Giovanni Paolo II, quindici anni dopo | di Andrea Gagliarducci

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Giovanni Paolo II, quindici anni dopo
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 2 aprile 2020

paradossi della storia sono incredibili. Quindici anni fa, piazza San Pietro era gremita di giovani in preghiera, tutti tesi verso la finestra del Palazzo Apostolico dove Giovanni Paolo II stava esalando gli ultimi respiri. E poi, all’annuncio della morte, rimasero lì, a cantare, a pregare, come avevano fatto in maniera spontanea per tanti giorni.
Quindici anni dopo, quella stessa piazza è vuota, come lo è la Basilica di San Pietro, e la tomba di San Giovanni Paolo II, generalmente meta di pellegrinaggi e messe costanti, ha solo pochi passanti che possono accedere alla basilica dal Vaticano che possono pregare.
È un passaggio simbolico dal rumore al silenzio, dalla Chiesa trionfante alla Chiesa in silente preghiera. Ma è un passaggio che riguarda proprio la Chiesa, oggi più che mai chiamata a riflettere sul ruolo che ha nella storia.
Giovanni Paolo II aveva portato la Chiesa sul palcoscenico del mondo. Attore di teatro in gioventù, con un carisma tale da riempire una stanza con la sua sola presenza, il Papa polacco aveva traghettato la Chiesa nel terzo millennio con il suo entusiasmo di giovane Papa, la voglia di evangelizzare, lo scopo mai nascosto di andare a sostenere ogni Chiesa locale, negli angoli del mondo più sperduti.
Era una Chiesa in continua missione, sempre pronta a partire per viaggi che oggi ci sembrerebbero interminabili. Era una Chiesa che viveva ancora nel mondo dei due blocchi, che doveva sopravvivere oltre cortina, ma che viveva situazioni simili in molte parti del mondo: dalla politica teologia della liberazione in America del Sud alle prese di posizione politiche dei vescovi degli Stati Uniti, dalla situazione della Chiesa sotterranea in Cina alle discriminazioni che i cristiani vivevano in India, fino alle sfide del giovane continente africano.
Uno dei mezzi di comunicazione di Giovanni Paolo II erano appunto i viaggi. Servivano a dimostrare che il Papa è vicino, che il Papa è presente, che la Chiesa c’è. Servivano a testimoniare una presenza della Chiesa che non si ritraeva dal mondo, ma che anzi voleva essere viva, guidare, portare gli uomini a vivere Cristo, secondo il loro grande potenziale, che in termini di dottrina sociale è chiamato sviluppo umano integrale.
Ma i viaggi non erano il solo mezzo di comunicazione. Giovanni Paolo II parlava con i gesti, ma parlava anche con i concetti. La cultura non era secondaria, e così non lo era la teologia. L’insegnamento delle verità della Chiesa era parte della missione, la misericordia e le richieste di perdono si accompagnavano con l’affermazione della realtà della Chiesa di Cristo.
Quello di Giovanni Paolo II era un progetto a lungo termine, un traghettamento al di là delle paludi del dibattito del dopo Concilio Vaticano II. Al di là delle terminologie politiche, per ritornare al catechismo. Al di là del dibattito progressisti / conservatori, per ritornare alla fede.
Era un progetto complesso, difficilissimo da comprendere e da raccontare. Oggi come allora, i media avevano bisogno di grandi gesti, di titoli, e tutti erano felici perché Giovanni Paolo II ne forniva a profusione, con le moltissime “prime volte”, con le sue aperture, con i gesti profetici.
Eppure c’era un Giovanni Paolo II odiato dalla stampa, un Giovanni Paolo II così criticato che un giornale americano arrivò a titolare “We like the singer, not the song” (Ci piace il cantante, non la canzone) per dire che no, mica erano d’accordo con tutto ciò che Giovanni Paolo II diceva, ma in fondo il personaggio Papa piaceva, e pure tanto.
Quindici anni fa, però, Giovanni Paolo II consegnava una Chiesa trionfante sui media. Cosa era successo? C’era stata la malattia, c’era stata la compassione, c’era stata la grande storia del Papa stoico che aveva preso il sopravvento su tutto. Gli ultimi anni di Giovanni Paolo II erano anche stati caratterizzati da un costante posizionamento di vari attori vaticani, persone che già si preparavano al dopo con il piglio dei politici e che perciò davano alla cronaca vaticana quella prospettiva politica che tutti i giornali gradiscono.
Ci ero cascato anche io. I giorni della morte di Giovanni Paolo II erano quelli in cui, da giovane giornalistacominciavo per la prima volta ad osservare cosa avveniva nella cronaca vaticana e dintorni. Ero affascinato dalle teorie del dopo Concilio, mi nutrivo di libri come “L’altro Wojtyla” di Giancarlo Zizola, che davano una lettura suggestiva, ma parziale, dei fatti.
Prendevo molti dettagli, mi mancava il quadro generale. O meglio, mi mancava la ricerca del quadro generale, perché in fondo il quadro generale è qualcosa che cerchiamo sempre e non troviamo mai.
La narrativa su Giovanni Paolo II era la narrativa di una Chiesa trionfante perché leggeva la Chiesa in termini epici, ma ai margini della storia. Sopra  tutto c’era lui, il Papa malato, e non c’erano le grandi sfide che la Chiesa affrontava. Tutto cancellato, tutto silenziato.
Giovanni Paolo II non poteva essere compreso perché tutto il racconto, intorno a lui, aveva una matrice ideologica. Una narrativa così elogiativa da far perdere il senso delle cose, o così dispregiativa da non cogliere per niente nel segno. Era una civiltà dell’immagine che si nutriva di immagine. E, in fondo, dopo il Grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II aveva semplicemente continuato a lavorare su quello che aveva sempre lavorato.
Perché il Giubileo era il culmine di un percorso che era passato anche per la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica e l’enciclica Veritatis Splendor, e che aveva guardato alle grandi sfide del millennio con la Novo Millennio Ineunte. Una enciclica che metteva, ancora una volta, Cristo al centro di tutto.
Ma tutto si era perso, nei grandi rivoli della narrativa, e chiunque sarebbe succeduto a Giovanni Paolo II sarebbe stato vittima di questa narrativa. I cardinali scelsero Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, che nasceva Papa sotto il pregiudizio di essere ancora più conservatore di Giovanni Paolo II, e che pure è stato colui che più di tutti ha portato avanti il programma di Giovanni Paolo II.
Benedetto XVI non comunicava con i viaggi e con i gestiComunicava con le parole, e con i suoi libri. Ha fatto grandi gesti, ma spesso li ha fatti quasi nel nascondimento. Non amava l’esposizione mediatica, perché fermamente convinto che al centro di ogni messaggio ci dovesse essere Cristo, prima di lui, e che lui, come Papa e difensore della fede, aveva il compito di cercare la verità e indicare la via verso la verità.
È stato un approccio diverso, che forse non ha fatto tanta presa sui media secolari, ma ha colpito i fedeli, ha colpito coloro che volevano andare oltre la narrativa. Benedetto XVI lo disse a Joaquin Navarro Valls, lo storico portavoce di Giovanni Paolo II: “Dovremo cercare di fare in modo che una idea sia più importante di una immagine”.
Si trattava di una sfida complicatissima, che aveva luogo mentre i media si moltiplicavano, e il flusso di informazioni diventava sempre più veloce. Si trattava di una sfida complicatissima. Giovanni Paolo II copriva tutto con il suo carisma, con la sua popolarità, ma gli attacchi non mancavano ed erano durissimi. Erano anche tempi diversi, con meno pervasività dei media.
Benedetto XVI creava scompiglio con i suoi ragionamenti lucididifficilmente notiziabili perché di una finezza straordinaria, ma allo stesso tempo subiva ogni tipo di attacchi. L’annus horribilis del 2010, con le campagne di stampa continue che prendevano ogni minimo dettaglio di possibile copertura di abusi, ne era una dimostrazione.
Eppure, si trattava di una Chiesa che continuava ad essere ascoltata, e lo dimostravano proprio gli attacchi continui, costanti, che mostravano come ogni parola, ogni sfida fosse dolorosa per la società di oggi. Ma era una Chiesa sotto attacco, e forse con poca forza di stare sotto attacco.
Con Papa Francesco si cercò un cambio di narrativa, hanno detto alcuni cardinali. Ed è stato un cambio di narrativa basato sui grandi gesti, sulla Chiesa in uscita, sulla volontà di rendere il Papa più vicino alle persone, più “pop” se vogliamo dire (così pop che si è guadagnato persino la copertina di Rolling Stone).
In questa ricerca del Papa pop, si è arrivati persino a sovrainterpretare Papa Francesco, a non cercare di comprenderlo per quello che veramente è. È una Chiesa che guadagna popolarità grazie al Papa, ma quanti dei documenti che vengono pubblicati oggi, quanti degli interventi dei vescovi e dei dicasteri vaticani, sono davvero ricordati e oggetto di dibattito?
È una Chiesa che Papa Francesco porta verso un futuro di grandi gesti e di aperture al dialogo, secondo la ben nota formula della “cultura dell’incontro”. Ma resta la domanda  di fondo: quest’ansia comunicativa, questa necessità di andare verso il popolo,  sarà davvero vincente? Porterà più fedeli o più persone nelle piazze?
La domanda è imponente, quindici anni dopo la morte di San Giovanni Paolo II. Ci si trova di fronte ad una piazza vuota, ad una basilica vuota, mentre mai i vescovi sono stati così presenti sui media, con messe mandate in diretta continuamente per sopperire all’impossibilità per i fedeli di partecipare alla Messa.
Ma la piazza vuota può anche simboleggiare la necessità per la Chiesa di ripartire da se stessa. Perché Giovanni Paolo II aveva uno stile popolare, ma non faceva una Chiesa di popolo. Puntava ad una Chiesa centrata su Cristo, rispettosa degli insegnamenti del Vangelo da portare avanti fino in fondo. Era una Chiesa che chiedeva a tutti di elevarsi al livello del Vangelo. E ci voleva cultura, capacità, competenza, oltre che fede e misericordia. E questo, al di là di tutto, è quello che contava veramente.
Quindici anni dopo, ci si trova a chiedersi se la grande eredità di Giovanni Paolo II  sia stata realmente raccolta dalla Chiesa. Di certo, se lo è stato, non si è saputo comunicarla.

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