lodevole che l’acqua del primo lavaggio, che va eseguito a mano, si versi nel sacrario della chiesa o a terra in un luogo appropriato. Successivamente, si può effettuare un nuovo lavaggio nel modo consueto»). Per cui, è più che legittimo porsi la questione dello smaltimento dei guanti monouso, che dovessero venire in contatto con le specie eucaristiche così come con gli oli santi, nel caso della celebrazione dei Battesimi e dell’Unzione degli Infermi (una nota al punto 3.8 precisa: «Nelle unzioni previste nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo e dell’Unzione degli infermi, il ministro indossi, oltre alla mascherina, guanti monouso»).

Il Protocollo nulla stabilisce circa lo smaltimento di questi guanti. Sarebbe bene, dunque, che tanto la CEI quanto le conferenze episcopali regionali dettino delle disposizioni in proposito.

Tornando al punto in discussione, a parte la circostanza che esso, per come è formulato, si atteggia più ad una raccomandazione che non ad un obbligo, vi è la circostanza innegabile che nel Protocollo non si dica affatto che il sacerdote debba prendere il Corpo di Cristo, da distribuire ai fedeli, con i guanti monouso, ben potendo adoperarsi, per la distribuzione della Comunione, le c.d. pinze eucaristiche, vale a dire un utensile liturgico, da secoli utilizzato dalla Chiesa in tempi di pestilenze (vqui), come suggeriva, del resto, anche la diocesi di Milano (vqui). Nulla di scandaloso, quindi, che il sacerdote, preoccupato di frammenti, sia pur minimali, di Ostia sul guanto monouso, possa, per precauzione, adoperare quest’utensile liturgico, avendo cura, ovviamente, della sua sterilizzazione dopo ogni celebrazione.

Nel Protocollo, per di più, non si legge neppure – a stretto rigore – che l’Ostia sia distribuita solo sulla mano. La disposizione, in effetti, afferma solo che sia evitato il contatto con le mani dei fedeli – per coloro che prendono l’Ostia in mano – ma nulla si legge circa quei fedeli che assumono l’Ostia sulla lingua. Non essendoci, perciò, un divieto in tal senso, sembra potersi affermare che l’Ostia ben possa essere presa sulla lingua da parte dei fedeli. In questo caso, secondo buon senso, bisognerà evitare che la mano del celebrante o dell’eventuale ministro straordinario, ovvero le c.d. pinze eucaristiche, vengano in contatto con la bocca o la lingua del fedele. Per questo, i vescovi non potrebbero né imporre la Comunione sulla mano né vietare quella sulla lingua (vqui), come invece disposto da alcuni, come ad es., il vescovo pugliese di Conversano-Monopoli (vqui) senza che, nella sua diocesi, ci siano particolari esigenze sanitarie.

Taluno, inoltre, preso da devoto zelo, si spinge a suggerire che, al termine della distribuzione della Comunione, essendo le dita del sacerdote venute in contatto con il Corpo di Cristo, siano nettate, anziché con un qualche detergente, bensì ponendo «le dita su una piccola fiamma come indicava San Carlo Borromeo durante la peste che colpì Milano» (vqui). Preferiamo sorvolare su questa misura proposta, che va, evidentemente, storicizzata ed inserita nel suo contesto storico-sociale e culturale, tanto più che, in alternativa, a questo metodo “ustionante”, lo stesso Santo proponeva di lavare le dita in aceto preparato a tal fine, che si dovrà poi consumare nel fuoco (vqui).

Ancora un interrogativo. Qualcuno ha affermato che il Protocollo sarebbe applicabile solo alla distribuzione della Comunione all’interno della messa, mentre extra Missam, il sacerdote non sarebbe tenuto al rispetto di quanto stabilito dal punto 3.4. In realtà, a parte la circostanza che – va ribadito – questo punto anche all’interno della celebrazione eucaristica ha un mero valore di raccomandazione, sembra, comunque, potersi escludere che il punto 3.4 riguardi solo le celebrazioni eucaristiche. Esso – per come è formulato – concerne, infatti, tutte le ipotesi di distribuzione della Comunione. Ce lo conferma il punto 3.8, secondo cui: «Il richiamo al pieno rispetto delle disposizioni sopraindicate, relative al distanziamento e all’uso di idonei dispositivi di protezione personale, si applica anche nelle celebrazioni diverse da quella eucaristica o inserite in essa», come nel caso, ad es., di Battesimi, Matrimoni, ecc.

Quelle misure, dunque, valgono pure «nelle celebrazioni diverse da quella eucaristica», come potrebbe essere la Comunione al di fuori della S. Messa.

Basterà adoperare, in fondo, le disposizioni cum grano salis e secondo buon senso.

In questo modo, la Chiesa sparirà, però igienizzata

“VADEMECUM PER UNA MESSA IGIENIZZATA. La Diocesi di Brescia diffonde questo splendido prontuario per i fedeli, spiegando come recarsi in chiesa per la Messa, facendo in pratica passare la voglia ai tiepidi. Le somiglianze con la chiesa cinese guidata dal regime comunista cinese sono sempre più evidenti. Tornerà una chiesa igienizzata e igienizzante, nel senso che spazzerà via quel briciolo di Fede rimasta” (Cit.).

“A casa vicini vicini sul divano, ma in chiesa ad un metro e mezzo di distanza. E poi, quando si esce, se tuo figlio è rimasto indietro non puoi nemmeno aspettarlo. Devi sloggiare dal sagrato e fargli i segnali di fumo per farti vedere. Questi fan passare la voglia. Questi fan passare la gioia del recarsi in chiesa. A questo punto facciano le prenotazioni per poche famiglie alla volta, ma con messe vissute come Dio comanda, senza sembrare i buoi al pascolo che vengono guidati nella stalla. Andremo a messa una volta ogni due mesi, ma in maniera dignitosa” (Cit.).

“Che i familiari non possano sedersi vicini è una boiata incredibile, non solo per l’assoluta mancanza di logica, ma anche perché così si sprecano un sacco di posti utili. Sui guanti non dico niente perché è al di là del bene e del male. Voglio vedere cosa fanno, se i fedeli si rifiutano di aderire a questa messinscena, francamente al limite del sacrilegio” (Cit.).

“Meglio continuare a prenderla per tv. Questa non è messa ma una corsa ad ostacoli” (Cit.).

Coronavirus, boom intossicazioni da disinfettanti: +65% Sos a centro antiveleni
ADNKRONOS, 24 marzo 2020
Con l’emergenza coronavirus e la crescita vertiginosa dell’uso dei disinfettanti per proteggersi dal rischio contagio, crescono anche le intossicazioni. E ad accorgersene sono proprio i centri antiveleni, perché si impennano anche gli Sos. L’allarme arriva da uno dei più importanti, quello attivo all’ospedale Niguarda di Milano: dall’inizio dell’emergenza le richieste di consulenza per intossicazione da disinfettanti è aumentata “del 65% circa – spiegano dalla struttura – e fino al 135% nella fascia di età inferiore ai 5 anni”.
Segno che il tentativo di fermare il virus ha in diversi casi indotto comportamenti pericolosi, ragionano gli esperti del centro che è uno dei riferimenti italiani per la diagnosi e il trattamento di intossicazioni acute. “C’è chi seguendo tutorial online e ‘ricette fai da te’, prepara miscele di sostanze chimiche non compatibili tra loro – spiega Franca Davanzo, direttore del Centro antiveleni di Niguarda, servizio attivo da oltre 50 anni – Chi imbeve le mascherine con quantità eccessive” di disinfettante “e poi le indossa, inalando un elevato dosaggio di sostanze chimiche. C’è anche chi, e sono purtroppo i casi più frequenti, riempie la casa di bottiglie di disinfettanti commerciali o preparati artigianalmente, e li lascia, magari in bottigliette non etichettate, alla portata dei bambini”.
Proprio i più piccoli risultano i più esposti, evidenzia il centro antiveleni dell’ospedale milanese a proposito dell’incremento del 135% delle intossicazioni pediatriche rilevato. “Proprio per loro dobbiamo prestare la massima attenzione, i più piccoli infatti trovano in casa questi contenitori non custoditi e li ingeriscono accidentalmente”, ammonisce Davanzo.
In questi casi, conclude l’esperta, valgono le raccomandazioni di sempre: non lasciare i contenitori dei prodotti alla portata dei bambini e in caso di ingestione prima di recarsi in pronto soccorso è bene chiamare il centro antiveleni (il numero di quello del Niguarda è 02-66101029). In questo modo la gestione telefonica dell’emergenza consente di capire se è necessario o meno un successivo accesso al pronto soccorso.

«L’igiene ha una componente compulsiva e catartica. La guerra contro il famoso “nemico invisibile” deve senza meno essere associata a potenti armi fisicochimiche. Ozono, cloro, fluoro, ammonio… ogni molecola si può arruolare purché degradi il terribile genoma virale. Eppure i virus sono costituiti da acidi nucleici e proteine, gli stessi ingredienti primitivi che costituiscono i nostri tessuti e quelli dei batteri simbionti che costituiscono la nostra barriera difensiva contro i patogeni. Trovo curioso questo affanno nel voler nebulizzare i disinfettanti persino sull’asfalto delle strade, come nell’intento di distruggere quei ponti e quelle infrastrutture che permetterebbero l’avanzata delle truppe nemiche. La questione ultimante riguarda più la psichiatria che la microbiologia…» (Edoardo Romani).

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