Sars-CoV-2. Il tema della proibizione delle Messe. Una discussione tra giuristi

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Il tema della proibizione delle Messe, legata alla drammatica emergenza Coronavirus/Sars-CoV-2/Covid-19, continua a far discutere nel mondo cattolico sulla Santa Messa e la posizione assunta dalla Conferenza Episcopale Italiana. La discussione si è arricchita in questi giorni di numerosi interventi. Oggi, Marco Tosatti ha pubblicato sul suo blog Stilum Curiae la risposta che l’Avv. Fabio Adernò offre al suo collega Francesco Patruno, che ieri era intervenuto per commentare il post del 23 febbraio 2020 su Facebook di Adernò (L’indecenza di non far celebrare la Messa), che avevo incluso nel mio articolo del 24 febbraio 2020 (Combattere il Coronavirus 2019-nCoV con il Rosario e con la Santa Messa. Adesso più che mai e più di prima).
Condivido, dopo l’intermezzo “La danza macabre”, i tre interventi dei due giuristi.

La danza macabre

Dipinto di Frans Francken de Jonge (il Giovane), “De Dood nodigt de oude rijkaard uit voor de laatste dans” (La morte invita il vecchio ricco all’ultima danza), XVII secolo, Museo della Banca nazionale del Belgio, Brussel. In primo piano vediamo un uomo ricco che conta i suoi soldi ed è scioccato quando vede la morte. La morte è presentata come uno scheletro e suona il violino. Si appoggia su una clessidra con un piede, indicando che al ricco non rimane molto tempo prima di morire. Sullo sfondo vediamo un giovane che incontra la morte e che potrebbe rappresentare il vecchio nella sua giovinezza, confrontato con la sua mortalità, ma “guadagnando” tempo. Potrebbe anche essere un altro giovane, per chiarire che la morte può venire in qualsiasi momento, indipendentemente dall’età. Queste rappresentazioni fanno parte della tradizione medievale del “Memento mori” (Ricordati che morirai) e della “Danza macabra”.
Il dipinto aveva una funzione moralizzante, ricordando al suo pubblico che la vita e tutte le ricchezze terrene sono deperibili. Nel Medioevo, la transitorietà della ricchezza terrena era uno dei temi preferiti nell’arte. Oltre a questo dipinto, la collezione del Museo della Banca nazionale del Belgio contiene anche una serie di incisioni o stampe che avevano lo scopo di incoraggiare le persone a condurre una vita esemplare e religiosa, invece di dedicarsi a piaceri terreni, come la ricchezza. Nella tradizione cristiana, la salvezza dell’anima, a differenza della ricchezza, è durata per sempre.
Il tema della “Danza macabra” si basa su un’allegoria tardo-medievale, che consiste nella morte o in una personificazione della morte che convoca i rappresentanti di tutti i ceti sociali a ballare presso la tomba, in genere con un papa, un imperatore, un re, un bambino e un lavoratore, per ricordare alle persone la fragilità delle loro vite e quanto vane fossero le glorie della vita terrena. Le sue origini sono postulate da testi di sermoni illustrati. Il primo schema visivo registrato era un murales ormai perduto nel Cimitero dei Sacri Innocenti a Parigi, dal 1424 al 1425.
Il “Danse macabre, Opus 40″, è una poesia per orchestra, scritta nel 1874 dal compositore francese Camille Saint-Saëns. È iniziato nel 1872 come una canzone d’arte per voce e pianoforte con un testo francese del poeta Henri Cazalis, basato su un’antica superstizione francese. Nel 1874, il compositore espande e rielabora il brano in una poesia di tono, sostituendo la linea vocale con una parte di violino solista. Danse macabre, come tema, doveva rappresentare come la morte fosse il grande equalizzatore sociale – nessuno sfugge alla danza con la morte – e c’erano un certo numero di dipinti e opere d’arte ispirati da questa filosofia. Quando Saint-Saëns inizialmente scrisse il suo Danse macabre, in realtà era una canzone d’arte. Henri Cazalis scrisse versi come “Le ossa dei ballerini si sentono spezzare”, ma due anni dopo Saint-Saëns sostituì la voce con il violino e la dissonanza aumentò la sua tensione.
“Ne timueris cum divite non descendet in sepulcrum gloria eius – Non temere, il denaro non scenderà con il ricco nel sepolcro” (Cfr. Salmo 48,14-21).

Il post su Facebook dell’Avv. Fabio Adornò del 23 febbraio 2020: L’indecenza di non far celebrare la Messa
Molte Diocesi del Nord si stanno affrettando a sospendere le celebrazioni, applicando evidentemente in modo supino il decreto legge varato ieri notte, quasi che le Messe fossero partite di calcio o manifestazioni sociali.
Tale decisione è un’offesa al Creatore, perché lo Si priva del culto dovuto e soprattutto è una manifestazione di mancanza di senso di trascendenza e di fiducia nell’opera salvifica della Provvidenza e dell’azione di Dio nella storia dell’Uomo.
Applicare criteri preventivi e cautelari è sacrosanto per tutelare il bene della vita, e vanno evitate le imprudenze e le superficialità, ma d’altra parte non ha alcun senso non fare celebrare la Santa Messa, che è Sacrificio anche espiatorio offerto per la remissione dei peccati, il ristabilimento dell’amicizia con Dio, ma anche per invocare la concessione di grazie come la corporale guarigione o debellare malattie e pestilenze.
Sospendere le celebrazioni delle Messe vuol dire abbandonarsi inermi alla desolazione, all’immanenza, vuol dire privare le anime del giusto conforto, del soprannaturale sostegno… quando invece i frutti spirituali di quel Sacrificio gioverebbero senz’altro allo spirito.
D’altra parte, amaramente si constata come sia sempre più lontano dall’attuale modernistica visione “ecclesiale” concepire di celebrare la Messa e non distribuire la Santa Comunione… diversamente invece da come insegna la storia della Chiesa, da sempre saggia nel favorire la moltiplicazione delle celebrazioni anche in contemporanea, e prudente nel consigliare di evitare la distribuzione laddove le condizioni fossero sconvenienti per i più vari motivi.
Una tale visione nega la trascendenza di quel Sacrificio sublime, e lo riduce ad “azione” umana che “vale solo” se “partecipato”. Ma questa non è la Messa secondo la dottrina Cattolica.
E la Messa non vale in proporzione al numero di comunioni che si fanno; la Messa ha un valore inestimabile e produce effetti infinitamente più grandi di tutte le nostre miserie.
Si celebrino, dunque, Messe su Messe, senza distribuzione.
I fedeli facciano comunioni spirituali e offrano al Signore questa rinuncia.
E Iddio abbia misericordia di noi.
Fabio Adernò

La risposta dell’Avv. Francesco Patruno al post dell’Avv. Fabio Adernò, 11 marzo 2020
Gentilissimo Dott.Tosatti,
ho letto il contributo del collega Adernò. E francamente mi ha lasciato alquanto perplesso. In primo luogo, la disposizione di legge del decreto legge governativo non si indirizza solo ai cattolici, ma a tutte le confessioni. Anche le riunioni degli ebrei, per dire, sono vietate.
La legge non parla di “cerimonie cattoliche”, ma latu sensu di “cerimonie religiose”, senza qualificare se queste siano cattoliche ebraiche o valdesi o ortodosse. Tanto è vero che anche le confessioni diverse dalla cattolica hanno adottato misure simili:
Leggete qui
E qui
E anche qui
E qui
Inoltre qui
E infine qui
Non vi è alcuna violazione della libertà religiosa dei cattolici né violazione di legge né di Costituzione perché anche altre norme di legge qualificano le celebrazioni religiose. Ad es., il Testo Unico delle legge di Pubblica Sicurezza parla di “cerimonie religiose” all’art. 25. E l’art. 26 di questo testo di legge sancisce che il questore possa vietarle per ragioni di sicurezza e sanità pubblica. Ovviamente, il riferimento è a situazioni locali.
Per cui non vi è nessuna violazione di legge quando il decreto legge parla di “cerimonie religiose”, visto che è la terminologia adoperata anche da altri testi legislativi.
Non ritengo poi che vi sia alcuna violazione della libertà religiosa, perché la stessa Costituzione consente limiti “per motivi di sanità o sicurezza” alla libertà di circolazione dei cittadini (art. 16) e di riunione in luoghi pubblici (art. 17). L’art. 120 sempre della Costituzione prevede poteri del Governo di sostituirsi alle regioni, in caso – tra l’altro – di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Peraltro, l’art. 9, comma 2, della Convenzione europea per i diritti dell’uomo stabilisce: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
La Convenzione europea, nell’ambito italiano, assume valore cogente ed interpretativo delle stesse norme costituzionali, se non quasi di valore equivalente (essendo stata la Convenzione richiamata anche dalla Costituzione dell’Unione Europea).
Essa, dunque, prevede limitazioni alla libertà di manifestazione della propria religione per ragioni di salute o morale pubbliche.
Quanto alla Chiesa non so se essa si sia mostrata accondiscendente verso lo Stato. Certamente, essa ha interpretato – come giusto che facesse – l’espressione “cerimonie religiose” con “celebrazioni eucaristiche”. Per cui, la sua competenza interpretativa, che invoca l’Adernò, è stata formalmente mantenuta.
Quel che certamente non ha la Chiesa è la competenza sanitaria per poter giudicare se vi sia o no uno stato di emergenza in materia sanitaria o che vi sia un’epidemia o un pericolo per la salute pubblica. Non ha questo compito la Chiesa. Sono eccessive le misure di sospensione pubblica delle celebrazioni cultuali? Non so dirlo, anche perché la bontà o meno di simili sospensione ce lo potrà dire il tempo: se l’epidemia rientrerà, tanto di guadagnato.
La Chiesa avrebbe potuto fare di più? Non so se avrebbe potuto far di più.
Avrebbe potuto dire allo Stato: chiudi anche i ristoranti ed i bari? Forse. Ma anche qui non competeva alla Chiesa dirlo, visto che, in quel caso, sarebbe entrata a gamba tesa nell’ambito delle scelte politico-sanitarie del governo.
Certamente abbiamo l’esempio di della peste manzoniana: la processione del corpo di S. Carlo per le vie di Milano, guidata dal celebre cardinal Federigo, contro il parere dei medici come Ludovico Settala, nel giugno 1630, lungi dal far diminuire i contagi, li fece esplodere, perché, all’epoca, non si conosceva nulla di virus e batteri e si pensava che il morbo si diffondesse per opera degli untori, cioè per opera umana e quindi per evitare i contagi fosse sufficiente tener sotto controllo i soggetti, attenzionandoli qualora fossero individuati soggetti sospetti. Famoso è il caso del vecchietto linciato dalla folla perché sorpreso a spolverare la sua panca nella chiesa di S. Antonio in Milano. E per chi è di Milano la storia della colonna infame dovrebbe essere illuminante sulla credenza dell’epoca.
Forse si poteva far di più? Ne dubito. Ma forse sì: richiamando i fedeli al fatto che il digiuno forzato di Eucaristia è un sacrificio che si può sopportare per il bene, oltre che nostro, anche del prossimo, perché a noi è dato l’onere di custodire la vita del prossimo. E chi è il prossimo? In primo luogo chi ci vive accanto: soprattutto i soggetti più deboli, quali i bambini e gli anziani ed i malati delle nostre famiglie. E poi gli amici, i colleghi di lavoro ed infine anche gli immunodepressi, cioè coloro che, per varie patologie, sono più esposti a contrarre malattie virali. Ed un contesto sociale malato ed in cui è diffusa la malattia, li espone più di altri, facendo rischiare loro la terapia intensiva. E magari anche la morte.
Noi possiamo rischiare per noi stessi. Ma nessuno vive in un’isola deserta, per cui una persona può rischiare per se stessa e magari tutto finisce lì. Noi viviamo in un contesto sociale e familiare, che ci impone di badare anche alla salute di chi ci è vicino a noi. Per cui, anche se volessimo rischiare noi in prima persona, non lo possiamo fare, perché la nostra condotta espone a rischio anche chi è a fianco. L’amore a Dio passa attraverso l’amore per il prossimo. E amore del prossimo significa volere il bene del prossimo, non già nuocergli o esporlo a pericolo, anche involontario.
E poi se volessimo dirla tutta, non è problema quello di non poter assistere alla Messa poiché ci son stati cattolici che si sono santificati senza mai vedere una Messa (tipo i cattolici dormienti del Giappone, che per oltre due secoli non poterono avere un sacerdote) e non è nemmeno il poter fare o no la comunione poiché molti santi del passato (ad es., i santi padri anacoreti nel deserto) facevano la comunione e si riunivano per la sinassi sì e no due o tre volte all’anno e forse anche meno.
Quindi, è un falso problema quello di non poter assistere alla messa o non poter fare la Comunione.
Francesco Patruno

La risposta dell’Avv. Fabio Adernò del 12 marzo all’Avv. Francesco Patruno dell’11 marzo 2020
Caro Tosatti,
riscontro il contributo del collega Francesco Patruno il cui punto di vista, tuttavia, non incontra, da parte mia, ammissibilità in ordine alla questione de qua.
Nello spirito dialettico tra giuristi, dunque, ma tenendo anche conto delle competenze di ciascuno, mi permetto, sollevare – pur senza alcuna vena di polemica – alcune obiezioni in risposta a quanto osserva l’avv. Patruno, che certamente opera diligentemente nell’ambito del “diritto civile, pubblico ed amministrativo in genere, e nello specifico della contrattualistica, del diritto familiare, della giuslaboristica, della responsabilità civile e nell`ambito del diritto dell’edilizia-urbanistica” (come leggiamo sulla pagina ufficiale del sito del suo studio legale), ma al quale forse sfuggono le spigolature di natura canonistica del mio intervento, gentilmente ospitato nella Sua apprezzata Rubrica Stylum Curiae.
Procederò il più possibile sinteticamente poiché questa non è la sede opportuna per dissertazioni aulicamente ampie su questioni tecniche.
Innanzitutto va chiarito che il punto di vista dal quale si osserva la questione è non tanto genericamente giuridico quanto squisitamente canonistico ed ecclesiasticistico, e cioè tanto strettamente concernente il Diritto proprio della Chiesa Cattolica quanto quello dell’ordinamento che regola i rapporti, in Italia, tra lo Stato e la Chiesa medesima.
Per tale ragione ho espressamente escluso la questione di altri luoghi di culto potenzialmente interessati dall’applicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo nel quale, all’art. 2, lettera v, si dispone «[…] Sono sospese le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri».
Assodato, dunque, che il punto di analisi del sottoscritto è quello prettamente cattolico, si osservava (e contestava) l’indebita ingerenza dell’autorità statuale governativa (critica peraltro richiamata e condivisa anche, tra molti, da un assai equilibrato articolo sul Corriere della Sera a firma del prof. Andrea Riccardi) nella questione interpretativa della norma dispositiva di cui sopra, e soprattutto si sollevava una questione di legittimità in ordine al fatto che la nota emanata nella stessa data dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI sosteneva di aver ricevuto “dal Governo” l’interpretazione dell’espressione “cerimonie religiose”: «L’interpretazione fornita dal Governo – si legge nel testo della nota – include rigorosamente le Sante Messe e le esequie tra le cerimonie religiose».
Il punto che si contesta è esattamente questa supina accettazione d’una ingerenza indebita che contrasta e con la Costituzione (art. 7) e col regime concordatario vigente in Italia (Accordo, art. 2, 1 e 3), poiché – di fatto – non è la Chiesa in via libera, indipendente e autonoma che decide e dispone regolando il culto ma si uniforma ad una interpretazione fornita dal Governo che – lo ribadiamo – non ha alcuna potestà qualificativa ed esplicativa dell’espressione “cerimonia religiosa”.
D’altra parte , come nota opportunamente il prof. Riccardi nel citato articolo «La liturgia della Chiesa è una delle «cerimonie»? L’apertura dei luoghi di culto nel decreto è saggiamente condizionata all’ampiezza e alla distanza tra i presenti. Giusto evitare gli affollati funerali. Ma non si capisce, perché siano interdetti culto e preghiere, se celebrati in sicurezza. Forse non tutti i decisori penetrano il senso peculiare della messa per i credenti, di cui gli antichi martiri dicevano: «Sine Dominicum non possumus»». E continua molto logicamente: «Le Chiese in Italia non sono la setta sudcoreana, dove si prega ansimando e tenendosi per mano e dov’è avvenuto il contagio, tenuto segreto. Un aspetto serio tocca i rapporti tra Stato e Chiesa: «Ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Può lo Stato disporre sulle «cerimonie» in chiesa? Si sfiora il giurisdizionalismo, ispirato certo da prudenza ma che non considera una visione olistica della persona e della sua tenuta. È certo un vulnus in un sistema di relazioni, su cui tornare.»
La questione, dunque, è sollevata in ordine alla legittimità dell’interpretazione e alla sua successiva assunzione deresponsabilizzante da parte dell’Autorità Ecclesiastica (peraltro, in punta di diritto, solo parzialmente competente per territorio attesa la legittima e intangibile autonomia dei singoli Ordinari Diocesani per i territori loro sudditi a mente del can. 838, §4 CIC).
Infatti, la “nota” dell’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali non è un Decreto Generale (di cui al can. 29 CIC) e ha solo un valore esortativo e non dispositivo; tant’è che ogni singolo Vescovo – a cominciare dal Cardinal Vicario per la Diocesi di Roma – ha successivamente emanato delle norme specifiche per il territorio di sua competenza, dando prova di differenti approcci e soluzioni uniti ad apprezzabili sensibilità pastorali, ma dimostrando, al tempo, un imperante stato confusionale di congestione che affligge l’ordinamento ed il sistema normativo interno alla Chiesa.
Il collega Patruno si ferma alla cortex verborum, e ritiene che il sottoscritto ce l’abbia col Governo perché avrebbe adoperato l’espressione “cerimonie religiose”. Tutt’altro: fa bene il Governo italiano ad adoperare quella espressione generica, ma non fa bene a “interpretare da sé” quella data espressione, poiché non è suo il compito di farlo, bensì dell’Autorità Ecclesiastica, che, per converso, sbaglia ad uniformarvisi: è questo ciò che si contesta, e che qui si specifica ulteriormente per sfatare la percezione errata che l’avv. Patruno ha avuto leggendo il mio intervento.
D’altra parte va anche notato che il riferimento fatto al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza è incongruente: nel testo richiamato, all’art. 25, si parla sì di «funzioni, cerimonie e pratiche religiose» ma «fuori dei luoghi destinati al culto ovvero processioni ecclesiastiche o civili nelle pubbliche vie», e quindi non all’interno di essi.
Parimenti, il seguente art. 26 fa esplicito rimando al precedente affidando al Questore la possibilità «di vietare, per ragioni di ordine pubblico o di sanità pubblica, le funzioni, le cerimonie, le pratiche religiose e le processioni indicate nell’articolo precedente» dunque da intendersi sempre e solo al di fuori dei luoghi di culto, e non al loro interno, ove la giurisdizione e il regolamento spetta solo all’Autorità Ecclesiastica, non avendo in essi lo Stato (a norma di Concordato vigente, cfr. art. 5, 1-2) una giurisdizione immediata.
La questione dell’infrazione mutilante il diritto di libertà religiosa e di libertà di culto riguarda esattamente la possibilità negata – non oggettivamente proporzionata alle misure applicate in via ordinaria per altre tipologie di luoghi pubblici e contesti, quali ad esempio i bar e i ristoranti (dove, peraltro, in linea di principio le modalità di contagio sono teoricamente esponenziali) – di accedere al libero esercizio del culto pubblico, costringendo di fatto i fedeli cattolici alla sola preghiera personale e domestica, magari fruendo di pur lodevoli iniziative virtuali proposte da più realtà ecclesiali (come la Messa in diretta su YouTube o su altri canali social), in anomala contrapposizione con l’intima natura collettiva-comunitaria-assembleare della Chiesa.
Ritengo sia sofistico sostenere che non vi è lesione del diritto di libertà religiosa e, dal punto di vista canonico, della Libertas Ecclesiae, nel momento in cui, da una parte, il Governo dispone e interpreta esso stesso la norma senza averne diritto, e dall’altra la Conferenza Episcopale nazionale si rimette a tale interpretazione applicando in modo pedissequo la misura restrittiva del culto pubblico all’interno delle Chiese, costringendo di fatto i fedeli a non poter fruire ordinariamente dei mezzi salvifici la cui amministrazione non può in alcun modo essere contingentata poiché risponde ad un bene infinitamente superiore, sovraordinato e indisponibile che, com’è arcinoto, è la salus animarum.
Il collega Patruno, infatti, sembra non cogliere la cogenza imperativa della norma di chiusura del Codice canonico che peraltro, anche se non fosse stata positivizzata, varrebbe ugualmente poiché è disposizione divina del Fondatore e Capo Invisibile della Chiesa: essa impone che in qualsiasi circostanza non vengano meno i mezzi spirituali, come d’altra parte conferma tutta la storia e la prassi disciplinare sacramentale della Chiesa.
Fa sicuramente piacere, a tal proposito, che l’avv. Patruno ricordi pagine di manzoniana memoria e di storia ecclesiastica lombarda, tuttavia è proprio quell’esempio che dimostra il punto di vista necessariamente differente tra ordine temporale e ordine spirituale: se la Chiesa avesse ubbidito alle disposizioni secolari non avrebbe dovuto amministrare i sacramenti, chinarsi sui corpi purulenti degli appestati, gestire i lazzaretti, benedire gli infermi col Santissimo Sacramento, e dunque, in ultima analisi, avrebbe dovuto abbandonare il popolo di Dio al suo destino umano senza alcun genere di conforto per le anime. E invece, grazie al Cielo, non lo fece. E quelle anime, oggi, sono certamente in Paradiso.
La Chiesa cattolica – come ricordava stamattina Lorenzo Bertocchi su La verità (p. 13) – non può analogarsi ad una qualsiasi onlus o agenzia che “ubbidisce” alle disposizioni dello Stato, principalmente perché se ad oggi queste sono motivate da ragioni di salute pubblica, domani potranno essere fondate su altri e ben più opinabili motivi, ma aperto il varco, la frattura è segnata; specie se si considera la ben più significativa inquietante gravità che, in modo risalente, la disposizione governativa si basa su indicazioni della Organizzazione Mondiale della Sanità, che com’è noto non è certo in linea coi principi dottrinali e le posizioni morali della Chiesa Cattolica circa la salute corporale e le questioni sanitarie (contraccezione, controllo delle nascite, eugenetica, fecondazioni, etc.).
Provvidenzialmente, però, anche Papa Francesco, nell’omelia della S. Messa di ieri trasmessa in diretta dalla Cappella della Casa Santa Marta, ha ricordato che occorre ai sacerdoti «il coraggio di uscire e andare dagli ammalati, portando la forza della Parola di Dio e l’Eucaristia, e accompagnare gli operatori sanitari, i volontari, in questo lavoro che stanno facendo».
Tale dichiarazione di altissima rilevanza è in controtendenza con l’atteggiamento assunto dalla CEI e indicato alle singole Diocesi del territorio nazionale, ma anche con le recenti disposizioni di chiusura della Basilica di San Pietro, che invece avrebbe dovuto restare aperta sia per garantire il culto sia per permettere ai fedeli di non avere serrate le porte del cuore della Cristianità.
«Signore, da chi andremo?» dice la Sacra Pagina. E la posizione critica del mio intervento è fondata su questa insita preoccupazione, fortunatamente condivisa a più voci.
Leggiamo, infatti, di notizie tragiche per lo spirito e le coscienze, come il presidio poliziesco dei luoghi di culto, ma che sono preoccupanti anche da un punto di vista giuridico, perché sottendono ad un affiorante e preoccupante clima neo-giurisdizionalista.
Condivido, infatti, le preoccupazioni di Bertocchi nel suo articolo odierno su La verità e mi spiace molto che il collega Patruno non abbia colto il nocciolo della questione, che non è solo di carattere formale, ma sostanziale.
Anche lo stesso richiamo ad una presunta gerarchia delle fonti di riferimento non è condivisibile, innanzitutto perché le norme concordatarie hanno un rango superiore alle leggi richiamate in quanto frutto di accordo tra ordinamenti primari, ma soprattutto perché il principio pattizio che è stato costituzionalizzato all’art. 7 della Costituzione ha fissato forme di riserva in uno specifico ius singularis prevalente sulle norme costituzionali generali interferenti nella disciplina della stessa categoria di rapporti, riconoscendo dunque il principio ordinante e superiore dello stare pactis.
Non è questa la sede per discettare sulla natura dell’art. 7 della Carta Costituzionale; basti tuttavia qui rilevare che la richiamata Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non può derogare al principio pattizio, essendovi, per l’appunto, una esplicita riserva nell’ordinamento costituzionale dello Stato (e non tanto nella Costituzione formale). Il collega m’insegna, infatti, che proprio a ragione della riserva di legge del sistema concordatario, in Italia non si applica alle sentenze ecclesiastiche di nullità la l. 218/1995 circa i criteri per l’individuazione del diritto applicabile e disciplina l’efficacia delle sentenze e degli atti stranieri (cfr. Cass. civ., sez. I, 20.11.2003, n. 17595 e Cass. civ., sez. I, 2.8.2007, n. 16999).
Le obiezioni che sottopone il collega Patruno, dunque, non sono congruenti alla natura del problema posto in risalto, che verte – come ritenevo fosse già pacifico e come comunque qui confido di avere ulteriormente esplicitato – sull’origine della disposizione e sull’applicazione che se n’è fatta in Italia, quando al contrario vi erano soluzioni adottabili ben meno gravose per le coscienze dei fedeli, ad oggi smarriti e confusi, e alla ricerca di occasioni di preghiera.
Spiace constatare l’impietoso confronto con l’atteggiamento assunto sulla stessa materia dall’Episcopato polacco, del tutto opposto a quello italiano e, spiace dirlo, di gran lunga più in linea con uno dei canti firmi del pontificato di Papa Francesco, cioè l’apertura, la prossimità, in una Chiesa figurata come “ospedale da campo” che si “china sui fedeli feriti”, in chiave teologico-esistenzialista prima ancora che sociale.
Tale interpretazione è ulteriormente ribadita dalle parole del Santo Padre nel suo messaggio che oggi aprirà il momento di preghiera della Diocesi di Roma con uno specifico atto di impetrazione e affidamento alla Madonna del Divino Amore.
Si vorrà anche forse impedire, in questo clima di profondo timore poliziesco che viviamo, ai sacerdoti di portare l’Ostia Santa agli ammalati o il divino conforto ai moribondi in nome di una disposizione della pubblica sanità, applicando draconianamente magari dell’art. 27 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, mentre bar e ristoranti rimangono aperti e fruibili, quantunque con le note restrizioni? Si ritiene forse che i fedeli e i pastori siano così irresponsabili e incoscienti da voler il male del prossimo andando a Messa o pregando il Signore in una Via Crucis, pur mantenendo le precauzioni igieniche? Cosa avrebbe impedito di far sì che si evitassero le concelebrazioni di modo che ciascun sacerdote celebrasse la propria Messa a beneficio dei fedeli, moltiplicando così il numero delle celebrazioni fruibili anziché consentire solo quelle senza popolo? Perché mai – come ha scritto Bertocchi – trovarsi nelle surreali condizioni nelle quali «la libertà del caffè sembra superare la libertà religiosa» visto che «se per uscire di casa occorre autodichiarare che si va a fare la spesa… si prende forse la multa se si dice che si vuole andare a chiacchierare con un prete?» o, aggiungo io, col Padreterno e accedere alla comunione eucaristica?
L’approccio del collega Patruno – che rispetto come ogni opinione diversa dalla mia – è però limitato ad una visione giuridico-positivista, in ultima analisi, di stampo razionalista, poiché esclude ex ante il dovere della Chiesa di provvedere alle cure per l’al di là, non lasciando tuttavia alla sanità quelle per l’al di qua, in una visione unitaria d’un vero e sano umanesimo cristiano.
Ma soprattutto mi risulta del tutto incondivisibile l’ultima affermazione dell’avv. Patruno (che evidentemente racchiude lo spirito del suo punto di osservazione), vale a dire la relativizzazione, anzi più precisamente la minimizzazione del problema della mancata partecipazione alla Messa e la conseguente ordinaria privazione della Comunione eucaristica riportando esempi peraltro assai discutibili da un punto di vista storico-ecclesiastico. Al di là del fatto che la privazione della Comunione eucaristica per il fedele, ordinariamente, è una sanzione, va ricordato che le limitazioni del culto che le alterne vicende della storia hanno imposto in talune contingenze ai cristiani sono sempre state subìte dalla Chiesa sotto forma di persecuzione e di martirio, e mai scelte in modo deliberato con spirito relativista o arrendevole.
“Sine Dominco non possumus” hanno testimoniato con intrepida fede i 49 Martiri di Abitene nel 304, e per tale motivo il loro sangue e la loro testimonianza risuona ancora oggi come esempio luminoso e imprescindibile, insieme a quello dell’infinita teoria di Martiri e i Santi che non hanno mai derogato o abiurato ai principi di Diritto Divino in nome dell’osservanza delle leggi statali.
Se sciaguratamente si dovesse privare il Cristianesimo di tale natura “eroica”, lo svuoteremmo della sua essenza. E allora sì che una Messa in più o una Messa in meno non farebbe la differenza. Ma – fortunatamente per chi ci crede e, forse, un po’ meno per il collega – non è e non può essere così. Il problema è vero e tangibile, e non è per nulla falso. E non c’è nessuna attenuante né vi può essere alcuna indulgenza verso un sistema che, in modo subdolo, applica una “sospensione tecnica” delle libertà individuali e dei diritti di Dio.
Nessun rancore, ma capiamoci.
Fabio Adernò

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